da Un mondo senza mappe, di Abd al Rahman al Munif In un mondo senza mappe
Ammuriya adesso è come quella sposa del villaggio: il denaro facile l’ha corrotta, falsata. Non ha trattenuto il passato e non è stata in grado di entrare nel futuro. Ha continuato a prendere in prestito dagli altri e ad accumulare. E non passerà molto tempo prima che scoppi di sazietà».
La incontro ogni mattina: non si è mai interessata alla politica, ma soffre per i siriani. Lei è una ragazza libanese, sin dall’inizio a favore della causa e della rivoluzione siriana. Ieri dopo aver seguito per tutta la notte le notizie provenienti dalla zona di Arsal in Libano, l’ho trovata che piangeva. Da due giorni si combatte nella zona montagnosa di Arsal nel nord-est del Libano tra l’Esercito libanese e alcune brigate armate siriane. Aresal, in aramaico significa “trono di Dio”. È stato il primo posto ad abbracciare i siriani in fuga dalle montagne del Qalamun in Siria. Tutti parlano oggi degli scontri di Arsal, come se la storia fosse cominciata solo ieri. Ma da tempo la situazione lì non è normale. La storia non è cominciata quando gli uomini armati siriani sono entrati nella cittadina libanese di Arsal. È iniziata ben prima, da quando il Partito di Dio ha deciso di usare Arsal, “il trono di Dio”, come passaggio per entrare in Siria e difendere il regime siriano, presunto “baluardo” contro Israele. In questi giorni sono stati diffusi filmati che mostrano alcuni membri dell’esercito libanese che dichiarano di voler disertare, perché si rifiutano di eseguire gli ordini di attaccare anche i campi profughi siriani a Arsal e di uccidere i civili, con la scusa che vi si nascondano uomini armati siriani. Non si sa se questi video siano stati davvero girati dai soldati libanesi, o se invece i soldati libanesi siano stati obbligati a farlo sotto la pressione dei miliziani provenienti dalla Siria. Lei, la ragazza libanese, oggi parlava solo di questo. E tra le lacrime mi diceva: “Noi non siamo come voi. Il nostro esercito ci protegge, non è come il vostro. Noi non possiamo dubitare del nostro esercito, perché se torniamo a imbracciare le armi, noi libanesi siamo finiti”. Qui sono entrata in confusione. Un nodo alla gola. La voglia spontanea di dirle: “Non parlare male di noi”. Ma come posso? O per meglio dire: perché mi sento umiliata se parla male dell’Esercito siriano? Io so bene che molti membri dell’Esercito siriano in questi tre anni si sono comportati come se appartenessero all’esercito di Asad, non della Siria. Perché mi sento umiliata? Nostalgia? Mancanza di un riferimento? Di un Paese? Di un’identità? Sì, amica mia, siamo diverse. Il vostro esercito non è come il nostro. Ma sai? Il vostro esercito non conta tanto. Il vostro esercito non ha proibito a Hezbollah di entrare in Siria. Forse io e te dobbiamo studiare di nuovo la mappa. Perché forse non c’è il “nostro” e il “vostro”. E forse Mister Sykes e Monsieur Picot non sapevano che Arsal è l’abbraccio allungato del Qalamun. Perché a un certo punto i confini non contano nulla.
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