http://www.huffingtonpost.it
13/09/2014

Quei cessate il fuoco incessantemente violati. Come andrà a finire per Israele, Hamas e Gaza?
di Noam Chomsky
Traduzione di Stefano Pitrelli

Il 26 agosto Israele e l'Autorità Palestinese (AP) hanno entrambi accettato un accordo per il cessate il fuoco dopo un assalto israeliano a Gaza durato 50 giorni, che ha seminato 2100 morti palestinesi, lasciandosi alle spalle un panorama di devastazione. L'accordo richiede l'interruzione delle azioni militari sia da parte di Israele che di Hamas, insieme all'allentamento dell'assedio col quale Israele strangola Gaza ormai da parecchi anni.

E tuttavia si tratta solo dell'ultimo di una serie di cessate il fuoco raggiunti in seguito alle periodiche escalation nell'incessante aggressione israeliana a Gaza. I termini di accordi come questo restano sempre, essenzialmente, i medesimi. In un secondo momento, lo schema di comportamento seguito di norma da Israele è quello d'ignorare qualsiasi accordo in vigore, mentre Hamas lo rispetta -- come del resto Israele ha ufficialmente riconosciuto -- fino al momento in cui un'impennata nella violenza da parte di Israele finisce per stimolare una risposta da parte di Hamas, seguita da un ulteriore crescendo di brutalità. Escalation come queste -- che in poche parole equivalgono a sparare ai pesci in un barile -- nel gergo israeliano vengono normalmente definite "tosatura del prato". A dire il vero la più recente è stata meglio descritta da un alto ufficiale dell'esercito statunitense -- disgustato dalle pratiche adottate dal sedicente "esercito più morale del mondo" -- come "rimozione del soprassuolo".

Primo della serie è stato l'Accordo sul Movimento e l'Accesso fra Israele e l'Autorità Palestinese, siglato nel novembre 2005. Che richiedeva "l'attraversamento del confine fra Gaza e l'Egitto a Rafah, per l'esportazione di merci e il passaggio di persone, continue operazioni d'attraversamento fra Israele e Gaza per import/export e passaggio di persone, riduzione degli ostacoli alla mobilità in Cisgiordania, la creazione di linee di autobus e di trasporto merci fra Cisgiordania e Gaza, la costruzione di un porto marittimo a Gaza [e la] riapertura dell'aeroporto di Gaza" che i bombardamenti israeliani avevano demolito.

Quell'accordo fu raggiunto poco dopo il ritiro da Gaza dei coloni e dei soldati israeliani. Il movente del disimpegno fu chiarito da Dov Weissglass, consigliere dell'allora Primo Ministro Ariel Sharon, che all'epoca aveva ricevuto l'incarico di lavorare al negoziato, e di implementarlo. "Il significato del piano di disimpegno sta nel congelamento del processo di pace", chiarì lo stesso Weissglass di fronte alla stampa israeliana. "E congelare quel processo significa prevenire la nascita di uno stato palestinese, e prevenire un dibattito sui rifugiati, sui confini, e su Gerusalemme. A tutti gli effetti, l'intero pacchetto chiamato stato palestinese, con tutto ciò che ne consegue, è stato rimosso a tempo indeterminato dalla nostra agenda. E tutto ciò è stato fatto con tutta l'autorità e tutti i permessi. Con la benedizione presidenziale [statunitense] e la ratifica da parte di entrambi i rami del Congresso". Assolutamente vero.

"Il disimpegno in realtà è formaldeide", aggiunse Weissglass. "Ci garantisce la quantità di formaldeide necessaria affinché non si avvii alcun processo politico coi palestinesi". Gli stessi falchi israeliani riconoscevano il fatto che invece di continuare a investire ingenti risorse nel mantenimento di poche migliaia di coloni in comunità all'interno di un territorio devastato come quello di Gaza, avrebbe avuto più senso trasferirli in altre comunità illegali sovvenzionate presenti in altre zone della Cisgiordania, alle quali invece Israele non aveva alcuna intenzione di rinunciare.

