Al-Quds al-Arabi La condanna a morte di un popolo e il furto del sogno rivoluzionario Destano grande preoccupazione, sul piano giuridico e politico, i tragici sviluppi che l’Egitto sta vivendo all’indomani del golpe militare contro la rivoluzione del 25 gennaio 2011. Del resto, la scioccante sentenza con cui la Corte penale di Minya ha recentemente condannato a morte 529 imputati, in una seduta sommaria e a porte chiuse, non è altro che l’incipit di una nuova fase nella serie di attentati alla gloriosa rivoluzione egiziana. Ci sono chiari moventi politici dietro alla sfilza di arresti, condanne e detenzioni di cui l’Egitto è stato testimone sin dal golpe. A ciò si aggiungono gravi violazioni dei diritti umani, quali: l’uccisione di centinaia di manifestanti durante lo sgombero dei sit-in di Rabia al-Adawiya e al-Nahda, oltre agli arresti sommari e alla tortura di centinaia di detenuti; il divieto di manifestare; la chiusura di canali mediatici contrari al golpe; la limitazione della libertà di stampa; l’arresto e la persecuzione di numerosi giornalisti. Molti Paesi occidentali hanno espresso preoccupazione per questa pericolosa escalation, che i golpisti egiziani continuano tuttavia a ignorare, convinti di vivere ancora ai tempi del fascismo e dell’apartheid. La verità è che le menti del golpe del 3 luglio non si aspettavano le reazioni della piazza, sicuri che avrebbero deciso le sorti della battaglia imponendovi la politica del fatto compiuto. Le reazioni a sostegno della legittimità costituzionale, invece, hanno superato ogni previsione e sono riuscite a comunicare al mondo l’immagine di un’enorme fetta del popolo egiziano che rifiuta l’intervento dell’esercito in politica e si oppone al golpe contro un presidente legittimamente eletto. Tale immagine ha spinto i golpisti a tentare di indurre i manifestanti alla violenza, così da potersi giocare la carta della lotta al terrorismo. È proprio questo il banco di prova delle forze rivoluzionarie, padrone di un’arma ben più forte dei proiettili: l’opzione pacifica. Un loro ricorso alla violenza si rivelerebbe, infatti, fallimentare poiché le priverebbe della popolarità di cui godono nonché della possibilità di appellarsi alle norme internazionali in materia di democrazia e diritti umani; al contempo, fornirebbe ai golpisti il pretesto per ritrarre il proprio intervento nella vita politica quale essenziale per la lotta al terrorismo. Oggi, in Egitto la questione va ben oltre il reintegro di un presidente eletto: bisogna combattere per difendere i principi, non per ottenere il potere. Tra i principi da preservare accanto alla difesa della legittimità costituzionale e della democrazia vi è proprio il ripudio della violenza, a prescindere da quanto in alto possa levarsi la voce della tirannia.
|