fonte: Countepunch Il Kurdistan iracheno, quinta colonna occidentale in Medio Oriente Questo articolo è dedicato a Serena Shim. Perché entrambi ci siamo occupati quasi della stessa vicenda. Perché lei è morta e io sono ancora vivo. Perché lei era coraggiosa. Perché, anche se minacciata, intimidita, non ha smesso la sua devota ricerca della verità e fintanto che vivranno, lavoreranno, lotteranno e moriranno per la nostra umanità persone come lei tutto ancora non sarà perduto! *** Il tempo è uggioso, sta piovigginando e una nebbia pesante copre l’intera campagna. Una volta lasciata Erbil, la capitale della Regione Autonoma Curda dell’Iraq, appaiono posti di controllo grandi e piccoli dell’esercito e della polizia, come fantasmi, su entrambi i lati e nel mezzo di una vecchia, fatiscente autostrada costruita negli anni di Saddam Hussein. Sopra i posti di controllo sventolano grandi bandiere curde. Altre, piccole, sono attaccate ai paraurti delle auto. “Non possiamo rallentare adesso, a meno che le guardie non ci ordinino di fermarci”, spiega il mio autista, mentre passiamo accanto alle montagne di sacchetti di sabbia e alle nere bocche dei mitra. “Hanno ordine di sparare senza preavviso”. Non ci fermiamo, ma io fotografo tutte le volte che è possibile, anche attraverso il parabrezza. Stiamo percorrendo la strada che porta dritta a Mosul, la città che è stata presa dall’ISIS o, come è noto qui in arabo, dal Da’ish, nel giugno del 2014. Il mio autista è impaurito. L’intera regione è in tensione e questa volta persino la città di Erbil (nota anche come Arbil) non è stata risparmiata. Il 19 novembre un’autobomba è esplosa di fronte all’ufficio del governatore, uccidendo almeno sei persone e ferendone dozzine. Quasi immediatamente l’ISIS ne ha rivendicato la responsabilità dichiarando il suo obiettivo di diffondere insicurezza nell’enclave curda, filo-occidentale, dell’Iraq settentrionale. Mentre la nostra auto letteralmente volta sulle protuberanze e le buche, sul lato destro della strada spiccano elevate torri di trivellazione e raffinerie che sono a malapena visibili, appartenenti alla KAR, la compagnia petrolifera curda. Le fiamme delle raffinerie bruciano fiduciose e ci sono innumerevoli autocisterne con targhe curde, parcheggiate o in viaggio lungo tutte le strade principali e secondarie. Superiamo presto Kalak Town, nota anche come Khabat. Un tempo questo era un grosso posto di controllo; è da qui che i profughi da Mosul affluivano nella regione curda, a migliaia ogni giorno, dopo l’offensiva a sorpresa dell’ISIS. Qui c’erano postazioni di numerose agenzie dell’ONU e personale di ogni sorta di ONG, spie di innumerevoli paesi e forze armate che indossavano uniformi diverse. Oggi c’è solo la strada e qualche disperata bancarella improvvisata di frutta. La strada è stata distrutta, spezzata, in gran parte come quasi l’intero paese dell’Iraq: malconcio, sanguinante e senza speranza. Poco dopo c’è un grande posto di controllo che finisce su un muro di blocchi di cemento. Oggi questa è la fine dell’autostrada. Tutto attorno ci sono antenne e torri di guardia, SUV e veicoli militari. “Non possiamo andare più avanti”, dice il mio autista. “L’ISIS è solo a pochi chilometri di distanza da qui. Nessuno può spingersi oltre”. Ma io ho tutto organizzato. Qualche minuto di conversazione, alcune tazze di tè caldo e dalla postazione io vado avanti su una Toyota Land Cruiser, guidata personalmente da un comandante di battaglione curdo della forza di polizia militarizzata Zeravani (parte delle forze armate dei pershmerga), il colonnello Shaukat. Ci dirigiamo verso un grande muro di cemento e quando ci arriviamo molto vicini mi accorgo che c’è un piccolo tunnel, largo abbastanza per veicoli militari. Lo attraversiamo e poi si schiude la campagna, diventa aperta e vasta, e acceleriamo verso la città di Mosul. La strada è del tutto vuota e inquietante. Ci sono alcuni mitra sparpagliati in giro per la cabina del SUV. Ce n’è uno sotto i miei piedi; di fatto devo appoggiarci sopra la scarpa. Meccanicamente mi accerto che sia in