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Venerdì 05 Dicembre 2014

Kurdistan, nell'occhio del ciclone
di Daniele Pepino

Nella prima “puntata” di questo scritto (reperibile sul precedente numero di Nunatak, oltre che su Infoaut e altri siti internet), abbiamo cercato di affrontare il conflitto in atto nel Kurdistan attraverso una panoramica delle forze in campo: chi sono, cosa rappresentano, quali identità e progettualità incarnano (nel tentativo di diradare le nebbie del confusionismo mediatico dominante).

In questa seconda parte, proveremo ad addentrarci nella regione del Rojava (o Kurdistan occidentale, Siria del Nord) per esplorare i sentieri di quell’autonomia popolare che sta resistendo malgrado tutto – malgrado la guerra, l’assedio dell’IS, l’embargo, l’isolamento – e che rappresenta una forza di rottura rilevante sia da un punto di vista militare (in quanto principale baluardo contro l’avanzata dello Stato Islamico), sia sul piano politico (in quanto radicale e concreta alternativa all’inferno fratricida a cui sembra essere condannato il Medio Oriente).

Avremmo preferito concentrarci esclusivamente sulle forme organizzative della rivoluzione in Rojava, ma la gravità degli ultimi accadimenti sul campo impone d’essere affrontata. Perciò, pur nella difficoltà di fissare fatti di cronaca che vanno evolvendosi giorno dopo giorno, abbiamo aggiunto al fondo una breve scheda di inquadramento sull’assedio e la resistenza in corso a Kobane.

Rojava. La rivoluzione in marcia

Ciò che si sta realizzando nel Kurdistan occidentale non nasce dal nulla. L’autogoverno cantonale del Rojava si fonda, sia dal punto di vista teorico che da quello pratico, sulla prospettiva politica elaborata dal PKK dalla fine degli anni Novanta a oggi: il «Confederalismo democratico».

Dal punto di vista filosofico, esso è il risultato del lungo percorso di riflessione teorica sostenuto principalmente dal presidente del PKK, Abdullah Ocalan (Apo). Dagli anni Novanta, il crollo dell’Unione sovietica e del mondo bipolare, il declino delle guerriglie anticoloniali e la globalizzazione neoliberista, conducono il PKK a un ripensamento radicale delle sue basi teoriche e a una profonda autocritica della propria organizzazione e dei suoi obiettivi. Non si tratta di una mera riformulazione tattica, ma di una critica radicale della «modernità capitalista» a partire dalle sue stesse fondamenta. Nato come tipico partito marxista-leninista rivolto alla presa del potere in un’ottica di “liberazione nazionale” e di costruzione di uno Stato curdo indipendente e socialista, il PKK giunge ad abbandonare tale prospettiva, individuando anzi nello Stato-nazione il principale ostacolo alla liberazione. «Non ha senso sostituire le vecchie catene con catene nuove o persino potenziare la repressione. Questo è quello

che la fondazione di uno Stato nazione significherebbe nel contesto della modernità capitalista», scrive Ocalan. Nel quadro del sistema dominante, non esiste sovranità nazionale possibile: «lo Stato nazione (…) è il governatore nazionale del sistema capitalistico a livello mondiale, un vassallo della modernità capitalista». Non solo. A partire da uno studio dell’intera parabola della civiltà umana, di quelle separazioni all’interno delle “comunità naturali” – presso i Sumeri in Mesopotamia – che hanno portato alla nascita della gerarchia, della religione, della schiavitù, della proprietà, delle classi, lo Stato viene individuato, in quanto potere autonomizzato, come un cancro che infetta la “società naturale”, la addomestica, la espropria, la disarma rendendola succube e alienata.

L’orizzonte della liberazione dell’umanità – come ricomposizione di un rapporto egualitario tra i suoi membri e di un equilibrio organico con la natura – non passa più dunque per la costruzione di un nuovo Stato ma, al contrario, in un processo di riappropriazione da parte della società di quel potere che le è stato confiscato dallo Stato. È dalla società, dal basso e non dall’alto, che bisogna ripartire, per dare protagonismo alle comunità e agli individui, costruendo reti federative di assemblee territoriali, di villaggio, di quartiere, che scalzino il monopolio del potere statale, disgregandone le strutture ed erodendone la legittimità fino a svuotarlo di senso.

