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11 ottobre 2014

Israele e la parola che inizia con G

di Jonathan Cook

Traduzione di Maria Chiara Starace

Il mese scorso i funzionari israeliani sono stati sorpresi a dire una bugia rivelatrice mentre il paese celebrava l’Anno Nuovo ebraico. Poco dopo aver dichiarato che il nome maschile più diffuso a Israele è “Yosef”, il ministro degli Interni è stato costretto ad ammettere che il più “gettonato” era in realtà “Mohammed”.
Questo piccolo inganno è coinciso con il discorso del Presidente palestinese Mahmoud Abbas alle Nazioni Unite. Ha fatto infuriare gli israeliani riferendosi al massacro di oltre 2.100 palestinesi – la maggior parte dei quali civili – avvenuto a Gaza questa estate, usando la parola “genocidio”.
Entrambi i fatti sono serviti a ricordare l’enorme potere di una sola parola.
La maggior parte degli Israeliani sono a malapena in grado di prendere in considerazione la possibilità che il loro stato ebraico possa produrre più Mohammed che Moshe. Allo stesso tempo, e paradossalmente, Israele può far notare il puro e semplice numero di “Mohammed” per dimostrare che, nel peggiore dei casi, sta sradicando la visibilità di un nome musulmano, certamente non coloro che lo portano.
Per quanto angoscianti, le centinaia di morti di Gaza soni lungi dalle uccisioni su vasta scala dell’Olocausto causato dai nazisti.
Però l’idea che Israele stia commettendo un genocidio forse potrebbe non essere così iperbolica come si suppone. Il mese scorso una ”giuria” che comprendeva esperti di legge internazionale in un tribunale del popolo, noto come Tribunale Russell, per il recente attacco di Israele a Gaza, ha concluso che Israele era colpevole di “istigazione al genocidio.”
Il comitato ha sostenuto che la punizione a lungo termine dei palestinesi, sembrava essere designata a “infliggere condizioni di vita calcolate per causare la distruzione progressiva dei palestinesi come “gruppo”.
Il linguaggio del tribunale era una eco intenzionale di quello di Raphel Lemkin, un avvocato ebreo polacco che dopo essere scappato dalla Germania nazista è riuscito a introdurre la parola “genocidio” nella legge internazionale.
Lemkin e coloro che hanno redatto la convenzione dell’ONU hanno compreso che il genocidio non richiedeva campi di sterminio; poteva essere compiuto anche gradualmente per mezzo di violazioni e incuria volute e sistematiche. La loro definizione solleva domande preoccupanti sul modo in cui Israele ha trattato Gaza, a parte gli attacchi militari. Per esempio, costringere i due milioni di abitanti dell’enclave a dipendere dalle falde acquifere inquinate dall’acqua di mare, costituisce un genocidio?
Il vero problema dell’uso del termine che fa Abbas – dato che contrasta con diffuse idee di genocidio – è che lo ha reso un facile bersaglio di critiche. Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu, ha accusato il leader palestinese di “istigazione”. Nel frattempo la sinistra israeliana ha criticato la sua esagerazione feroce e inutile. Ma gli stessi critici non hanno offerto risposte ma hanno irritato le persone.
Non soltanto gli esperti come Richard Falk e John Dugard considerano le azioni di Israele in termini di genocidio, ma lo hanno fatto anche illustri studiosi israeliani. Il defunto Baruch Kimmerling ha inventato una parola: “politicidio” per comunicare in modo più sicuro l’idea di un genocidio di Israele contro i palestinesi.
Malgrado ciò, Israele è riuscita a proteggersi dal lessico critico applicato a situazioni equivalenti in tutto il mondo.
Nei conflitti dove si verifica un’espulsione di massa di un gruppo etnico o nazionale, questa viene giustamente riconosciuta come pulizia etnica. Tuttavia, nel caso di Israele, rispettabili storici parlano in modo ambiguo degli eventi del 1948, anche se più dell’80% dei palestinesi sono stati cacciati con la forza, quando ha istituito uno stato ebraico sulla loro terra natia.
