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Rioccupare Gaza non è la soluzione. «Netanyahu dovrebbe trattare con Hamas per creare uno stato demilitarizzato nella Striscia»
Sergio Della Pergola, demografo israeliano di origine italiana che insegna alla Hebrew University di Gerusalemme, è stato uno dei consiglieri strategici del premier israeliano Ariel Sharon durante il ritiro da Gaza nel 2005. Lo sentiamo qualche ora prima che il governo di Benjamin Netanyahu invii truppe di terra dentro la Striscia. Un’operazione definita «incursione di terra», non «invasione». In altre parole, Israele non intendo tornare a occupare militarmente Gaza. «Nel 2005 spiega Della Pergola si respirava un clima di grande speranza. Per Israele lo sgomberò di ottomila ebrei non fu un’operazione tattica, ma una scelta pragmatica con risvolti traumatici». È ancora convinto della bontà di quella scelta? Sharon aveva capito che Israele doveva diventare lo stato di riferimento del popolo ebraico. E se vuoi avere un’identità ebraica, non puoi dominare un altro popolo. Questo ragionamento ci riporta a una ben nota equazione secondo la quale Israele può essere uno stato ebraico, democratico o territoriale. Di questi tre parametri se ne possono avere contemporaneamente solo due, mai tutti e tre insieme. Israele può essere ebraico e territoriale, ma non sarebbe democratico perché ci sarebbe una parte araba che non potrebbe identificarsi con esso. Può essere democratico e territoriale, ma non ebraico perché i calcoli demografici rilevano che la componente araba-mussulmana è destinata a diventare maggioranza. Infine, può essere uno stato ebraico e democratico, ma solo rinunciando a una parte del territorio. Torniamo per un momento a Gaza. Secondo lei Israele si è ritirato preoccupandosi di ciò che sarebbe successo in seguito? Fino all’ultimo Abu Mazen chiese agli israeliani di non lasciare Gaza. A lui conveniva che Israele mantenesse l’ordine per mantenere saldi gli interessi di al Fatah e dell’Olp. Quanto ad Hamas, Israele avrebbe anche consegnato le chiavi di quelle abitazioni ai palestinesi ma nessuno manifestò il minimo interesse. Ma Israele cosa si aspettava di ottenere ritirandosi da Gaza? Gli israeliani si auguravano che si sarebbe formata una società civile e che con gli aiuti internazionali pian piano si sarebbero realizzate scuole, ospedali e strade. Nel gennaio 2006 Hamas vinse nettamente e senza brogli le elezioni palestinesi perché promise la moralizzazione della vita pubblica e la ricomposizione di una società disastrata. Ma dopo le elezioni cambiò maschera, da partito sociale si tramutò in partito fondamentalista, sostenuto dall’Iran e dal Qatar, dedito più che altro al lancio di razzi contro Israele. Israele risponde con i raid che lasciano sul terreno morti e distruzioni. L’invasione di terra può aumentare ancora il numero delle vittime. L’invasione di terra può avere dei decisivi vantaggi. A Gaza ci sono degli enormi depositi sotterranei di armi che vengono astutamente e perfidamente costruiti sotto ospedali e abitazioni civili. L’unico modo per neutralizzare questo problema è andarci fisicamente e distruggerli. In teoria Israele potrebbe semplicemente staccare la corrente elettrica, che ricordo viene fornita dagli israeliani, ma si creerebbe una crisi umanitaria. Il pubblico vede solo le bombe, ma non sa che il carburante a Gaza arriva da Israele, così come le materie prime. Israele fa passare gli aiuti mentre il confine con l’Egitto spesso e volentieri resta chiuso. L’attenzione capirà è catalizzata dall’evidente sproporzione nel numero delle vittime. Senza il sistema antimissile Iron Dome avremo centinaia di morti anche in Israele. Ma quali sono gli obiettivi di Netanyahu? Quale è l’obiettivo di Renzi? Che c’entra il nostro primo ministro? Renzi vuole avvicinarsi a Grillo per fare qualche riforma o cercare l’appoggio di Berlusconi per realizzare un altro progetto politico. Sono domande che in Italia ci si pone. E la stessa cosa vale per Israele dove, come in Italia, il panorama politico è ampissimo. In altre parole, Netanyahu, come Renzi, vive i dilemmi di un uomo politico chiamato a cercare compromessi per mantenere la compagine governativa omogenea. Il primo obiettivo è quello di non far cadere il governo. Netanyahu è chiamato a cercare un compromesso con i palestinesi. Ma con il governo di unità nazionale palestinese ha deciso di non negoziare. Che si fa? Ma è un governo che non ha senso. E tra l’altro non esiste più. Ma il partner con cui negoziare non si sceglie. Altrimenti che conflitto sarebbe. Credo che con coraggio dobbiamo guardare a nuove soluzioni. Esistono due entità palestinesi: a Gaza il potere è legittimamente nelle mani di Hamas, mentre la Cisgiordania è illegittimamente governata da Abu Mazen, il cui mandato è scaduto due anni fa. Ma, nonostante ciò, nessuno lo mette in discussione. Israele deve, dunque, siglare due paci separate con due entità politiche differenti. A Gaza, in teoria, la soluzione sarebbe più facile: trattare con Hamas, solo dopo che questo movimento abbia riconosciuto il diritto all’esistenza dello stato ebraico, per arrivare alla costituzione di uno stato demilitarizzato a Gaza. In Cisgiordania la situazione è più difficile perché lì vivono 350 mila israeliani vicino a 2,3 milioni di palestinesi. In questo caso si tratta di prendere una matita e delle carte geografiche e tracciare nuove frontiere. La soluzione è arrivare a un equo scambio di territori che consenta a Israele di mantenere gli insediamenti urbani principali. I confini del 1967 non sono sacri. È un sostenitore della formula “due popoli, tre stati”? Certamente. Sono ormai evidenti le differenze economiche e storiche tra i palestinesi di Gaza e quelli della West Bank. Non vede il rischio della nascita di uno stato islamico e fondamentalista a Gaza? Ma di fatto c’è già. A Gaza non c’è solo Hamas, diviso tra un’ala estremista e un’altra ancora più estremista, ma anche il Jihad islamico e gruppi legati ad Al Qaeda.
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