L’«Autonomia democratica» è l’istituzione di questo sistema di auto-amministrazione fondato sul decentramento e la federazione dei nuclei decisionali locali, assemblee aperte a tutti gli abitanti, uomini e donne, di ogni appartenenza etnica, religiosa e nazionale. È ciò che Ocalan ha definito «autogoverno democratico», «amministrazione politica non-statuale o democrazia senza Stato», specificando che «la democratizzazione non è un fenomeno che fa la sua comparsa con la modernità europea, ma è una tendenza che viene da lontano. Le tendenze democratiche ci sono sempre state nelle società», e che «i processi decisionali democratici non vanno confusi con i processi della pubblica amministrazione» sottolineandone la profonda differenza con il concetto di “democrazia” proprio delle civiltà capitaliste.

Tale strategia rientra anche nel tentativo, da parte del PKK, di superare la spirale di violenza senza uscita in cui era bloccato il trentennale conflitto militare con lo Stato turco. Oltre al riconoscimento dell’impossibilità di vincere sul piano strettamente militare uno degli eserciti più forti della NATO, l’autocritica di Ocalan verte sulle dinamiche militariste e autoritarie che un simile scontro frontale tra apparati inevitabilmente innesca, dinamiche che rischiano di portare i due eserciti, quello occupante e quello di liberazione, ad assomigliarsi sempre di più. L’obiettivo è quello di evitare che l’intero movimento di liberazione venga determinato e modellato sulle esigenze della dimensione militare, iniziando a costruire l’alternativa sfuggendo finché possibile lo scontro frontale con lo Stato, ma senza rinunciare all’autodifesa. Non si tratta quindi di un disarmo e di una pacificazione, ma di un ribaltamento delle priorità: l’apparato militare deve essere uno strumento della società, una garanzia per la sua autonomia, e non viceversa (una prospettiva che ricorda, pur nelle molte differenze, quella elaborata dagli zapatisti dell’EZLN).Anche da un punto di vista materiale, l’esperimento “democratico” del Rojava affonda le proprie radici nei precedenti percorsi pratici dell’«Autonomia democratica». È stato infatti il lungo e pesante lavorio sotterraneo di migliaia di militanti e sostenitori del PKK, nei villaggi, nei quartieri, sulle montagne a cavallo degli artificiali confini di Turchia, Siria, Iraq e Iran, ad aver costruito quel retroterra – culturale, materiale, militare – che si è dimostrato decisivo nel momento in cui l’edificio coloniale degli Stati-nazione ha cominciato a sgretolarsi. In questo senso, quanto sta accadendo oggi costituisce un “banco di prova” della strategia teorizzata, e praticata, dal PKK negli ultimi anni: non solo rifiutare la costruzione di nuove frontiere nazionali, ma muoversi fin d’ora come se quelle esistenti non esistessero più, costruendo federazioni di realtà locali che le travalichino, come se gli Stati-nazione fossero già al tramonto.

Già dagli anni Novanta, nei villaggi del sud-est della Turchia con una forte presenza del PKK, si costruirono strutture di tipo “consigliare” volte a restituire alle comunità locali quel potere confiscato loro dallo Stato centrale. Allo stesso modo il KCK, il Raggruppamento delle Comunità del Kurdistan, dagli anni Duemila continua a promuovere tale prospettiva (anche oltre i confini turchi), creando strutture e reti locali nei campi dell’istruzione, dell’amministrazione, dei diritti delle donne, della sicurezza, ecc., anche conquistando, tramite le elezioni, le amministrazioni locali. La politica oppressiva dello Stato turco, oltre alla “normale” e quotidiana repressione militare, ha colpito in modo specifico il KCK, dal 2009 (con migliaia di arresti, anche di sindaci, amministratori locali, attivisti ecc.), costringendo questo percorso di “democratizzazione” in una dimensione di clandestinità.