Il disimpegno fu presentato come uno sforzo nobile in cerca della pace, ma la verità era sostanzialmente diversa. Israele non ha mai allentato il proprio controllo su Gaza, ed è perciò riconosciuta come forza occupante dalle Nazioni Unite, dagli USA e da altri stati (a parte Israele, ovviamente). Nella loro esauriente analisi storica degli insediamenti israeliani nei territori occupati, gli studiosi israeliani Idith Zertal e Akiva Eldar descrivono ciò che successe davvero durante il disimpegno: il territorio ridotto in macerie non fu liberato "neanche per un solo giorno dalla stretta militare israeliana, né gli abitanti sollevati dal prezzo che pagano ogni giorno per l'occupazione". Dopo il disimpegno "Israele si lasciò dietro terra bruciata, servizi devastati, e gente senza un presente o un futuro. Gli insediamenti erano stati ingenerosamente distrutti da una forza d'occupazione tutt'altro che illuminata, che anzi continua a controllare il territorio, uccidendo e tormentando i suoi abitanti grazie alla propria formidabile potenza militare".

Le operazioni Piombo Fuso e Pilastro di Difesa

La scusa per violare pesantemente quell'accordo di novembre, Israele la ottenne presto. Nel gennaio 2006 i palestinesi commisero un grave crimine. Votarono "nel modo sbagliato" alle loro libere -- e attentamente monitorate -- elezioni, mettendo il parlamento nelle mani di Hamas. Israele e gli Stati Uniti imposero immediatamente durissime sanzioni, mostrando molto chiaramente al mondo che cosa intendevano quando si parlava di "promuovere la democrazia". E l'Europa, per sua vergogna, si accodò.

Gli Stati Uniti e Israele iniziarono presto a preparare un colpo di stato militare per abbattere l'inaccettabile governo eletto, secondo una formula ormai familiare. Quando Hamas riuscì a prevenire il golpe nel 2007, l'assedio di Gaza si fece più intenso, così come la routine delle aggressioni militari israeliane. L'aver votato in maniera sbagliata durante libere elezioni era già abbastanza grave, ma l'aver impedito un colpo di stato militare concepito dagli Stati Uniti si dimostrò un'offesa imperdonabile.

Nel giugno del 2008 si raggiunse un nuovo accordo per il cessate il fuoco. Che ancora una volta prevedeva l'autorizzazione agli attraversamenti del confine allo scopo di "permettere il trasferimento di tutte quelle merci il cui accesso a Gaza era stato bandito o ristretto". Israele acconsentì formalmente, ma annunciò subito dopo che non avrebbe rispettato l'accordo aprendo i confini finché non fosse stato liberato Gilad Shalit, un soldato israeliano catturato da Hamas.

Anche Israele ha una lunga storia di rapimenti di civili, in Libano e in mare, che poi tiene prigionieri per lunghi periodi senza capi d'accusa credibili, a volte come veri e propri ostaggi. Naturalmente, l'imprigionamento di civili con capi d'accusa di dubbia credibilità, o anche senza, è una pratica comune nei territori controllati da Israele. Ma la distinzione occidentale standard fra persone e "nonpersone" (secondo la comoda definizione orwelliana) rende tutto ciò insignificante.

Israele non solo mantenne l'assedio, violando l'accordo per il cessate il fuoco del giugno 2008, ma lo fece con estrema durezza, spingendosi fino a impedire all'Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l'Occupazione (UNRWA) -- che si prende cura dell'enorme numero di rifugiati ufficiali di Gaza -- il rifornimento delle proprie scorte.

Il 4 novembre, mentre i mezzi d'informazione si concentravano sulle elezioni presidenziali americane, i soldati israeliani entrarono a Gaza, uccidendo mezza dozzina di miliziani di Hamas. Cosa che stimolò come risposta da parte di Hamas il lancio di missili e uno scontro a fuoco (i morti furono tutti palestinesi). Alla fine di dicembre, Hamas propose il rinnovo del cessate il fuoco. Israele prese in considerazione l'offerta, ma poi la rifiutò, preferendole il lancio dell'Operazione Piombo Fuso: un'incursione della durata di tre settimane con tutta la potenza dell'esercito Israeliano riversata nella Striscia di Gaza, che si concretizzò in una serie di scioccanti atrocità ben documentate dalle organizzazioni per i diritti umani, internazionali e israeliane.

L'8 gennaio 2009, mentre Piombo Fuso infuriava, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite approvò all'unanimità una risoluzione (con l'astensione degli Stati Uniti) chiedendo un "immediato cessate il fuoco, seguito dal pieno ritiro israeliano, dal libero afflusso delle scorte di cibo, carburante e medicine a Gaza, e dall'intensificarsi delle intese internazionali per prevenire il contrabbando di armi e munizioni".