La stessa cosa accade con la “apartheid”. Per decenni, chiunque usava quella parola per Israele era considerato come estremista o anti-semita. Soltanto negli scorsi anni – e principalmente grazie all’ex presidente Jimmy Carter, la parola ha guadagnato un punto di appoggio provvisorio.
Anche allora, il suo uso principale è un avvertimento piuttosto che una descrizione del comportamento di Israele: gli irriducibili aderenti dei due stati affermano che Israele corre il rischio di diventare uno stato segregazionista in un qualche momento indefinibile, se non si separa dai palestinesi.
Ci viene detto, invece, di accontentarci dell’etichetta “occupazione”. Questa però implica una situazione provvisoria, un periodo di transizione prima che venga ripristinata la normalità – esattamente l’opposto di quello che accade ora a Gerusalemme, in Cisgiordania e a Gaza, dove l’occupazione si sta consolidando, trasformando e diffondendo.
Coloro che difendono il lessico critico, ci privano di una terminologia che serva a comunicare la scioccante realtà che affrontano i palestinesi, non solo come individui, ma come gruppo nazionale. In verità, la strategia di Israele incorpora delle varianti di pulizia etnica, apartheid e genocidio.
Gli osservatori, compresa l’Unione Europea, ammettono che Israele continua con la pulizia etnica progressiva – sebbene preferiscano usare il termine più vago “trasferimento fatto con l’uso delle forza” – dei palestinesi dalla cosiddetta zona C, quasi due terzi della Cisgiordania, cioè la maggior parte di qualsiasi futuro stato palestinese.
Israele ha gestito un’apartheid troppo sofisticata – in parte velata dalla sua volontà di evitare gli aspetti più visibili della segregazione associati con il Sudafrica – che si prende le risorse, proprio come il suo famoso cugino, a beneficio di un solo gruppo etnico-nazionale, gli ebrei, a spese di un altro, i palestinesi.
Al contrario dell’apartheid sudafricana, però, il cui sistema fisso legale e istituzionale di segregazione era diventato gradualmente lento e scomodo, quello di Israele continua a essere dinamico e reattivo. Pochi osservatori sanno che, per esempio, che a Israele quasi tutta la terra dove risiedono le persone è off-limits per i cittadini palestinesi, e questa regola vene attuata tramite comitati di controllo accurato, di recente autorizzati dai tribunali israeliani.
E che cosa pensare di un piano appena rivelato dai media israeliani che indica che Netanyahu e i suoi alleati hanno segretamente complottato per costringere molti palestinesi a trasferirsi nella penisola del Sinai, con l’aiuto di pressioni da parte degli Stati Uniti sugli Egiziani per arrivare a un accordo? Se è vero, le campagne di bombardamenti dei sei anni passati potrebbero essere meglio intese come operazioni di “ammorbidimento” prima di eseguire un’espulsione di massa da Gaza.
Una politica di questo genere soddisferebbe certamente la definizione di genocidio formulata da Lemkin.
Un giorno, senza dubbio, qualche storico conierà una parola per descrivere la strategia unica di Israele di distruggere il popolo palestinese in maniera progressiva. Purtroppo, allora potrebbe essere troppo tardi per aiutare i palestinesi.



Jonathan Cook ha vinto il Premio Speciale Martha Gellhorn per il Giornalismo. I suoi libri più recenti sono: “Israel and the Clash of Civilisations: Iraq, Iran and the Plan to Remake the Middle East” [Israele e lo scontro di civiltà: Iraq, Iran e il piano per rifare il Medio Oriente] (Pluto Press) e Disappearing Palestine: Israel’s Experiments in Human Despair” [La Palestina che scompare: gli esperimenti di Israele di disperazione umana] (Zed Books). Il suo sito web è: www.jonathan-cook.net.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata la prima volta su The National, di Abu Dhabi.



Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org


Fonte: http://zcomm.org/znet/article/israel-and-the-gword


Originale : non indicato


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