sicurezza. Percorriamo alcuni chilometri dalla postazione e c’è un grande muro di sabbia, poi, un po’ più avanti, un altro. I muri tagliano quattro corsie dell’autostrada, lasciando solo uno stretto passaggio. “C’erano linee di confine tra noi e l’ISIS”, spiega il colonnello. “Può vedere come le abbiamo spostate sempre più indietro, verso Mosul”. Cimeli di guerra punteggiano l’autostrada. “Quest’auto è saltata in aria; fatta esplodere da un attentatore suicida”, continua il colonnello. “L’ISIS ha fatto scoppiare anche quell’autocisterna, mentre li stavamo costringendo verso Mosul e le colline”. E improvvisamente la strada termina. C’è un fiume e un ponte ridotto a una totale carcassa. “Il fiume Khazer!” si emoziona il colonnello. “Loro, l’ISIS, erano in tutta quest’area. Hanno fatto saltare il ponte … hanno distrutto il mio posto di controllo, vede là?” E’ tutto una disperazione qui in giro, una totale rovina. Ma c’è un nuovo ponte militare, di metallo, largo una sola corsia. Alcuni combattenti si avvicinano a noi. “Abbiamo respinto l’ISIS da qui”, mi è detto di nuovo. “Quanto è lontana Mosul?”, chiedo. “Sette chilometri,” dicono. “Al massimo dieci”. A me non pare. Ho un navigatore sul mio telefono e risulta che siamo ad almeno quindici chilometri dalla città condannata. “E dov’è la posizione più vicina dell’ISIS adesso?” I soldati curdi mi accompagnano al ponte militare provvisorio e indicano con la mano le colline, a sud-sud-ovest della nostra posizione attuale. “Sono là, su quelle colline. E continuano a bombardarci, giorno e notte”. “Mortai?”, mi chiedo. “Non quelli. I mortai non arriverebbero tanto lontano. Stanno sparando colpi d’artiglieria, calibro 155. Ricevono quella roba dall’Iran”. “E siete sicuri che arriva dall’Iran?” chiedo. “Così ci è detto …”, non chiedo da chi. Vicino al ponte c’è il villaggio di Sharkan, totalmente vuoto, spopolato. Il colonnello torna da me. “La porterò attraverso i villaggi”, dice. “Faremo una deviazione. Gli Stati Uniti hanno bombardato a tappeto l’ISIS qui, il 9 settembre. Poi abbiamo attaccato noi e riconquistato questo territorio. Abbiamo perso degli uomini … Abbiamo perso il capitano Rashid … Abbiamo perso un soldato che conoscevo; il suo nome era Ahmed. L’ISIS ha ucciso anche molti soldati peshmerga. Molti soldati sono morti perché qui tutto attorno era minato”. Ci dirigiamo dritti a quel caos: il villaggio di Sharkan, poi Hassan Shami. “Questo è il paese dell’ex ministro della difesa”, mi dice il colonnello. “Questa era la sua casa”. Quasi tutto è stato raso al suolo, ma la moschea è in piedi. Le bombe hanno penetrato innumerevoli case e ci sono macerie dappertutto. “Quanti civili sono morti?”, chiedo istintivamente. “Nemmeno uno”, mi è detto. “Lo giuro! Abbiamo fornito molte informazioni, così le forze USA hanno saputo che cosa bombardare”. Mi stupisco … casa dopo casa: tutto distrutto. Soldati dell’esercito curdo continuano a emergere dalla nebbia mentre attraversiamo questa terra desolata. Qui indossano molte uniformi diverse, ma tutti salutano il colonnello. Alcuni vengono addirittura a baciarlo. Nessuno vive più nei villaggi. I villaggi sono stati “liberati”, ma distrutti. La gente è stata uccisa, o è fuggita. O forse ai sopravvissuti è successo qualcos’altro: non lo chiedo, perché so che non mi sarebbe detto. “Avete in programma di liberare Mosul?”, chiedo. “Non abbiamo intenzione di attaccare Mosul”, dice il colonnello in una delle fermate e delle conseguenti riunioni militari. Altri annuiscono in accordo. “Non abbiamo nulla a che fare con quella città … Noi vogliamo soltanto riconquistare quello che è nostro”. Mentre torniamo alla base di Khazer mi viene detto che il contingente dell’ISIS che combatte qui attorno è davvero “internazionale”. Recentemente le forze curde hanno ucciso tre ceceni, quattro afgani, due tedeschi e due o tre libanesi. Improvvisamente mi rendo conto che il colonnello parla un inglese perfetto, cosa molto insolita in questa parte del mondo. E si identifica con un solo nome. “Colonnello Shaukat”, chiedo. “Dove ha imparato a parlare inglese