Dal 2011, nel Kurdistan siriano, è accaduto che la sollevazione contro Bashar Al-Assad e il collasso del governo centrale hanno rappresentato l’occasione per l’uscita allo scoperto di tali “reti clandestine”, che il PYD (il locale partito curdo alleato del PKK) aveva già cominciato a tessere in Rojava in maniera sotterranea, e che nel vuoto di potere creatosi hanno potuto crescere e affermarsi come vere e proprie basi per l’autogoverno della regione. Altrove nel Paese, infatti, non sono mancati tentativi da parte di altre comunità, comitati di quartiere, attivisti, di costruire forme di mutuo soccorso e autogestione per far fronte al collasso dell’ordine statale e capitalista; ma nel baratro di violenza e arbitrio in cui è sprofondata la Siria, tali esperienze non hanno potuto reggere il confronto (soprattutto sul piano militare) con le altre forze che si affrontano per la spartizione del territorio, siano esse le truppe dell’esercito lealista o le bande paramilitari dello Stato islamico, i racket criminali o le milizie “ribelli” dell’Esercito libero siriano. In Rojava, invece, il solo fatto che esistessero nuclei di autodifesa militare e di organizzazione politica (il PYD con le sue ali militari, YPG e YPJ) ha fatto la differenza, permettendo alla popolazione (non solo quella curda) di sopravvivere e finanche di autogestirsi, mentre tutto intorno sprofondava nel caos.

Così, le strutture di autogoverno cantonale, nonostante l’isolamento, gli attacchi continui, l’embargo su ogni lato, facendo fronte alle necessità della vita quotidiana e della sicurezza, hanno fatto del Rojava una zona tutto sommato più stabile e vivibile delle altre, tanto da diventare una meta per i profughi del resto del territorio (per farsi un’idea, la sua popolazione è praticamente raddoppiata dall’inizio della guerra, passando da circa 2 milioni a quasi 4 milioni!).

Questa relativa “stabilità” (a parte, ovviamente, le zone sotto attacco dello Stato islamico, come il cantone di Kobane) è garantita anche dalla sorta di “tregua armata” che al momento vige tra le forze curde e l’esercito di Assad. Tale situazione, che è all’origine di certa propaganda che accusa il PYD di essersi accordato col regime siriano, merita di essere chiarita in quanto è in realtà il frutto di una politica tutto sommato esplicita e più che comprensibile di entrambe le parti. Le milizie popolari del

Rojava hanno un ruolo eminentemente difensivo, il loro obiettivo dichiarato è l’autogoverno della regione e la sua difesa da chiunque lo attacchi, non hanno perciò alcun interesse in questo momento a scatenare una guerra aperta in Rojava anche contro l’esercito siriano, almeno finché questo non interverrà per reprimerli. Anche il governo siriano, da parte sua, non ha interesse in questa fase ad aprire un altro fronte di guerra nel Kurdistan, perciò ha preferito lasciare in mano ai curdi i loro territori, da cui era stato costretto a ritirare l’esercito in seguito alla sollevazione (salvo mantenere qualche contingente in un paio di centri strategici) per poter concentrare le proprie forze in altre zone del Paese.

I curdi siriani, infatti, pur avendo partecipato alla sollevazione contro il regime, hanno praticato quella che loro stessi hanno definito una “terza via”, non schierandosi né con le forze del governo di Assad né con quelle dell’opposizione, islamista o laica che sia, ma organizzandosi per liberare, difendere e autogovernare i propri territori. Il prezzo di tale “indipendenza” è il loro totale isolamento, sia a livello locale che su scala regionale e mondiale: mentre tutte le forze in competizione sullo scenario siriano godono di appoggi regionali o internazionali (cosa che è anche all’origine del prolungarsi della guerra civile senza che nessuno schieramento riesca a prevalere in modo definitivo sugli altri), il Rojava non ha “padrini” su cui contare, e anzi rappresenta una alternativa radicale proprio a quel modello di gestione del Medio Oriente fondato sul divide et impera, sulle rivalità settarie, nazionali, confessionali. Promuovendo e praticando la convivenza e la collaborazione dal basso di tutte le comunità etniche e religiose dell’area, il Rojava incarna una anomalia dirompente, una minaccia per tutte le potenze che mirano a proseguire la balcanizzazione della regione per perpetuarne il saccheggio, la militarizzazione, la dipendenza da potenze straniere.

