Originale : Waging Nonviolence
La non violenza è fallita in Egitto? Tre anni fa in febbraio, il presidente dell’Egitto, di 82 anni, Hosni Mubarak, si è dimesso in mezzo a storiche proteste contro il suo governo dittatoriale. La notizia delle sue dimissioni , l’11 febbraio 2011, ha segnato il culmine di un’insurrezione che è stata subito riconosciuta come uno delle più improvvise e significative rivolte del 21°secolo. Come ha scritto il New York Times: “L’annuncio che arriva dopo una rivolta di 18 giorni guidata dai giovani dell’Egitto, fa a pezzi tre decenni di stasi politica e capovolge l’ordine stabilito del mondo arabo.” In Egitto gli attivisti, insieme ai loro simpatizzanti di tutto il mondo, si sono rallegrati. “Avevamo tentato prima, ma niente era stato così,” ha detto Ahmed Salah, un giovane organizzatore veterano che aveva lavorato per anni per l’opposizione al regime. Per mesi aveva propagandato l’idea audace e improbabile di una rivoluzione senza armi. “Avevo delle speranze, ma non ho mai realmente pensato che l’avrei visto,” ha spiegato. “Tahrir mi ha fatto venire le lacrime agli occhi.” Oggi l’euforia di quel tempo se ne andata. Le forze armate, ora al comando del Generale Abdel Fattah al-Sisi sono di nuovo in carica, avendo mandato via il governo eletto della Fratellanza Musulmana di Mohamed Morsi lo scorso luglio. Il preminente esperto di scienze politiche, Amr Hamzawy, definisce la sua nazione “un paese nella paura” che sta ora sperimentando “una veloce ripresa dell’autoritarismo.” Amnesty International concorda. In un recente rapporto il gruppo per i diritti umani affermava: “Tre anni dopo, le richieste della ‘Rivoluzione del 25 gennaio’ per la dignità e i diritti umani sembrano più lontane che mai. Parecchi dei sui architetti sono dietro le sbarre e la repressione e l’impunità sono all’ordine del giorno.” Il rapporto sostiene inoltre: “Le autorità egiziane stanno usando ogni risorsa a loro disposizione per reprimere il dissenso e calpestare i diritti umani.” Questi sviluppi preoccupanti sollevano alcune domande critiche: La non violenza è fallita in Egitto? E se è così, che cosa si può imparare dall’esperienza del paese? L’Egitto è spesso presentato come un esempio di una storia di successo di resistenza civile un esempio fresco ed eccitante di come una mobilitazione di massa non violenta possa prevalere su una forza di potenza militare di gran lunga maggiore. Tuttavia, dato che il paese è scivolato all’indietro in uno stato repressivo e anti-democratico, questo successo è stato messo in discussione. Alcuni considerano la situazione in Egitto peggiore che mai, e i più cinici affermano che sarebbe stato meglio se la rivoluzione non si fosse mai fatta. In effetti, la rivoluzione egiziana non dovrebbe essere considerata come un successo elementare né come un semplice terreno di rappresentazione di pessimismo. E’ di gran lunga più preziosa quando si riconosce come qualcosa di diverso: un perfetto caso di studio sia di che cosa si può raggiungere con le mobilitazioni di massa che controllano il potere della protesta perturbatrice, sia dei limiti di queste mobilitazioni. Oltre una struttura saldamente unita e gerarchica Per comprendere come la si è svolta la situazione politica in Egitto, è utile farsi per prima cosa una domanda più elementare: come ha fatto un piccolo gruppo genericamente organizzato di giovani egiziani a finire per impostare i termini per la rivoluzione nel loro paese? Se qualcuno avrebbe dovuto capeggiare una rivolta con un esito felice contro il governo di Mubarak, questi doveva essere la Fratellanza Musulmana . Fondato più di 80 anni fa, il gruppo è stato messo al bando in Egitto nel 1954 e ha operato clandestinamente per decenni. Come conseguenza, le stime sul numero totale dei membri, sono state imprecise, ma la somma raggiunge le centinaia di migliaia e forse arriva a un milione. Inoltre, l’influenza dell’organizzazione si estende oltre gli elenchi dei membri. La Fratellanza Musulmana si è costruita una forte reputazione come fornitrice di servizi sociali, facendo funzionare una rete nazionale di scuole, banchi alimentari, ospedali, e programmi per orfani e vedove. Nel frattempo, il regime di Mubarak lavorava a sua volta per reprimere o contenere le attività politiche della Fratellanza Musulmana. Tollerava questo impegno nel campo della beneficienza riconoscendolo come supplemento fondamentale alla rete statale di protezione sociale, che si andava sfilacciando. Come ha riferito nel 2011 Nadine Farag, ricercatrice nel campo della sanità, una donna egiziana, indipendentemente dalla politica o dalla religione, poteva pagare l’equivalente di 175 dollari per partorire in un ospedale con personale e attrezzature di buon livello, gestito dalla Fratellanza Musulmana, oppure poteva pagare 875 dollari in un ospedale privato. La Farag nota inoltre che quando un terremoto devastante aveva colpito il Cairo nel 1992, i Fratelli hanno rapidamente