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Bombe all’università, la rivolta degli studenti in Egitto
Scontri giornalieri nel campus del Cairo, oggi tre ordigni artigianali hanno ucciso un poliziotto. Il circolo vizioso tra violenze e repressione dei militari
Tre bombe sono scoppiate questa mattina al Cairo, uccidendo un ufficiale di polizia e ferendo altre sette persone. Gli ordigni, artigianali e rudimentali secondo il ministero dell’interno, erano nascosti vicino alle forze anti-sommossa della polizia che pattugliavano l’Università del Cairo. Nonostante la repressione del dissenso politico, gli arresti di attivisti e le misure di sicurezza straordinaria, o forse proprio per questo, le violenze in Egitto non si fermano. Gli attentati nella capitale rimangono ancora abbastanza rari, ma nelle ultime due settimane due studenti sono stati uccisi dalla polizia negli scontri giornalieri all’interno dei campus universitari del Cairo. Le esplosioni, vanno quindi inserite nel contesto delle proteste studentesche che sono riprese, con l’inizio del nuovo semestre, dopo aver già infiammato la capitale da novembre fino alla fine di gennaio. Il movimento “Studenti contro il golpe”, che racchiude per lo più simpatizzanti dell’ex presidente Morsi e organizza la maggior parte delle proteste, ha subito negato qualsiasi responsabilità negli attacchi di oggi. Le università sono l’ultimo terreno di scontro rimasto tra sostenitori e oppositori dei Fratelli Musulmani, visto che i carri armati agli angoli delle strade impediscono di organizzare marce e manifestazioni. Neanche la presenza delle forze di sicurezza nei campus, però, riesce a placare la protesta. Anzi, negli ultimi mesi l’ha allargata a studenti tutt’altro che simpatetici verso l’ex presidente Morsi, ma che denunciano il nuovo regime, accusando i militari di aver sabotato la “rivoluzione” del 30 giugno.
Le università sono da sempre l’incubatore politico del paese, insieme ai movimenti dei lavoratori. Mentre il generale Abdel Fattah al Sisi inizia la propria campagna elettorale e promette di restaurare ordine, sicurezza e disciplina, non è un caso che divampino un po’ ovunque proteste studentesche e scioperi. Per ora i metodi repressivi messi in campo dal governo e la propaganda di media di stato e privati sono riusciti ad isolare e quasi a nascondere le proteste, evitando che si allargassero a macchia d’olio. Ma l’uso delle armi da fuoco contro manifestanti disarmati, le detenzioni amministrative senza prove e le torture possono aiutare a controllare la situazione, certo non a risolverla. Specialmente, se una volta eletto Sisi dovesse continuare ad usare il bastone senza la carota e senza trovare una soluzione alla grave crisi economica e non fosse intenzionato come pare a creare un governo inclusivo che rilanci il dialogo politico nazionale. Morsi, d’altronde, venne accusato proprio di aver fallito su questi punti e dovette far fronte all’emergere dei “black block” egiziani. Gruppi radicali nati da costole degli Ultras e altri movimenti di protesta, seppur con la complicità e il supporto di ambienti vicini al ministero dell’interno e all’intelligence. Inevitabilmente, la repressione spinge una minoranza degli oppositori ad essere sempre più attratti dalle soluzioni radicali. Ansar Beit al Maqdis, principale gruppo jihadista nel paese, è alle prese con una dura offensiva militare in Nord Sinai e non ha, per il momento, commesso altri attacchi al di fuori della penisola sul Mar Rosso. Durante il picco dell’inverno caldo studentesco, però, aveva più volte invitato gli studenti a unirsi ai propri ranghi, abbandonando le inefficaci proteste non pacifiche per imbracciare la lotta armata. Gli ordigni esplosi all’Università del Cairo sembrerebbero troppo artigianali e completamente scollegati dal gruppo jihadista, ma restano un campanello d’allarme importante. Sisi potrà sentirsi un po’ più vicino alla presidenza dopo ogni attacco, ma una volta al potere potrebbe trovarsi a governare un paese ancor più disastrato e indomabile.
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