La difesa militare del territorio, per le ragioni fin qui delineate, è ovviamente la prima e predominante esigenza che si trova ad affrontare il movimento rivoluzionario in Rojava. Ma l’aspetto per certi versi sorprendente è proprio l’attenzione posta dal movimento a non sacrificare gli altri aspetti del progetto di trasformazione sociale alle esigenze militari, e anzi la capacità di impostare anche l’organizzazione della sicurezza sui princìpi del protagonismo popolare e dell’autodifesa. Un esempio, tra i vari, può essere chiarificatore: ad agosto 2014 in nord Iraq, nelle montagne di Shengal, teatro dell’aggressione e del tentativo di pulizia etnica da parte dell’IS contro le comunità Ezidi, in seguito alla fuga dell’esercito iracheno e dei peshmerga di Barzani, le forze di YPG/YPG e HPG/YJA-Star sono intervenute per mettere in salvo i civili, contrattaccare le bande di IS, ma anche e soprattutto per aiutare la popolazione degli Ezidi a costruire le proprie milizie di autodifesa popolare. Pur nell’emergenza dell’assedio e della guerra, l’intervento dei partigiani più esperti è stato finalizzato ad armare i civili, addestrarli e organizzarli affinché essi riuscissero a garantire da sé la propria sicurezza, senza bisogno di interventi esterni di chicchessia, in linea con l’obiettivo di diffondere e sostenere l’autonomia popolare, anche in campo militare. Così, oggi, nel territorio di Shengal il popolo ha le proprie milizie di autodifesa, YPS (Unità di difesa di Shengal), e rivendica la propria autonomia e la propria adesione al progetto del confederalismo democratico.

In Rojava, le YPG e YPJ, seppur già esistenti dalla metà degli anni Duemila, hanno mantenuto un “basso profilo” fino alla sollevazione del 2011, nella quale emergono come vera colonna portante della liberazione del territorio. Nate come milizie curde del PYD, nel processo di difesa dei territori liberati assumono il ruolo di vere e proprie unità di autodifesa del popolo, non più milizie di un partito o di un gruppo etnico, ma organizzazioni garanti del processo rivoluzionario in corso, formate da tutti i cittadini che prestano giuramento per la difesa della società democratica, ecologica ed egualitaria. Ciò ha consentito – almeno in parte – il superamento delle iniziali diffidenze dovute a storiche rivalità etniche, e nelle YPG (così come nelle forze di sicurezza “Asayis”) hanno iniziato ad arruolarsi anche arabi, assiriani, armeni, turcomanni… Allo stesso modo, è proprio attraverso la partecipazione nelle fila dell’autodifesa che le donne hanno accresciuto il proprio protagonismo. Anche in questo campo la diffidenza iniziale è stata forte, come prevedibile in una società in cui le donne sono generalmente relegate nella dimensione privata e casalinga, ma col tempo sono migliaia le ragazze entrate a far parte delle YPJ, innescando un processo di trasformazione e di assunzione di responsabilità che ha inevitabilmente investito anche tutti gli altri campi della vita sociale. Si sono inoltre formate alleanze con altre milizie tribali o di altri partiti, come il Syriac Union Party (il partito degli assiri, o siriaci, di religione cristiana, con le sue organizzazioni militari) o Jabhat al-Akrad (una formazione armata composta principalmente di arabi, disertori dell’esercito poi fuoriusciti dall’ESL - Esercito libero siriano), fino a costruire un fronte comune per l’autodifesa del territorio.

Le Asayis possono essere definite come “forze di sicurezza” sul territorio. Mancando un linguaggio adeguato, potremmo paragonare le YPG/YPJ alle forze armate e le Asayis alle forze di polizia, anche se gli stessi protagonisti tengono a sottolineare che: «Il concetto di polizia è piuttosto inappropriato perché noi ci consideriamo come forze di sicurezza per l’autodifesa della società, non dello Stato». Il principale compito delle Asayis è far fronte a quei conflitti e violenze che le assemblee e i comitati locali non riescono a risolvere, come aggressioni, violenze, traffici di droga, stupri, oltre al contrasto dei vari servizi segreti, ai posti di blocco per prevenire attentati e attacchi suicidi, e al supporto alle YPG/YPJ nelle emergenze militari. Le Asayis non sono un’istituzione separata dalla società, deputata a mantenere l’ordine tra i cittadini che lo Stato liberale ha individualizzato, espropriato e omologato, ma la forza autorganizzata delle comunità in quanto tali. Ad esempio, nel Cantone di Cizire, la minoranza siriaca/cristiana ha le sue proprie milizie, denominate “Sutoro”, per gestire la sicurezza nei propri quartieri e villaggi, in stretto rapporto di coordinamento con le altre Asayis, alle cui strutture di comando partecipa con propri delegati. Per le stesse ragioni, esistono unità delle Asayis esclusivamente femminili, le Asayis Jin, deputate soprattutto a contrastare la violenza patriarcale, in stretta collaborazione con i consigli delle donne, per consentire di superare le difficoltà e gli imbarazzi che una donna può avere nel raccontare il proprio dolore e le violenze subite di fronte ad assemblee miste o maschili.

