da Micromega
9/2013

Una critica ebraica al sionismo
Judith Butler conversa con Gloria Origgi

C’è un errore originario che ha segnato la nascita di Israele: l’idea che sia possibile fondare un nuovo Stato in riparazione dei torti subiti riproducendo altri torti su un’altra popolazione. Solo con la riscoperta di un’etica della reciprocità insita nella condizione diasporica degli ebrei sarà possibile porre termine a un conflitto altrimenti senza fine.

Nel suo libro Strade che divergono. Ebraicità e critica del sionismo (Raffaello Cortina, 2013), sostiene che il sionismo sia incompatibile con l’etica ebraica. Secondo lei la diaspora è una condizione esistenziale ed etica per gli ebrei, e ne segue che il sionismo non è compatibile con questa condizione, essendo un progetto di Stato nazionale. Può spiegarci meglio cosa intende quando afferma che la diaspora è una condizione etica?

La diaspora presuppone che gli ebrei vivano con chi ebreo non è e che si stabilisca una relazione etica tra i due. Quando una «condizione diasporica», come la definisco nel libro, è prodotta dall’essere stati espropriati di tutto – come è successo agli ebrei – questa stessa condizione può essere la base per una maggiore comprensione, una maggiore vicinanza con chi ha vissuto la stessa esperienza, con chi ha perso tutto: i rifugiati, i senza terra, i senza patria... Da questa prospettiva emergono un’etica e una politica differenti, e soprattutto un senso differente di «alleanza» da quello promosso dagli Stati nazione.

Anche Edward Said, palestinese e autore di Orientalismo (Peltrinelli, 1978, 1999), aveva una posizione simile: se non sbaglio, sosteneva che la di-spersione di un popolo non è solo una condizione geografica, ma una mo-dalità etica. È d’accordo anche lei che la condizione diasporica, come la defìnisce lei, sia una modalità etica che va ben al di là dell’etica ebraica?

Certo. E lo dico esplicitamente nel libro che ha citato. È una delle tesi principali di quel lavoro. E, ovviamente, mi sento molto vicina alla posizione di Said, con alcune differenze però. Said vede nella differenza tra le esperienze di espropriazione degli ebrei e dei palestinesi una possibile base per un’alleanza tra i due popoli. Le due esperienze sono molto diverse: i palestinesi non hanno nulla a che fare con la diaspora ebraica, mentre gli ebrei sono responsabili della diaspora palestinese. Ovviamente, non sono stati tutti gli ebrei a espropriare i palestinesi, né tutti i rifugiati in Israele, ma solo una piccola parte. Molti rifugiati ebrei non si erano nemmeno mai posti la questione del sionismo. Arrivarono in Israele dopo la seconda guerra mondiale, alcuni sì, per scelta, ma la maggior parte per necessità o per caso.

Said sostiene che le due esperienze di diaspora, seppur diverse, debbano unire i due popoli e creare la base di un’alleanza tra due Stati. Io, invece, penso che la condizione di espropriato debba darei la capacità di pensare oltre l’appartenenza nazionale e la logica degli Stati. L’etica della diaspora ha per me una portata molto più ampia: quella di renderci capaci di andare al di là delle rivendica-zioni nazionali e identitarie. Il punto centrale per me, il perno di qualsiasi posizione etica, è scoprire che dipendiamo dagli altri, che siamo legati a filo doppio all’esistenza degli altri. Questa forma di relazionalità viene prima di qualsiasi forma di identità.

Ma se la sua etica relazionale è un approccio generale alla condizione dell’esistenza, allora pensa che anche i palestinesi, se assumono la loro condizione diasporica, dovrebbero enunciare alla retorica nazionalista, alle rivendicazioni su/4 terra e al diritto al ritorno, chepermette a qualsiasi palestinese nel mondo di domandare la nazionalità palestinese?

Mi chiede due cose diverse. Il diritto al ritorno è un diritto interna-zionale che appartiene a tutti i rifugiati politici e sarebbe assurdo negarlo a chicchessia. Non è l’espressione di un nazionalismo particolare o di un quadro nazionale specifico. Molti dei movimenti civili più importanti oggi sono basati su leggi internazionali. Lo stesso movimento Bds – Boycott, Divestment and Sanctions (www.bds-movement.net <http://www.bds-movement.net> ) che milita per boicottare Israele e applicare sanzioni internazionali fino a quando Israele non abbandona la politica degli insediamenti e la colonizzazione dei territori e non riconosce il diritto al ritorno dei palestinesi – è basato sul diritto internazionale. È invece una cosa diversa porsi la domanda difficile di quale forma di autodeterminazione politica si possa assumere fuori dalle rivendicazioni nazionali. La questione difficile è quale forma di identità il popolo palestinese, o quello israeliano, possa articolare al di fuori della retorica nazionalista. Se emergesse una politica per la quale l’autodeterminazione di un popolo non dipende dalla distruzione dell’altro, allora ci avvieremmo verso una soluzione di bi-nazionalismo che prenda in considerazione il nazionalismo di entrambi.