Si raggiunse un nuovo accordo per il cessate il fuoco, le cui condizioni tuttavia -- così come nei casi precedenti -- non furono mai rispettate, e s'infransero del tutto in occasione del nuovo pesante episodio di tosatura del prato nel novembre 2012, con l'Operazione Pilastro di Difesa. Ciò che accadde nel frattempo può essere ben illustrato dai dati sulle vittime dal gennaio 2012 al lancio dell'operazione: un israeliano ucciso dal fuoco proveniente da Gaza, e dall'altra parte 78 palestinesi uccisi dal fuoco israeliano.

Il primo atto dell'Operazione Pilastro di Difesa fu l'omicidio di Ahmed Jabari, alto esponente dell'ala militare di Hamas. Aluf Benn, direttore del principale quotidiano israeliano, Haaretz, descrisse Jabari come un "subappaltatore" di Israele a Gaza, che per più di cinque anni aveva contribuito a mantenere una quiete relativa all'interno della zona. Come sempre non mancò il pretesto per l'assassinio, ma la ragione più probabile fu offerta dal pacifista israeliano Gershon Baskin. Coinvolto direttamente per anni nei negoziati con Jabari, egli sostenne che, poche ore prima di essere assassinato, Jabari "ricevette la bozza di un accordo per una tregua permanente con Israele, che avrebbe incluso dei meccanismi per il mantenimento del cessate il fuoco nel caso di un riaccendersi del conflitto fra Israele e le fazioni della Striscia di Gaza".

Esiste una lunga tradizione di azioni progettate da Israele per impedire la minaccia di un accordo diplomatico. Dopo questo ennesimo esercizio di tosatura del prato, fu raggiunto ancora un altro accordo per il cessate il fuoco. Secondo condizioni ormai standardizzate, esso richiedeva l'interruzione delle azioni militari di tutte le parti in conflitto, nonché la fine dell'assedio di Gaza, con "l'apertura da parte di Israele del confine, e la facilitazione degli spostamenti delle persone e del trasporto delle merci, l'interruzione delle limitazioni alla libertà di movimento dei suoi abitanti, e dell'abitudine di prendere di mira gli abitanti delle aree di confine".

Ciò che accadde in seguito fu analizzato da Nathan Thrall, senior analyst del Medio Oriente all'International Crisis Group. L'intelligence israeliana riconosceva che Hamas stava rispettando le condizioni del cessate il fuoco. "Israele -- scrive Thrall -- non vedeva quindi alcun incentivo nel rispettare la propria parte dell'accordo. Nei tre mesi successivi al cessate il fuoco, le sue forze compirono incursioni regolari a Gaza, sparando contro gli agricoltori palestinesi, e contro la gente che cercava di recuperare qualcosa dai rifiuti e dalle rovine lungo il confine, e apriva il fuoco contro le imbarcazioni, impedendo quindi ai pescatori di accedere alla maggior parte delle acque di Gaza". In altre parole, l'assedio non si era mai concluso. "Gli attraversamenti del confine furono ripetutamente impediti. Furono ristabilite le cosiddette zone cuscinetto all'interno di Gaza [aree proibite ai palestinesi, che includono un terzo o più delle poche terre coltivabili della Striscia]. Le importazioni furono ridotte, e le esportazioni bloccate, mentre sempre meno abitanti di Gaza ricevevano i permessi d'uscita per Israele e Cisgiordania".

Operazione Margine Protettivo

Le cose sono andate avanti più o meno così fino all'aprile del 2014, quando è successo qualcosa d'importante. Le due principali formazioni politiche palestinesi -- Hamas, con la sua base politica a Gaza, e l'Autorità Palestinese in Cisgiordania, dominata da Fatah -- hanno firmato un'accordo unitario. Hamas ha fatto concessioni importanti. Il governo d'unità non avrebbe ospitato nessuno dei suoi membri o alleati. In sostanza, come osserva Nathan Thrall, Hamas ha affidato il governo di Gaza all'AP. Migliaia di uomini delle forze di sicurezza dell'AP vi sono stati inviati, e l'AP ha disposto le proprie guardie lungo i confini e alle frontiere, senza alcuna posizione di reciprocità per Hamas nell'apparato di sicurezza della Cisgiordania. Infine, il governo di unità ha accettato le tre condizioni a lungo richieste da Washington e dall'Unione Europea: la non-violenza, il rispetto degli accordi passati, e il riconoscimento di Israele.