così bene?” Mi rivolge un largo e luminoso sorriso: “Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. Ho trascorso due anni in Gran Bretagna e quattordici anni negli Stati Uniti, dove sono stato addestrato. Sono stato addestrato anche in Austria …” “Dove, esattamente, è stato addestrato negli Stati Uniti?” “In North Carolina”, risponde. Alla base ci sediamo su alcuni tappeti; con circa dieci ufficiali curdi e me. Beviamo di nuovo del tè. Passo i miei biglietti da visita, ma il colonnello mi dà solo il suo numero di telefono. “Non ho tempo per internet, ma torni, quando vuole! Qui ci piacciono i veri corrispondenti di guerra”. Intervisto due medici di Mosul, una telefonata interurbana, mentre torniamo a Erbil; i cellulari funzionano ancora. “L’ISIS non uccide più”, mi dicono. “Quelli che dovevano morire sono già morti. Adesso fumi e ti tagliano le dita. Lavora durante l’ora della preghiera e ti puniscono. Hanno ucciso mussulmani sciiti, curdi e cristiani … Hanno la loro lista di persone da uccidere … Oggi Mosul sta urlando di dolore; siamo privi di medicinali, latte in polvere, pannolini per i bambini, cibo …” *** A sera prendo una tazza di tè con un vecchio scienziato, un fisico nucleare, di nome Ishmael Khalil, in origine dell’Università di Tikrit, oggi un profugo. Siamo nell’antica sala da tè al centro di Erbil. Dice: “Tutto quello che avevo è stato distrutto … gli statunitensi sono la causa principale di questa follia … della distruzione totale dell’Iraq. Non lo dico solo io; chiedi a qualsiasi ragazzo e ti sentirai dire la stessa cosa … Noi appartenevamo tutti a una nazione grande e fiera. Oggi tutto è frammentato, in rovina. Non abbiamo nulla; tutti noi siamo diventati mendicanti e profughi nella nostra stessa patria”. Machko Chai Khana è una vera istituzione: una vecchia, tradizionale sala da tè incastonata nell’antica Cittadella di Erbil. E’ qui che si riuniscono molti pensatori e scrittori locali, dove sorseggiano il tè e giocano a carte. Oggi gli intellettuali locali stanno gomito a gomito con profughi in arrivo da tutto l’Iraq, e da luoghi così lontani come la Siria. “Insegnavo e creavo, contribuivo alla costruzione del mio paese. Poi l’Iraq è stato invaso e distrutto. Ora non posso fare nulla … non ho nulla … Oggi non faccio altro che mangiare e dormire. E questo è esattamente quello che vuole l’occidente, vuole distruggere le nostre menti!” Mentre parla, il professor Khalil naviga sul suo smartphone, mostrandomi foto della sua università, del suo ufficio e dei suoi ex allievi. “Sono fuggito cinque mesi fa, dopo che la mia università era stata devastata dall’ISIS. E tutti sappiamo chi è dietro di loro, gli alleati dell’occidente: Arabia Saudita, Qatar e altri … spesso sogno il mio paese, così com’era, sotto Saddam Hussein. Le infrastrutture erano eccellenti e la gente era ricca. C’era abbondanza di elettricità e acqua … c’erano istruzione e cultura per tutti …” *** Oggi la Regione Autonoma Curda dell’Iraq (con Erbil come capitale) sta tentando di propagandarsi come relativamente stabile e sempre più prospera, “diversamente dal resto dell’Iraq”. Ha alcune delle più vaste riserve petrolifere del mondo e perciò attira grossi investimenti dall’occidente. Mentre il resto dell’Iraq annega nel sangue, marcendo economicamente e socialmente, questa parte del paese “non ha il permesso di crollare”, a causa dell’importanza strategica che ha per gli Stati Uniti e per l’Europa. Ci sono stranieri dappertutto. Mentre mi trovo trattenuto a un posto di controllo, per un’ora, appena prima della città di Kirkuk, ufficialmente per domande di routine e “per la mia stessa sicurezza”, vedo un convoglio di molte Toyota Land Cruiser governative bianche dirette a Erbil, con un occidentale che indossa occhiali da sole, seduto dietro un’enorme mitragliatrice montata sul retro del veicolo che apre la fila. In un hotel di lusso, il Rotana, condivido l’ascensore con un tizio britannico che cammina scalzo, i suoi stivali luridi portati da un domestico. “Ho rovinato gli stivali nel deserto!”, confessa l’occidentale, sorridendo