Cosa pensa della posizione di Hannah Arendt contro il sionismo?

Molti dei capitoli del libro Strade che divergono sono dedicati a questo argomento e non è facile riassumere una posizione che ho impiegato tanto tempo a formulare. Per prima cosa, è importante ricordare che negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta, Arendt sostenne il sionismo culturale, ossia la posizione secondo la quale gli ebrei dovevano costituire una nazione senza terra, opponendosi così sia all’assimilazionismo, sia al sionismo basato sul progetto della fondazione dello Stato di Israele. Arendt immaginava una nazione senza territorio per gli ebrei in un’Europa federata, una nazione da definire nei termini della sua pluralità costitutiva. Questa posizione le fece preferire in seguito, nel 1943, l’idea di una federazione di Stati tra Palestina e Israele. A quei tempi, la sua posizione non era che una di quelle possibili nel panorama delle varie declinazioni dell’idea sionista. E' solo oggi che l’idea di uno Stato federale israelo-palestinese è vista come antisionista e antisemita. Si allontanò dal progetto sionista solo quando fu chiaro, dopo la fine della guerra, che si trattava di un progetto legato a un solo Stato, quello di Israele, e a una regola di maggioranza. E aveva ragione di farlo. Non solo predisse che la messa in minoranza dei palestinesi all’interno dei confini stabiliti internazionalmente per Israele e l’espulsione di più di ottocentomila palestinesi sarebbero state la causa di un conflitto senza fine nel futuro. Ma disse anche, giustamente, che nessuno può fondare uno Stato per rifugiati in riparazione ad atti di espropriazione, spoliazione e sterminio, creando un’altra popolazione di rifugiati. Era una contraddizione nell’atto di fondazione che resta irrisolta ancora oggi. Una politica coerente e non contraddittoria per i rifugiati avrebbe dovuto avere come premessa che la «produzione» di rifugiati è sbagliata, che nessuno può salvaguardare i diritti di un gruppo di rifugiati negando i diritti di un altro gruppo. Una politica coerente e veramente universale sui rifugiati di qualsiasi provenienza aiuterebbe sicuramente a realizzare le prospettive di una coabitazione pacifica. Allo stesso modo, Arendt capì che nessuno può attuare una politica di auto-determinazione se nega o distrugge i diritti di autodeterminazione degli altri. La sua visione, così lucida, era già alla base dei suoi precedenti appelli per un’autorità federale e una sovranità condivisa.

La sua lettura di Arendt mostra comunque che le sue considerazioni erano legate alla condizione ebraica, mentre la diaspora, come condizione, va ben al di là, ed è vissuta da un numero crescente di popoli. Pensa che la condizione diasporica diventerà la condizione etica normale in un mondo globale futuro in cui non ci saranno più <patrie> in cui tornare e in cui la sola speranza etica sarà quella di rispettare e farsi rispettare?

Non penso che arriveremo mai a un mondo futuro in cui tutti si sentono dei senza patria. Non è l’utopia a cui il mio punto di vista tende e non me lo auguro nemmeno. Benché sia importante capire il punto di vista di chi vive la diaspora, non è necessario condividere tutti la stessa condizione. Però non possiamo nemmeno escludere che in un futuro la condizione diasporica si applichi a popolazioni sempre più grandi. Dopotutto l’esilio e l’espropriazione possono essere imposti con la forza.

Come vede questo atteggiamento in Europa, un continente dove i partiti nazionalisti sembrano avere sempre più consenso? La sua concezione dell’etica ebraica può servire a trovare un nuovo fondamento morale della <condizione europea>?

Il Vecchio Continente sta effettivamente moltiplicando i nazionalismi e i partiti xenofobi e razzisti. Sia il partito neonazista greco Alba dorata che il partito nazionalista tedesco abbracciano posizioni esplicitamente razziste e antisemite. E sono tollerati e a volte fanno parte di governi democraticamente eletti. Nella mia prospettiva, è meglio lottare contro l’antisemitismo all’interno di una battaglia più ampia contro ogni tipo di razzismo, incluso il razzismo di Stato, ossia quello che esercita Israele. Sarebbe un modo di non difendere in maniera restrittiva un’etica ebraica, ma di affermare un’idea di alleanza che è basata sull’intuizione profonda secondo la quale chi siamo e saremo dipende da come coabiteremo su questa terra con gli altri.

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