Questo ha scatenato la furia d'Israele. Il suo governo ha dichiarato d'un tratto che avrebbe rifiutato ogni accordo col governo d'unità, cancellando i negoziati. Una furia accresciuta quando gli Stati Uniti, insieme alla maggior parte del resto del mondo, hanno manifestato il loro sostegno al governo d'unità.

Ci sono delle buone ragioni per cui Israele si oppone all'unificazione dei palestinesi. Innanzitutto il conflitto Hamas-Fatah ha fornito un utile pretesto per rifiutare d'impegnarsi in negoziati seri. Del resto come si può trattare con un'entità divisa? E, cosa ancor più significativa, per più di vent'anni Israele si è impegnato a separare Gaza dalla Cisgiordania, in violazione degli Accordi di Oslo siglati nel 1993, che dichiarano Gaza e la Cisgiordania un'unità territoriale inseparabile.

Uno sguardo alla mappa ne spiega bene il movente. Separata da Gaza, qualsiasi enclave cisgiordana lasciata ai palestinesi non avrà accesso al mondo esterno. Si ritrovano schiacciati fra due potenze ostili, Israele e la Giordania, entrambi stretti alleati degli USA -- e per sfatare qualsiasi illusione in proposito, gli Stati Uniti sono molto lontani dall'essere un "mediatore onesto" e neutrale.

Inoltre Israele sta sistematicamente prendendo possesso della Valle del Giordano, scacciando i palestinesi, stabilendo insediamenti, costruendo pozzi, insomma facendo tutto il necessario per assicurarsi che la regione -- circa un terzo della Cisgiordania, con gran parte delle sue terre coltivabili -- finisca per essere assorbita da Israele insieme alle altre regioni di cui il Paese si sta impossessando. Ecco perché i rimanenti cantoni palestinesi finiranno completamente imprigionati. La loro unificazione con Gaza interferirebbe con questi piani, che risalgono agli albori dell'occupazione, e hanno stabilmente goduto dell'appoggio delle principali formazioni politiche, incluse figure solitamente raffigurate come "colombe" del calibro dell'ex presidente Shimon Peres, uno degli architetti degli insediamenti nel profondo della Cisgiordania.

Al solito, ci voleva un pretesto per passare all'escalation successiva. L'occasione si è presentata quando tre ragazzi israeliani provenienti da una comunità di coloni in Cisgiordania sono stati brutalmente assassinati. Il governo israeliano ha evidentemente capito molto in fretta che erano morti, ma ha fatto finta di non rendersene conto, offrendo l'occasione per l'avvio di una "operazione di salvataggio" -- cioè in realtà un assalto che aveva come obiettivo principale Hamas. Il governo Netanyahu ha sostenuto fin dal principio la responsabilità di Hamas, ma non ha mai fatto alcuno sforzo per mostrarne delle prove.

Una delle voci più autorevoli in Israele su Hamas, Shlomi Eldar, ha sostenuto quasi fin da subito che gli assassini provenivano probabilmente da un clan dissidente di Hebron che da tempo rappresenta una spina nel fianco della leadership di Hamas. E ha poi aggiunto: "Sono sicuro che non abbiano mai ricevuto alcun via libera da parte della leadership di Hamas, ma che semplicemente pensassero che era il momento giusto per agire".

La polizia israeliana da allora sta cercando di arrestare i membri del clan, continuando a sostenere, senza prove, che si tratti di "terroristi di Hamas". Il 2 settembre Haaretz ha riferito che, dopo approfonditi interrogatori, i servizi di sicurezza israeliani avrebbero concluso che il rapimento degli adolescenti "è stato portato avanti da una cellula indipendente" senza legami noti diretti con Hamas.

L'assalto durato 18 giorni delle Forze di Difesa israeliane è riuscito a minare alle fondamenta il temuto governo d'unità. Stando a fonti militari israeliane, i loro soldati hanno arrestato 419 palestinesi, inclusi 335 affiliati ad Hamas, uccidendone sei, perquisendo migliaia di luoghi e confiscando 350 mila dollari. Israele ha inoltre condotto dozzine di attacchi a Gaza, uccidendo il 7 luglio cinque membri di Hamas.

E Hamas alla fine ha reagito, lanciando i suoi primi razzi dopo 18 mesi -- sostengono fonti israeliane -- e regalando così a Israele il pretesto per avviare l'Operazione Margine Protettivo, l'8 luglio. L'assalto, durato 50 giorni, si è dimostrato la più estrema fra le tosature del prato. Finora.