al suo servitore. “Insegno alla gente a sparare, sai? Ti piace sparare?” “Oh sì, signore!” risponde l’uomo che porta gli stivali sporchi. Molto probabilmente è siriano, un profugo. E’ molto ansioso di compiacere. “Amo tantissimo sparare, signore!” Stranieri hanno il controllo della produzione petrolifera, si “occupano dei temi militari”, gestiscono alberghi, lavorano persino qui come massaggiatori, camerieri e collaboratori domestici. Gli occidentali controllano gli affari e ci sono turchi, libanesi, egiziani, siriani, indonesiani e persone del sub-continente che svolgono ogni sorta di lavoro dirigenziale, specializzato e anche non qualificato. La Turchia sta investendo fortemente e ha costruito ogni cosa qui, da splendenti torri per uffici in vetro e acciaio, all’aeroporto internazionale nuovo di zecca alla periferia di Erbil. E’ il partner commerciale più importante del Kurdistan iracheno, seguita da Israele e dagli Stati Uniti. La Turchia, un fedele alleato dell’occidente e di Israele, è profondamente coinvolta anche “politicamente”. Alcuni di miei amici accademici di Istanbul affermano in effetti che sta gestendo quasi l’intero Kurdistan iracheno. Nonostante tutta quella propaganda e pubblicità positiva che è diffusa dai media di massa occidentali a proposito del Kurdistan iracheno, il posto appare caotico, addirittura deprimente. Come ogni paese o regione del mondo sotto il totale controllo degli affari e degli interessi geopolitici occidentali, il Kurdistan iracheno è prevalentemente avviato allo sfruttamento delle risorse naturale e a trascurare il proprio popolo. Mentre crescono le disparità di reddito, si fa pochissimo per migliorare il tenore di vita della maggioranza impoverita, non istruita e profondamente frustrata. Come ha spiegato un dirigente di vertice (viene da un paese arabo e ha timore di rivelare pubblicamente la sua identità) di uno degli alberghi di lusso di Erbil: “Eravamo giovani e pronti a ogni avventura; volevamo fare esperienza del mondo. E ci era stato detto: ‘Cogliete l’occasione e venite a Erbil! Presto diventerà un altro Dubai’. Ma lo osservi ora, dopo tutti questi anni: la gente è molto povera e non ci sono infrastrutture. Fondamentalmente non ci sono fognature e l’elettricità manca in continuazione; abbiamo lunghe ore di blackout ogni giorno e tutti gli alberghi devono usare i propri generatori. Può immaginare un paese con così tanto petrolio e con costanti blackout? Vogliono essere indipendenti dall’Iraq, ma sono finiti nell’abbraccio mortale degli stranieri: occidentali, turchi e israeliani stanno gestendo il loro paese. E’ perfetto per i ricchi, per le élite. Solo i ricchi e i corrotti stanno avvantaggiandosi del modo in cui il paese è strutturato. Non c’è nemmeno una sola fabbrica solida qui … Mi sto proprio chiedendo che cosa mangeranno quando avranno finito il petrolio”. Mi reco alla Erbil Refinery, appartenente alla KAR (una conglomerata petrolifera locale), situata nel distretto di Khabat, a Kawrkosek (nota anche come Kawegorsk), a soli 40 chilometri da Erbil. L’esercito, la polizia e i paramilitari sono dovunque, a protezione delle installazioni. Ci sono autocisterne turche parcheggiate lungo tutta la strada. Ma quando procedo ancora per soli pochi minuti, su per una collina, la miseria mi urla con forza in faccia. Parlo con il signor Harki, la cui casa è di fronte alla raffineria. E’ indignato, come la maggior parte dei cittadini comuni. “Tutto questo è per i ricchi … Tutto questo è per le multinazionali e niente per la gente. Questa compagnia petrolifera si è presa la nostra terra. Si diceva che avremmo avuto risarcimenti: denaro, carburante, posti di lavoro … Ma finora non abbiamo avuto niente! Sono molto arrabbiato. Adesso la mia famiglia è malata; abbiamo problemi respiratori, l’aria è semplicemente tremenda.” Pochi chilometri più avanti, via dall’autostrada, l’intera area è contaminata da rifiuti e da discariche puzzolenti. Ogni sorta di recinzioni, alcune ad alto voltaggio, divisione della terra, proprio come nel resto del ‘Kurdistan iracheno’. Nella città