La partecipazione alle Asayis avviene su base volontaria, ogni membro riceve solo il vitto, l’alloggio e tutt’al più un minimo rimborso; i giovani vi sperimentano periodi di vita comune, con percorsi quotidiani di formazione sulla democrazia popolare, l’ecologia, la liberazione delle donne…; le strutture di comando hanno un carattere il più possibile collegiale, non ci sono distintivi di grado e ogni livello elegge i propri rappresentanti in assemblee allargate in cui viene periodicamente scelto il nuovo stato maggiore.

Insieme agli apparati di sicurezza, anche il sistema giuridico preesistente è decaduto in seguito al processo rivoluzionario in Rojava; per far fronte al vuoto e al disordine che ciò avrebbe potuto determinare, la popolazione e il movimento politico hanno da subito creato i “Comitati per la pace e il consenso”, sul modello degli analoghi comitati

istituiti negli anni Novanta dal PKK, con il compito di garantire la concordia sociale e contrastare le ingiustizie e i racket criminali. Ogni comitato si occupa di un quartiere o di una comunità di villaggi (dai sette ai dieci), ed è composto dalle persone scelte dal “Consiglio del popolo” perché ritenute più adatte a risolvere i conflitti e favorire percorsi di riconciliazione. Per le questioni di livello più elevato, per gravità o competenza territoriale, sono stati istituiti, sulla base di un processo assembleare diffuso sul territorio, i “Consigli per la giustizia”, cui prendono parte, insieme ai delegati dei “Comitati per la pace e il consenso”, avvocati, magistrati e altri operatori della giustizia che avevano preso le distanze dal vecchio regime. L’obiettivo delle sentenze non è mai la condanna e la punizione del colpevole, quanto il trovare il consenso e il riavvicinamento tra le parti, favorire i legami di solidarietà, in un’ottica molto diversa da quella dei sistemi giuridici statali.

Il territorio del Rojava è diviso in tre cantoni, Cizire, Kobane, Afrin, ciascuno con un’autonomia amministrativa, una propria Costituzione e una diversa rappresentanza che ne rispecchia la composizione etnica e confessionale. Tra i tre cantoni non c’è una continuità geografica, poiché intorno a Kobane ci sono fasce di territorio siriano – che il governo baath aveva “arabizzato” – ora sotto il controllo di IS. Le lingue ufficiali sono tre: curdo, arabo e siriaco, e tutte le minoranze sono riconosciute, tutelate, e ammesse a partecipare al sistema confederale. La spina dorsale dell’autogoverno si fonda sul Movimento della società democratica (il Tev-Dem), espressione della società civile nato su spinta di PYD e PKK ma che ha in breve riunito le diverse componenti politiche, etniche, confessionali (anche se ovviamente non tutte) del Rojava. Il Movimento ha elaborato un “Contratto sociale”, una Carta del Rojava, che definisce la natura e il funzionamento del sistema politico della confederazione: nella premessa vi si afferma: «Le aree di democrazia autogestita non accettano il concetto di nazionalismo di Stato, militare o religioso, né una gestione centralizzata o le regole provenienti da un’autorità centrale; sono, al contrario, aperte a forme compatibili con le tradizioni di democrazia e di pluralismo e sono disponibili nei confronti di tutti i gruppi sociali e le identità culturali…». Tra i molti decreti emanati dal Contratto sociale, per limitarsi ad alcuni esempi indicativi, ci sono: la fine dell’ingerenza della religione nell’amministrazione della vita civile; l’abolizione del matrimonio al di sotto dei 18 anni, della infibulazione e della poligamia; il riconoscimento di tutte le lingue parlate sul territorio; l’uguaglianza tra uomini e donne; il riconoscimento del diritto d’asilo per tutti i rifugiati; ecc.