Operazione [Ancora Senza Nome]

Israele si trova oggi in un'ottima posizione per invertire la sua politica vecchia di decenni di separazione di Gaza dalla Cisgiordania, in violazione dei suoi solenni impegni, e rispettando per la prima volta un importante accordo per il cessate il fuoco. La minaccia democratica del vicino Egitto, almeno per il momento, si è ridotta, e la brutale dittatura militare egiziana del Generale Abdul Fattah al-Sisi per Israele rappresenta un comodo alleato nell'esercizio del controllo su Gaza.

Il governo d'unità palestinese, come osservato precedentemente, sta ponendo le forze dell'AP -- addestrate dagli americani -- a guardia dei confini di Gaza, e la governance potrebbe passare nelle mani dell'Autorità Palestinese, che dipende da Israele per la sua sopravvivenza, e per le sue finanze. Israele potrebbe infine rendersi conto che la sua occupazione del territorio palestinese in Cisgiordania è andata così tanto avanti che ormai c'è poco da temere da una qualche limitata forma d'autonomia alle enclave che restano in mano ai palestinesi.

C'è del vero nelle osservazioni del Primo Ministro Benjamin Netanyahu: "Molti attori all'interno della regione oggi capiscono che, nella lotta che li minaccia, Israele non è un nemico ma un partner". Akiva Eldar, il principale corrispondente israeliano sulle questioni diplomatiche, aggiunge tuttavia che: "Tutti gli 'attori nella regione' capiscono pure che non esiste alcun coraggioso e completo passo avanti diplomatico all'orizzonte che non passi da un accordo per la fondazione di uno stato palestinese basato sui confini del 1967, e da una soluzione equa e concordata al problema dei rifugiati". Ma tutto ciò, come osserva, non è nell'agenda di Israele, ed è anzi in diretto conflitto col programma elettorale formulato nel 1999 dall'attuale coalizione di governo del Likud, mai rinnegato, che "rifiuta nettamente la nascita di uno stato arabo palestinese a ovest del fiume Giordano".

Alcuni commentatori israeliani ben informati, e in particolare l'editorialista Danny Rubinstein, ritengono che Israele si stia preparando a invertire la rotta, allentando la sua presa su Gaza.

Vedremo.

L'esperienza degli ultimi anni sembra prospettarci esiti diversi, e i primissimi segnali non sono certo di buon auspicio. Con la fine dell'Operazione Margine Protettivo, Israele ha annunciato la più vasta appropriazione di terra in Cisgiordania da trent'anni a questa parte, quasi mille acri. La radio israeliana sostiene che l'occupazione è in risposta all'omicidio dei tre adolescenti ebrei da parte di "miliziani di Hamas". Come rappresaglia per l'omicidio, un ragazzino palestinese è stato bruciato vivo, ma nessun terreno israeliano è stato consegnato ai palestinesi, né alcuna reazione c'è stata quando un soldato israeliano ha ucciso Khalil Anati, dieci anni, lungo una silenziosa stradina del campo per rifugiati vicino Hebron, il 10 agosto -- cioè mentre l'esercito più morale del mondo stava facendo a pezzi Gaza -- per poi andarsene via a bordo della propria jeep mentre il bambino moriva dissanguato.

Anati era uno dei ventitré palestinesi (inclusi tre bambini) uccisi dalle forze d'occupazione israeliane in Cisgiordania mentre l'offensiva di Gaza era in corso -- stando alle statistiche compilate dall'ONU -- insieme a più di duemila feriti, il 38 per cento dei quali da colpi di arma da fuoco. "Nessuno di coloro che sono rimasti uccisi stava mettendo a rischio le vite dei soldati", ha scritto il giornalista israeliano Gideon Levy. Non c'è stata alcuna reazione di fronte a nessuna [di queste morti], così come non ce ne sono state quando Israele ha ucciso, in media, più di due bambini palestinesi ogni settimana nel corso degli ultimi quattordici anni. Nonpersone, per l'appunto.

Ormai da ogni parte si tende a sostenere che, se l'accordo per i due stati è ormai morto in seguito all'occupazione delle terre palestinesi, l'esito finale sarà quello di uno Stato a ovest del Giordano. Fra i palestinesi c'è chi accoglie questa possibilità, in vista di una campagna per i diritti civili sul modello di quella contro l'apartheid in Sud Africa. Molti opinionisti israeliani avvisano che il rischio di un "problema demografico" -- rappresentato dal superiore numero di nascite fra gli arabi rispetto agli ebrei, e dalla diminuzione dell'immigrazione degli ebrei -- finirà per minare alle fondamenta la loro speranza in uno "stato ebraico democratico".