di Kawergosk vede numerose donne mussulmane che raccolgono radici, appena fuori dalla strada, evidentemente per riempire lo stomaco delle loro famiglie. Non lontano da loro individuo una scuola elementare pubblica. E’ decrepita, estremamente essenziale. Questa comunità mussulmana è evidentemente abbandonata, nonostante le vicine basi e raffinerie petrolifere. Nessuna meraviglia: il regime filo-occidentale di Erbil è apertamente anti-arabo e filo-occidentale. Il presidente Barzani parla ripetutamente del carattere euroasiatico della sua enclave, contestando che abbia qualsiasi cosa a che fare con un indesiderabile carattere arabo mediorientale. Una direttrice scolastica, eretta, bella e fiera, indossa una bandana. Irrompo nel suo ufficio e poi mi freno e mi scuso. Ho solo una domanda per lei: “Una qualsiasi parte dei ricavi di quei campi petroliferi e di quelle raffinerie all’esterno finisce qui, nella sua scuola, nel settore dell’istruzione?” La sua risposta è tanto breve e precisa quanto la mia domanda: “No, nulla! La nostra gente e le nostre scuole non ricevono assolutamente nulla!” Ma il numero di milionari curdi è in aumento, come il numero di limousine e SUV di lusso, come gli abbaglianti centri commerciali per le élite, come gli eserciti di arroganti guardie della sicurezza, locali e importate. Come in così tanti stati “vassalli” dell’occidente, nel Kurdistan iracheno è incerto se tutti quegli uomini che esibiscono mitra stiano in realtà proteggendo il paese dai terroristi o se stiano facendo la guardia alle élite difendendole dalle masse impoverite. *** Non lontano dai campi petroliferi c’è un grande campo profughi; questo è per gli esuli siriani. Dopo aver trattato per entrare riesco a chiedere al direttore del campo, il signor Khawur Aref: “Quanti profughi sono rifugiati qui?” “14.000”, risponde. “E dopo che avremo raggiunto i 15.000 questo posto diventerà ingestibile.” Ho voluto sapere se tutti i profughi ospitati qui venissero effettivamente dalla Siria. “Vengono da tutto il nord della Siria; dalla Siria curda. Quasi tutti sono curdi; abbiamo pochissimi arabi.” Sono scoraggiato dall’intervistare persone, ma riesco a parlare comunque con numerosi profughi, tra cui il signor Ali e la sua famiglia, venuti dalla città siriana di Sham. Voglio sapere se tutti i nuovi arrivati sono interrogati. Lo sono. Sono poste domande a proposito del loro essere a favore o contro il presidente Bashar al-Assad? Sì; a tutti sono poste queste domande, e altre … E se una persona una persona davvero disperata, bisognosa e affamata risponde di appoggiare il governo di Bashar al-Assad e che è venuta qui perché il suo paese è distrutto dall’occidente, allora cosa succede? Alla sua famiglia non sarà mai permesso di restare nel Kurdistan iracheno. *** All’interno della magnifica Cittadella, uno dei luoghi abitati da più tempo sulla terra, e oggi Patrimonio dell’Umanità, così designato dall’UNESCO, il signor Sarhang, un curatore dell’impressionante “Museo tessile curdo” è tanto scontento del suo paese quanto quasi tutti nella città di Erbil e nelle sue vicinanze. “Dovremmo essere al sicuro, ma solo pochi giorni fa, il 19 novembre, una bomba ha ucciso sei persone, a soli pochi minuti a piedi da qui. L’ISIS ha rivendicato la responsabilità. Ora, come può vedere, nessuno osa andare in giro qui, è il museo è vuoto. Ma quello non è il solo problema che abbiamo di fronte. Guardi la periferia di Erbil; stanno costruendo lussuosi appartamenti nuovi di zecca per le élite locali e per gli stranieri. Un appartamento costa circa mezzo milione di dollari! Chi è in grado di pagarli? Il denaro che si fa qui è rubato, da stranieri e dai nostri dirigenti e uomini d’affari corrotti. Non ci sono quasi trasporti pubblici qui, e ci sono infrastrutture estremamente insufficienti …” Di nuovo al Machko Chai Khana, il professor Ishmael Khalil alza la voce, mentre il proprietario della sala da tè fa andare a tutto volume vecchie canzoni della grande cantante egiziana Am Khalthom. “I curdi fanno il doppiogioco: dicono una cosa all’occidente e un’altra al