Maan News
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10/11/2014

Il piano di annessione della Cisgiordania di Naftali Bennet, un segnale di allarme per l’Occidente
di John V. Whitbeck
Traduzione di Stefano Di Felice

Naftali Bennet, ministro dell’economia di Israele e leader del partito della Casa ebraica, esponente di spicco dell’attuale governo israeliano, è considerato da molti un politico in crescita in Israele, e il successore potenziale di Benjamin Netanyahu alla carica di primo ministro alle prossime elezioni israeliane.

Il 6 novembre ha pubblicato sull’International New York Times un significativo articolo, intitolato «Per Israele due Stati non sono una soluzione».

In questo articolo Bennet spiega che «Israele, per la propria sicurezza, non può ritirarsi da altri territori, e non può permettere che in Cisgiordania venga istituito uno Stato palestinese» e quindi continua proponendo il suo «piano in quattro fasi» per la pace.

Il suo «piano di pace» include, in particolare, l’annessione unilaterale di Israele dell Area C, corrispondente a circa il 61% della Cisgiordania, in modo da «ridurre il raggio del territorio conteso e facilitando un accordo di lungo termine in futuro».

Nella sua visione di pace, ogni «entità palestinese» su residui frammenti di territorio delle Aree A e B della Cisgiordania «sarà senza Stato, non controllerà i propri confini e non potrà avere un esercito». In quanto a Gaza, «non può entrare a far parte di alcun accordo».

Bennet conclude: «Sono consapevole che il mondo non accetterà immediatamente questa proposta, che sembra contraddire tutto ciò su cui Israele, i palestinesi e la comunità internazionale hanno lavorato negli ultimi 20 anni».

«Ma io lavorerò affinché tale proposta diventi una politica del governo, in quanto in Medio Oriente c’è una realtà nuova, che ha messo fine alla realizzabilità del processo di pace di Oslo».

Si spera che la franchezza di Bennet spazzi via ogni residua illusione in quei governi occidentali che per decenni hanno bloccato la nascita di uno Stato palestinese ritenendo che essa, anche a livello puramente legale, debba esser il risultato di negoziati con Israele – cioè, dopo quasi mezzo secolo di occupazione belligerante e con il consenso prioritario della potenza occupante.

Si spera anche che la franchezza di Bennet aiuti i governi occidentali a riconoscere la necessità urgente di salvare la soluzione dei due Stati, in uno o, meglio, in due modi possibili – 1. che gli Stati Uniti non pongano il loro veto alle Nazioni Unite allo status di Stato membro della Palestina, e, 2. che sul virtuoso esempio della Svezia avvenga uno tsunami di riconoscimenti diplomatici dai 19 Stati dell’Unione Europea che ancora non si sono espressi in tal senso, seguito da un programma chiaro e coerente di intensificazione delle sanzioni europee finché Israele non si atterrà al diritto internazionale e relative risoluzioni dell’Onu, ritirandosi completamente dallo Stato di Palestina occupato.

In un mondo che ancora si dimostra formalmente rispettoso del diritto internazionale e dello statuto delle Nazioni Unite, l’occupazione di uno Stato membro da parte di uno Stato confinante non si potrà permettere che duri indefinitamente, e l’Europa è il principale partner commerciale e patria culturale di Israele, che gode privilegi e vantaggi derivanti dall’appartenenza virtuale all’Unione.

Qualsiasi azione intrapresa sarebbe una salutare e costruttiva presa di coscienza per la società israeliana, e renderebbe la fine dell’occupazione una mera questione di «quando» piuttosto che di «se».

Pare che i parlamenti di Francia e Spagna voteranno per il riconoscimento dello Stato di Palestina prima della fine dell’anno, sebbene, come nel caso del voto favorevole travolgente alla Casa dei Comuni britannica, e del favore unanime al Senato irlandese, nessun voto sia collegato ai rispettivi governi.

Se il governo degli Stati Uniti dovesse permettere allo Stato di Palestina di diventare membro delle Nazioni Unite, si può con molta probabilità prevedere un’ondata di riconoscimenti diplomatici da parte degli Stati dell’Unione Europea, che per tradizione si sono sempre accodati agli Stati Uniti nelle questioni riguardanti Israele, la Palestina e il così detto «processo di pace».

Ci sono anche dei motivi di speranza che il nuovo controllo totale del partito repubblicano sul Congresso Usa, che esclude da due anni il presidente Obama da qualsiasi affare nazionale, faccia pensare al premio Nobel per la pace di lasciare in eredità dei risultati storici in politica estera che sta a lui solo e al suo solo potere ottenere.

Se però non si verificherà nessuna di queste due possibilità entro la metà del 2015, il popolo e la leadership palestinesi, e tutti coloro che cercano davvero una pace giusta in Israele-Palestina, dovranno gettare la «soluzione a due Stati» e l’attuale «legalità a due Stati» nel cestino della spazzatura della storia, accettare l’attuale «realtà a uno Stato» e intraprendere una battaglia di principio, a lungo termine, contro l’apartheid, per eguali diritti e per la dignità delle persone in uno Stato unitario, per tutti coloro che vivono nell’ex mandato di Palestina.


John V. Whitbeck è un avvocato internazionale che ha assistito il gruppo palestinese nei negoziati con Israele

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