Su spinta del Tev-Dem, si è costruito il “sistema di autogestione democratica”, la rete di gruppi, comitati, comuni, case del popolo, il cui ruolo è far fronte collettivamente alle più svariate problematiche della società. Il “nucleo di base” di tale organizzazione è la “Comune”, assemblea territoriale in cui gli abitanti dell’isolato, o gruppo di case o borgata (con un numero di partecipanti non superiore ai venti-trenta), discutono i problemi che li riguardano, individuano le soluzioni ed eleggono i delegati (sempre un uomo e una donna, secondo il sistema della “co-rappresentanza” valido per tutti i ruoli nella confederazione) che porteranno le decisioni prese dall’assemblea al comitato più ampio (di quartiere, villaggio, città, provincia…) deputato a implementarlo. La spiegazione del loro funzionamento è definita nel manifesto del Tev-Dem: «Le Comuni sono la più piccola e la più attiva cellula della società. Sono l’espressione pratica di una società fondata sulla libertà delle donne, l’ecologia e la democrazia diretta». «Le Comuni si formano sul principio di partecipazione diretta del popolo nei villaggi, nelle strade, nei quartieri e nelle città. Sono i luoghi in cui il popolo si organizza volontariamente, realizza le sue libere decisioni e dà inizio alle sue attività nel territorio, favorendo il dibattito sui vari temi e sulle possibili soluzioni». «Le Comuni lavorano sviluppando e promuovendo commissioni; si discute e si cercano le soluzioni alle questioni sociali, politiche, educative, di sicurezza, auto-difesa e auto-protezione dal loro stesso potere, e non dallo Stato. Le Comuni concretizzano il proprio potere attraverso la creazione di organismi quali le comuni agricole nei villaggi, ma anche comuni, cooperative e associazioni nei quartieri».

L’economia di Rojava è fondata essenzialmente sull’agricoltura (e in misura minore

sulla pastorizia), anche se la situazione è oggi gravemente danneggiata dalla guerra e dall’embargo cui il Rojava è sottoposto da tutti i poteri confinanti (Siria, Turchia e Kurdistan federale). A parte ciò che riesce a passare per le rotte del contrabbando e della solidarietà, nessun prodotto può entrare né uscire dai cantoni, e tutta la vita economica si sta riorganizzando in una prospettiva di autoproduzione locale, nell’ottica di garantirsi il più possibile di autonomia e di scalzare il saccheggio delle risorse. Per riassumere le linee guida di tale riorganizzazione economica, riportiamo alcuni stralci da una testimonianza di due delegati del “Comitato dello sviluppo economico” del Tev-Dem: «Vogliamo promuovere un’economia comunale e sociale, che va realizzata principalmente con la nascita delle cooperative. L’obiettivo è sviluppare un sistema economico comunitario, equo ed ecologico… e superare il sistema dell’economia diretta dallo Stato. È importante per questo obiettivo dare alla gente tutte le informazioni possibili, ed è in quest’ottica che si stanno istituendo accademie per l’economia». «La terra, che prima della rivoluzione era gestita dallo Stato, è stata redistribuita tra le persone più povere, uomini e donne rappresentati in modo paritario. In alcuni casi è stata data solamente alle donne [organizzate in cooperative]. Sinora sono stati distribuiti centinaia di ettari di terra. Tutto quello che era necessario per fondare le cooperative è stato fornito a titolo gratuito dal Tev-Dem; in seguito le cooperative cederanno il 30% dei profitti al neonato governo cantonale mentre il 70% rimarrà in possesso dei contadini». «Il nostro approccio è quello di non inquinare l’ambiente e questo anche nell’agricoltura. Attualmente alcuni tecnici agrari stanno studiando la possibilità di impiantare coltivazioni di frutta e verdura, in modo che si facciano passi in avanti nell’autoproduzione. Già a partire dal prossimo inverno vogliamo iniziare con le serre. L’agricoltura, a lungo termine, deve essere ripensata e strutturata in senso ecologico [anche per uscire dalla precedente monocoltura del grano]».

L’altra grande risorsa del Rojava è rappresentata dal petrolio, presente soprattutto nel cantone di Cizire. La sua abbondanza lo rende una risorsa a buon mercato, che non viene però utilizzata per il commercio con l’estero, ma di cui viene raffinata soltanto la quantità necessaria ai bisogni degli abitanti locali. Viste le enormi difficoltà nell’approvvigionamento di acqua, nella fornitura di corrente elettrica, nel riscaldamento delle abitazioni, il petrolio viene oggi utilizzato per tutte queste esigenze primarie, e viene distribuito alla popolazione gratuitamente o a un prezzo irrisorio (inferiore a quello dell’acqua).