governo iracheno. Francia, Germania, Stati Uniti … stanno chiaramente scommettendo su un Kurdistan ‘indipendente’. L’occidente vuole dividere l’Iraq, una volta per tutte. Ha già creato una profonda divisione tra sciiti e sunniti e si spingeranno molto più in là. Arabia Saudita, Qatar, Giordania, Egitto, Turchia … sono tutti stretti alleati degli Stati Uniti e sono coinvolti nel progetto. Parli contro il piano e finisci ucciso”. Improvvisamente smette di parlare e si guarda attorno. Poi cambia discorso. “Oggi, di nuovo, niente elettricità a Erbil”. Ricordo alcune delle ultime parole del colonnello curdo Shaukat, pronunciate in prossimità del fronte con l’ISIS: “I nostri alleati sono gli USA, la Gran Bretagna, la Francia e altri paesi occidentali”. Quasi a confermare le sue parole, a circa quaranta chilometri di distanza, ai cancelli dell’Aeroporto Internazionale di Erbil, ci sono jet appena arrivati direttamente da Francoforte, Vienna, Ankara, Istanbul e da molti altre “città amiche”: Lufthansa, Austrian Airlines, Turkish Airlines, anche alcuni 747 non identificabili. *** C’è un crescente nervosismo fuori e dentro la città di Kirkuk, che si trova sopra enormi giacimenti petroliferi e che ormai da molti mesi è governata sia dai curdi sia dal governo iracheno di Baghdad. “Alcune forze antioccidentali stanno operando là, proprio ora”, mi è detto. Pare che a quasi nessuno piaccia il governo di Baghdad e che nessuno, salvo alcuni curdi del Kurdistan iracheno, ami gli occidentali. Non è un segreto che l’ISIS è stato accolto da benvenuto a Mosul e in altri luoghi da cittadini disperati. Ma molti, o la maggior parte dei cittadini iracheni istruiti, lo vedono come una specie di incubo di routine, un nuovo ramo dei movimenti vassalli degli USA e dell’Europa, creati e armati per distruggere la Siria del presidente al-Assad. Tutto questo è un gioco estremamente pericoloso. Milioni sono già morti negli ultimi pochi decenni, in ogni parte del Medio Oriente; vittime dei barbari giochi geopolitici occidentali, vittime degli alleati dell’occidente: in Iraq, Iran, Siria, Libano, Palestina e in tutto il mondo arabo. Persone come Serena Shim, una giornalista libanese-statunitense che si occupava di questi orrendi eventi per la Press TV, sono intimidite. Se non la smettono di lavorare e di dire la verità sono liquidate, assassinate, esattamente come è successo a lei. Nel frattempo uomini d’affari e dirigenti locali corrotti, ma prevalentemente stranieri, stanno spogliando sistematicamente il Kurdistan iracheno. E nel resto dell’Iraq è rimasto ben poco. Come è diventato estremamente comune, ladri e assassini oggi si autodefiniscono ‘liberatori’ e buoni samaritani. L’Iraq sta sanguinando, ma quasi nulla della verità è consentito penetri nel resto del mondo, a proposito del sinistro destino di questo paese un tempo noto come la culla della nostra civiltà.
Andre Vltchek è uno scrittore, regista e giornalista d’inchiesta. Si è occupato di guerre e conflitti in dozzine di paesi. La sua discussione con Noam Chomsky ‘On Western Terrorism’ [A proposito del terrorismo occidentale] sta andando ora in stampa. Il suo romanzo politico, acclamato dalla critica, ‘Point of No Return’[Punto di non ritorno] è ora riedito e disponibile. Oceania è il suo libro sull’imperialismo occidentale nel sud del Pacifico. Il suo libro provocatorio sull’Indonesia post-Suharto e sul modello fondamentalista del mercato è intitolato “Indonesia The Archipelago of Fear” [Indonesia l’arcipelago della paura]. Ha appena completato il documentario ‘Rwanda Gambit’ [Gambetto ruandese] sulla storia del Ruanda e sul saccheggio della Repubblica Democratica del Congo. Dopo aver vissuto per molti anni in America Latina e in Oceania, Vltchek attuale risiede e lavora in Asia Orientale e in Africa. Può essere raggiunto attraverso il suo sito web o al suo indirizzo Twitter. Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Originale: http://www.counterpunch.org/2014/11/28/iraqi-kurdistan-western-fifth-column-in-the-middle-east/
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