|
http://www.agoravox.it/ Gli scomodi successi dei Curdi sbagliati In un recente articolo, molto dibattuto sui social network, il collettivo Wu Ming ha analizzato nel dettaglio alcuni aspetti cruciali dell'attuale crisi irachena e della guerra civile siriana, evidenziando a più riprese le mancanze e le incongruenze dell'informazione mainstream occidentale nella rappresentazione dei conflitti in corso. Sopratutto, denunciano quelli di Wu Ming, è stato completamente sottaciuto il ruolo delle formazioni combattenti curde laiche e di ispirazione socialista (se non propriamente anarchica) del PKK e dell'YPG (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di Protezione del Popolo) che, a più riprese, sia in Iraq che in Siria, hanno sbaragliato sul campo le milizie jihadiste dell'IS. Sui giornali nostrani si è parlato quasi unicamente dei Pashmerga, formazione militare curda legata al Partito Democratico del Kurdistan, tradizionalmente filo-americano, che controlla il nord dell'Iraq. Da settimane si rincorrono gli appelli perché europei e americani armino pesantemente i Pashmerga in funzione antijihadista ma, fa notare Wu Ming, i curdi iracheni hanno più volte dimostrato di non avere la preparazione e la volontà di combattere apertamente l'IS e, in diverse occasioni, sono usciti mal conci dagli scontri diretti. Ad aver conseguito le imprese principali, come la liberazione degli Yazhidi assediati sul monte Sengal e la riconquista della città di Makhmour, sono stati invece i soldati del PKK e del YPG accomunati da un'ideologia di origine marxista e forgiati sui campi di battaglia turchi e siriani. La cosa paradossale è che il PKK è ancora considerato come un gruppo terrorista nelle liste nere della Casa Bianca e dell'UE, più che altro per non dispiacere l'alleato turco, attore fondamentale delle politiche della Nato. Dunque il temibile gruppo terrorista dell'IS, da tutti indicato come il nuovo nemico pubblico dell'Occidente, viene tenuto a bada sul terreno non dai fidi Pashmerga, ma dai terroristi del PKK e dai loro cugini siriani dell'YPG. Un bel ginepraio che evidentemente crea qualche problema di immagine e di coscienza sia in Europa che negli Stati Uniti. E' questo forse il motivo per cui il ruolo fondamentale svolto dai curdi “sbagliati” in Iraq abbia fino ad oggi trovato così poco spazio nelle ricostruzioni dell'informazione nostrana, abituata a semplificare lo scenario per creare uno schema più rassicurante nel quale i buoni (gli amici dei nostri amici) combattono contro i cattivi vestiti di nero. Del PKK qualcosa sappiamo, sopratutto dopo la sciagurata vicenda del '98-'99 che vide l'Italia ed il governo di Massimo d'Alema contribuire indirettamente alla cattura del leader del movimento, Öcalan, da parte dei servizi turchi, dopo che questi aveva richiesto asilo politico nel nostro paese. Molto meno si conosce del YPG, corrispettivo siriano del PKK che da quasi tre anni difende con successo il suo territorio dagli islamisti dell'IS. Il YPG ha creato un territorio indipendente all'interno dei confini orientali del territorio siriano; è stata chiama Zona Autonoma di Rojava, e per alcuni analisti rappresenta un esperimento più unico che raro di organizzazione territoriale democratica e progressista all'interno dell'attuale panorama geopolitico mediorientale. L'elemento che maggiormente caratterizza Rojava e l'YPG è il rispetto dell'equità di genere. Le donne ricoprono un ruolo importante nella società, molte di loro combattono nelle fila della milizia e tante sono cadute sui campi di battaglia, affrontando le truppe islamiste. Anche l'organizzazione militare è improntata a principi democratici e gli ufficiali vengono eletti attraverso apposite consultazioni. Rojava, inoltre, opera una politica inclusiva verso le altre confessioni e verso le popolazioni non curde. Sul suo territorio operano formazioni politiche di diversa estrazione e tra le fila del YPG, legato al principale partito curdo siriano, il PYD, militano anche sunniti, Yazidi, cristiani ed esponenti di altre minoranze, uniti nella lotta contro i gruppi islamici integralisti che minacciano la stabilità dell'area e l'incolumità delle popolazioni ritenute infedeli o apostate. Così è scritto nella Carta del Contratto Sociale del Rojava, adottata nel febbraio del 2014: “Noi popoli che viviamo nelle Regioni Autonome Democratiche di Afrin, Cizre e Kobane, una confederazione di curdi, arabi, assiri, caldei, turcomanni, armeni e ceceni, liberamente e solennemente proclamiamo e adottiamo questa Carta. Con l’intento di perseguire libertà, giustizia, dignità e democrazia, nel rispetto del principio di uguaglianza e nella ricerca di un equilibrio ecologico, la Carta proclama un nuovo contratto sociale, basato sulla reciproca comprensione e la pacifica convivenza fra tutti gli strati della società, nel rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, riaffermando il principio di autodeterminazione dei popoli. Noi, popoli delle Regioni Autonome, ci uniamo attraverso la Carta in uno spirito di riconciliazione, pluralismo e partecipazione democratica, per garantire a tutti di esercitare la propria libertà di espressione. Costruendo una società libera dall’autoritarismo, dal militarismo, dal centralismo e dall’intervento delle autorità religiose nella vita pubblica, la Carta riconosce l’integrità territoriale della Siria con l’auspicio di mantenere la pace al suo interno e a livello internazionale. Con questa Carta, si proclama un sistema politico e un’amministrazione civile fondata su un contratto sociale che possa riconciliare il ricco mosaico di popoli della Siria attraverso una fase di transizione che consenta di uscire da dittatura, guerra civile e distruzione, verso una nuova società democratica in cui siano protette la convivenza e la giustizia sociale”. Ogni singola parola della carta rimanda ai valori di libertà, eguaglianza, laicità e solidarietà di cui l'Occidente afferma di essere portatore e difensore. C'è addirittura un riferimento alle istanze ecologiste, sopraffatte altrove dalle urgenze della crisi economica e un riconoscimento esplicito del principio di integrità territoriale della Siria, nel rispetto delle diverse minoranze. I curdi di Rojava sarebbero dunque gli alleati ideali per un Occidente che volesse affermare i valori in cui dice di credere. Una forza realmente plurale e democratica, efficace sul campo di battaglia, con cui cooperare per fermare l'avanzata dell'IS e trovare soluzioni per l'intricatissima crisi siriana. Ma così non è. I curdi siriani dell'YPG, per i loro stretti legami con il PKK di Öcalan, sono ancora considerati alla stregua di un gruppo terrorista, nonostante siano sostenuti da un intero popolo e rappresentino un'alternativa reale agli esiti confessionali o anti-democratici delle primavere arabe, nonostante si siano dimostrati indispensabili sul fronte militare. La questione curda, di fatto, è una ferita ancora aperta e un dossier scottante sul tavolo dei rapporti tra NATO e Turchia. Come scrive Wu Ming, non è insensato “credere che i bombardamenti americani e le armi occidentali ai Peshmerga non servano solo a contrastare il mostro di Frankenstein fuggito dal laboratorio (l'IS, ndr), ma anche a contenere una soggettività scomoda che ha sparigliato le carte (in Siria prima e in Iraq dopo) e conseguito l'egemonia sul campo nella lotta al mostro. Egemonia che imbarazza le potenze dell'area - in primis la Turchia che, come abbiamo visto, le YPG accusano da tre anni di fornire sostegno all'ISIS - e dunque va contesa, 'riequilibrata', limitata”.
|