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Perché in Libia è tornata la guerra
Scontro tra milizie per il controllo dell'aeroporto di Tripoli e delle riserve energetiche: jihadisti contro esercito, Misurata contro Zintan, tutti contro tutti. E restaurare la calma sembra un'impresa disperata.
Ci sono due immagini che fotografano lo stato delle cose, oggi, in Libia. La prima è la carcassa di uno dei tanti aerei distrutti dalle bombe, all’aeroporto di Tripoli. La seconda è il rogo di un deposito di carburante, 6,6 milioni di litri, colpito ieri da un razzo, incendio che rischia di innescare un disastro umanitario nella capitale dell’ex colonia italiana. Scene di guerra, insomma, perché la Libia è tornata in guerra, un conflitto a bassa intensità mediatica, di fronte alla “concorrenza” di Ucraina e Gaza. Il bollettino redatto dal ministero della salute parla di 97 morti e 404 feriti nelle ultime due settimane, ossia da quando le milizie di Misurata hanno attaccato quelle di Zintan, per strappargli il controllo del principale scalo di Tripoli. Molti legano questa battaglia ai primi risultati delle elezioni parlamentari del 25 giugno. Solo quando si riunirà per la prima volta il nuovo Congresso la sessione inaugurale è prevista il 4 agosto si capiranno le reali forze in campo, perché si è votato per candidati formalmente indipendenti, non per i partiti. Eppure, secondo alcune indiscrezioni, i profili dei neo-eletti disegnerebbero un’assemblea legislativa dall’impronta più laica che islamista, il che avrebbe portato le milizie di Misurata, alleate dei filo-islamici, a forzare la mano, cercando di recuperare sul piano militare quanto perso su quello politico. Le brigate di Zintan, invece, che controllano l’aeroporto sin dalla caduta di Gheddafi, sono più vicine ai “liberali” e al debole governo guidato da Abdullah al Thani (anche se hanno rifiutato di cedere alle autorità centrali un prigioniero di lusso, il figlio del raìs, Saif al Islam, tuttora detenuto sotto la loro custodia). La battaglia dell’aeroporto si è affiancata agli scontri in corso da maggio nella zona di Bengasi, dove il generale dissidente Khalifa Haftar ha lanciato un’offensiva condannata dal governo, ma di fatto tollerata contro le milizie islamiste che spadroneggiano in Cirenaica, come Ansar al Sharia e la Brigata 17 febbraio. Gli jihadisti, al momento, non sono stati piegati e l’esercito e l’aviazione regolari si sono uniti allo sforzo bellico del militare ribelle: 36 morti tra le file degli islamisti solo nell’ultimo fine settimana. Da metà luglio la situazione è degenerata perché Tripoli è diventata una seconda Bengasi, una città senza legge in mano alle milizie. Sabato scorso ventitré lavoratori egiziani sono stati uccisi da un razzo che ha colpito la loro abitazione, mentre le brigate di Misurata affrontavano quelle di Zintan. Nella capitale del paese dotato delle maggiori risorse petrolifere del continente africano cominciano a scarseggiare benzina ed elettricità, oltre all’acqua. La Libia è in guerra e tutti fanno le valigie. Se ne è andata l’Onu, non appena è scoppiata la battaglia dell’aeroporto. Sono rientrati in patria i funzionari di Turchia, Algeria, Arabia Saudita. E sabato gli americani hanno fatto evacuare la loro ambasciata a Tripoli, pericolosamente vicina alla zona degli scontri. Washington vuole evitare una replica dell’11 settembre 2012, quando l’assalto al consolato di Bengasi provocò la morte dell’ambasciatore Christopher Stevens e di altri tre statunitensi. Così il personale diplomatico è stato scortato da 80 marines fino al confine con la Tunisia. L’ambasciata italiana resta aperta ed operativa, ma la Farnesina ha sconsigliato i viaggi in Libia e ha provveduto a fare uscire dal paese cento connazionali. Francia, Germania e Gran Bretagna hanno esplicitamente invitato i propri cittadini a tornare in patria. Al Thani ha chiesto assistenza internazionale per domare le fiamme del deposito di benzina, il più grande della capitale, anche se la battaglia tra milizie complica gli aiuti e rende difficile l’evacuazione della zona. La Libia ha potenzialità enormi, grazie alla rendita energetica, ma l’economia è paralizzata dai problemi di sicurezza. Una volta vinta al guerra contro Gheddafi, si è scelto di affidare completamente ai libici la transizione. Il risultato, in un paese parcellizzato, fondato sui clan, privo di istituzioni e con una società civile piuttosto debole, è stato disastroso: hanno parlato solo le armi, perché le milizie che avevano combattuto il Colonnello si sono rifiutate di sciogliersi. Adesso imporre la legge sembra un’impresa disperata, il governo ha fatto cenno a una forza internazionale, che dovrebbe formare e supportare l’esercito locale, ma nessuno vuole boots on the ground che non siano libici, né l’Occidente intende assumersi un onere tanto impegnativo quanto rischioso.
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