Ma questa diffusa convinzione è quanto meno dubbia.

L'alternativa realistica all'accordo per due stati è che Israele continui a portare avanti i piani che ha seguito per anni, appropriandosi di ciò che è di valore in Cisgiordania, evitando concentrazioni di popolazione palestinese, e rimuovendo i palestinesi dalle aree che integra in Israele. E questo dovrebbe impedire il realizzarsi del temuto "problema demografico".

Le aree che vengono integrate in Israele includono un'ampliata Grande Gerusalemme, l'area perimetrale interna all'illegale "muro di separazione", i corridoi ad est, e finirà probabilmente con l'includere anche la Valle del Giordano. Gaza resterà probabilmente sotto il solito durissimo assedio, separata dalla Cisgiordania. E le Alture del Golan Siriano -- come Gerusalemme, annesse in violazione degli ordini del Consiglio di Sicurezza -- entreranno silenziosamente a far parte della Grande Israele. Nel frattempo, i palestinesi della Cisgiordania verranno confinati all'interno di cantoni invivibili, con sistemazioni speciali per le élite, secondo gli standard dello stile neocoloniale.

Queste linee guida vengono ormai seguite sin dalla conquista del 1967, secondo il principio espresso dall'allora ministro della Difesa Moshe Dayan, uno dei leader israeliani più comprensivi nei confronti dei palestinesi. Fu lui a spiegare ai colleghi di gabinetto che avrebbero dovuto informare i rifugiati palestinesi in Cisgiordania del fatto che: "Non abbiamo alcuna soluzione, continuerete a vivere come cani, e chiunque desideri potrà andarsene, e vedremo dove ci conduce questa strada".

Il suggerimento era perfettamente coerente all'interno di quanto elaborato nel 1972 dal futuro presidente Haim Herzog: "Non nego ai palestinesi un luogo, una posizione o un'opinione su ciascuna questione... Ma certo non sono preparato a prenderli in considerazione come partner da alcun punto di vista all'interno di una terra che è stata consacrata fra le mani della nostra nazione per migliaia di anni. Per gli ebrei di queste terre non ci possono essere partner". Dayan chiedeva anche l'imposizione della "regola permanente" di Israele ("memshelet keva") sui territori occupati. Quando Netanyahu prende la medesima posizione oggi, non è certo un pioniere.

Al pari degli altri stati, Israele usa la "sicurezza" come giustificazione per le proprie azioni violente e aggressive. Ma gli israeliani informati sanno bene come stanno veramente le cose. La loro comprensione della realtà è stata espressa chiaramente nel 1972 dall'allora Comandante dell'Aeronautica (in seguito presidente) Ezer Weizmann. Fu lui a spiegare che non ci sarebbe alcun problema di sicurezza, se Israele accettasse la richiesta internazionale di ritirarsi dai territori conquistati nel 1967, ma in quel caso il paese non sarebbe più in grado di "esistere con quelle proporzioni, con quello spirito e con quelle qualità che adesso incarna".

Per un secolo la colonizzazione sionista della Palestina è andata avanti innanzitutto in base al principio pragmatico di un'azione silenziosa sul campo, che poi il mondo deve abituarsi ad accettare. Una politica di grande successo. Non c'è motivo di aspettarsi che non prosegua fin quando gli Stati Uniti continueranno ad offrire il loro necessario sostegno militare, economico, diplomatico ed ideologico. Per quelli che si preoccupano per i diritti della brutalizzata popolazione palestinese, non può esserci altra priorità che lavorare per cambiare la politica degli Stati uniti, cosa certo non impossibile.


***

Noam Chomsky è Institute Professor emeritus al Dipartimento di Linguistica e Filosofia del Massachusetts Institute of Technology. Fra i suoi libri più recenti Hegemony or Survival, Failed States, Power Systems, Occupy, e Hopes and Prospects. Il suo ultimo saggio, Masters of Mankind, è pubblicato da Harmarket Books, che l'anno prossimo ripubblicherà anche dodici dei suoi testi classici in nuove edizioni. I suoi lavori vengono regolarmente pubblicati su TomDispatch.com. Il suo sito web è www.chomsky.info.

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