Inoltre, la costituzione di piccole unità produttive fondate sul lavoro e la fruizione in comune (ad esempio cooperative tessili per la lavorazione del cotone e la produzione di abbigliamento per gli abitanti), la diffusione di cooperative di soggetti collettivi come le famiglie dei Martiri, comitati di donne, gruppi giovanili, il livellamento dei prezzi e degli stipendi, la gratuità dei beni di prima necessità (affitti, istruzione, cure mediche…), tutto ciò delinea la natura degli obiettivi del movimento rivoluzionario: «Tutte le istituzioni che abbiamo creato hanno lo scopo di aiutare la popolazione e di promuoverne l’auto-organizzazione. L’organizzazione delle strutture di autogestione va avanti da tre anni, ora però il sistema incomincia a funzionare…».

Il particolare ruolo assunto dalle donne nell’esperimento fin qui delineato richiederebbe una trattazione a sé, in quanto rappresenta la colonna portante del cambiamento della vita sociale – al punto che si può definire come una “rivoluzione delle donne”. Contemporaneamente è l’aspetto più sorprendente, innovativo e rivoluzionario, in una società di tradizione fortemente patriarcale, in cui le donne, oltre ad essere presenti in ogni ufficio, in ogni casa del popolo, nei comitati, gruppi e quartieri, ai vertici dell’amministrazione e dell’esercito, hanno costituito le loro proprie forze organizzate, sia civili che militari. Le immagini riportate dai media occidentali sono però esclusivamente quelle delle donne in armi: una rappresentazione esotica, quasi fashion, che gioca sul fascino che le donne combattenti suscitano nell’immaginario occidentale (chiaramente fino a quando sono ben distanti, meglio se virtuali). È una narrazione che ben si guarda dall’affrontare la radicalità delle questioni universali che la lotta delle donne curde pone, anche e soprattutto perché a essere messa in discussione non è soltanto la loro discriminazione nelle “arretrate” società islamiche mediorientali, ma – almeno altrettanto – la loro mercificazione nelle “avanzate” società capitaliste occidentali.

È proprio il carattere universale delle questioni poste dal processo in corso in Rojava a farne un laboratorio della rivoluzione estremamente interessante, anche in quanto dimostrazione pratica di quel che accade, o può accadere, sulle macerie di un sistema statale. Il crollo del controllo governativo sul territorio siriano ha consentito che si sprigionassero le energie in esso represse, e le diverse dinamiche innescatesi nelle altre zone della Siria dimostrano l’importanza del precedente lavoro svolto nella zona dalle forze curde rivoluzionarie. La costruzione di legami di solidarietà, di embrioni di autogestione e autoproduzione, di organi di autodifesa, di una prospettiva politica chiara, per quanto sotterranee e costrette nella clandestinità, e nonostante gli invitabili limiti e contraddizioni, sono ciò che ha fatto la differenza tra la barbarie fratricida e la rivoluzione in marcia.

 

Kobane. Tra assedio e resistenza

Il Rojava è sotto attacco. Se fin dalla loro nascita i cantoni autogovernati hanno dovuto affrontare aggressioni continue, dalla metà di settembre 2014 è in atto un attacco frontale da parte delle bande dello Stato islamico (IS) e dei suoi più o meno occulti sostenitori, che hanno concentrato le loro forze contro il cantone centrale di Kobane. Per diverse ragioni questo cantone è un luogo strategico, oltre che simbolico, e la sua caduta renderebbe più vicino il crollo del resto della Confederazione di Rojava.

Il PKK, l’intero movimento di liberazione curdo, lo stesso Ocalan dal carcere, hanno lanciato un appello alla mobilitazione generale dei curdi per difendere Kobane. In Europa e nel mondo intero si moltiplicano manifestazioni e iniziative. In Turchia dilagano gli scontri tra il popolo curdo e l’esercito, la polizia, le bande islamiste e nazionaliste: è una vera e propria sollevazione, che i media europei hanno restituito solo parzialmente, con scontri armati nelle strade, decine di morti da entrambe le parti, assalti ai commissariati, saccheggi di armerie…

La tregua tra governo turco e PKK è ormai in bilico, l’atteggiamento della Turchia nell’assedio di Kobane l’ha resa di fatto impraticabile, e negli ultimi giorni sono iniziati bombardamenti turchi su basi del PKK in provincia di Hakkari, seguiti a una ripresa degli attacchi della guerriglia contro forze militari turche. Come può, infatti, il governo di Erdogan mantenere con una mano promesse di pace con i curdi in Turchia, mentre con l’altra sostiene i tagliagole dello Stato islamico nel massacro dei curdi siriani e ostacola in ogni modo l’arrivo di aiuti alla resistenza? Del resto la politica di Erdogan è evidente, come quella delle varie potenze regionali e mondiali: utilizzare le bande di IS per i propri interessi, per ridisegnare gli equilibri politici, etnici, confessionali, per poi usarle come spauracchio contro cui ergersi a difensori della “pace” e della “lotta al terrorismo” nell’area. Lo dimostrano i carri armati e i soldati turchi, schierati a un chilometro da Kobane, che osservano il massacro aspettando che i terroristi finiscano il lavoro sporco, per poi – magari – occupare militarmente il Rojava ponendo fine a tale “anomalia”.

Il destino del Rojava, insomma, sarebbe comunque segnato, con il beneplacito di tutte le potenze statali della regione. Del resto, è dall’inizio dell’avanzata di IS sulla città di Kobane che tutti i media, i politici, le fonti militari, danno la città per spacciata, la sua caduta sembra essere, giorno dopo giorno, una questione di ore. Eppure, son passati più di due mesi e Kobane è ancora in piedi. È accaduto qualcosa di inatteso e sorprendente: contro la meschinità degli interessi capitalistici alleati col più bieco odio settario, il cuore del Kurdistan ribelle si è stretto intorno ai fratelli e alle sorelle di Kobane, una resistenza di popolo ha alzato la testa a difesa della rivoluzione sociale del Rojava. È così che, nonostante le catastrofiche previsioni, la disparità di armamento, l’isolamento internazionale, nonostante tutto stia tramando per la sua caduta… Kobane resta in piedi.

Le milizie di autodifesa del Rojava (YPG – Unità di difesa del popolo, e YPJ – Unità di difesa delle donne), dopo aver evacuato i villaggi circostanti di molti, ma non tutti, i civili non in grado di combattere, hanno anch’esse concentrato le proprie forze nella difesa a oltranza di quella che hanno definito la loro “Stalingrado”. Migliaia di guerriglieri/e del PKK, dai monti Qandil in Iraq e dal sud-est della Turchia, sono accorsi a dar manforte alla resistenza; migliaia di civili dalla Turchia hanno sfondato le mura e i reticolati della frontiera turco-siriana, scontrandosi con l’esercito di Ankara, per entrare in Rojava e unirsi alla battaglia. Ogni giorno si contano morti e feriti sulla frontiera, negli scontri con i soldati che vogliono soffocare questo “corridoio di resistenza popolare”, indispensabile retrovia per la resistenza a nord di Kobane assediata.

«Se necessario, li affogheremo nel nostro sangue», ha dichiarato il co-presidente del cantone di Kobane, Enver Muslim. Non indietreggeranno, i partigiani curdi, combatteranno fino all’ultimo uomo e all’ultima donna, chi ne conosce la storia sa che simili promesse non sono slogan ad effetto (basti pensare alle centinaia di militanti che negli anni si sono auto-immolati dandosi fuoco, facendosi esplodere o lasciandosi morire di fame nelle carceri).

Mentre scriviamo, infatti, è in corso una furibonda battaglia strada per strada, casa per casa, e sono già molti i combattenti curdi (e soprattutto le combattenti) che si sono fatti esplodere in attacchi kamikaze contro postazioni islamiste, sacrifici che hanno avuto un peso determinante per la ripresa di alcuni quartieri. Il coraggio dei resistenti di Kobane ha trasformato una preannunciata tragedia in un luminoso simbolo di resistenza e di riscossa per tutti.

Non è più sola Kobane, questa battaglia l’ha già vinta, qualsiasi cosa succederà.

E grazie al suo coraggio, oggi, ci sentiamo meno soli anche noi.

Tocca a noi, ora, ai movimenti e ai resistenti di tutto il mondo, contribuire in ogni modo alla difesa di Kobane, del Rojava e di ciò che rappresentano; perché la sua sconfitta, come la sua vittoria, è qualcosa che non possiamo più fingere che non ci riguardi.

 


I due articoli, leggermente rivisti, sono ora disponibili anche in versione cartacea, nell'opuscolo: "Nell'occhio del ciclone. La resistenza curda tra guerra e rivoluzione", Edizioni Tabor, 32 pagine, 2.00 euri

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