fornito tende, cibo, tè, coperte, e ambulatori medici improvvisati, rafforzando così la loro reputazione tra gli egiziani. Mentre era ancora ufficialmente bandita, la Fratellanza Musulmana ha guadagnato un’affermazione in parlamento nel 2005 con i suoi candidato che concorrevano come indipendenti. Anche se non era un membro della Fratellanza Musulmana, Salah, uno dei leader dei giovani durante l’insurrezione di Piazza Tahrir, ha tuttavia definito quella organizzazione come “di gran lunga il gruppo di opposizione più grande e meglio organizzato in Egitto”, una formidabile istituzione politica e sociale con membri “organizzati in una struttura saldamente unita e gerarchica.” Sebbene possa sembrare strano, gli stessi fattori che hanno reso potente la Fratellanza la forza del suo modello organizzativo rendevano anche esitanti i sui capi a rischiare tutto quello che avevano costruito, in uno scontro di massa con Mubarak. Dopo tutto, avevano qualcosa da perdere. Poiché la Fratellanza aveva una dirigenza e i suoi membri chiaramente identificati, erano facilmente obiettivi della repressione da parte dello stato. Poiché avevano creato solide strutture per mezzo delle quali potevano pazientemente accumulare potere, sentivano meno urgenza di forzare una crisi pubblica per il regime. E poiché erano esperti nel gestire una rete di contatti da persona a persona tra la loro base islamista, erano meno bravi a sostenere richieste politiche largamente popolari, che sarebbero state appoggiate da altri segmenti della società. Questo modello non è insolito. Dal movimento statunitense per i diritti civili, alle “rivoluzioni colorate” nel blocco ex sovietico, fino al movimento Occupy, si può vedere rappresentato uno scenario analogo: le organizzazioni più affermate, ben strutturate in un dato panorama politico, sono colte di sorpresa da ultimi arrivati poco conosciuti che danno il via ribellioni non violente che catturano l’immaginazione pubblica. Questi nuovo gruppi hanno molto meno risorse e strutture istituzionali molto più deboli rispetto ai convenzionali sindacati dei lavoratori, alle organizzazioni basate sulle comunità o ai partiti politici. Usano però queste prerogative a loro vantaggio organizzandosi al di fuori della struttura di qualsiasi gruppo dissidente tradizionale. Si specializzano in un tipo diverso di attività di movimento sociale: mobilitazione di massa spinta dallo slancio. Questo tipo di attività di protesta è noto con nomi diversi. La sociologa Frances Fox Piven lo chiama esercizio di “potere perturbatore,” distinguendolo dalle normali pratiche di organizzazioni che prevedono un’iscrizione. Lo storico Charles Payne, identificando due diversi ceppi all’interno del movimento statunitense per i diritti civili, lo chiama la tradizione della mobilitazione della comunità una derivazione “incentrata su eventi pubblici di vasta portata, relativamente a breve termine” come le famose campagne a Birmingham e a Selma che egli contrappone con la paziente organizzazione delle comunità e con l’evoluzione della leadership locale realizzata da persone come Ella Baker [attivista afro-americana per i diritti umani vissuta dal 1903 al 1986, n.d.t.]. Un campo accademico relativamente nuovo dedicato allo studio della “resistenza civile” ha iniziato a esplorare in profondità le dinamiche delle insurrezioni di massa non armate incrementando gli studi pionieristici di Gene Sharp riguardo all’azione strategica non violenta. In ciascun caso, i gruppi che erano dalla parte perturbatrice dell’equazione somigliano molto meno alla Fratellanza Musulmana e molto di più al combattivo Movimento Giovanile Egiziano 6 Aprile. ‘Si è propagato come il fuoco’ Le organizzazioni esperte di media sociali come la 6 Aprile e coloro he seguono le pagine popolari attiviste su Facebook avevano poco in comune con i quadri saldamente uniti della Fratellanza. Mentre questi gruppi formatisi di recente avevano diecine di migliaia di membri “on line” a volte accumulatisi in poche settimane dopo un vento molto pubblicizzato gli organizzatori spesso sapevano poco più di del nome di utente messo su Internet riguardo a un dato sostenitore. Invece che padroneggiare le arti dello sviluppo a lungo termine della leadership, si concentravano sul confronto e lo spettacolo pubblico. La loro forza stava nel raccontare notizie pubblicizzando le fotografie delle violenze della polizia e dell’indignazione nelle manifestazioni. Il regime gli dava materia di lavoro. Gli organizzatori pubblicavano video di persone che venivano picchiate dalla polizia e mostravano le ferite di coloro che erano stati torturati mentre erano in detenzione, il sangue rappreso prodotto dalla morte per con scossa elettrica che lascia macchie rosa sotto la pelle delle vittime. Come esempio, la pagina di Facebook Siamo tutti Khalid Said”, ha preso il nome da un uomo di 28 anni che, il giugno del 2010 era staro picchiato selvaggiamente dalle autorità dopo aver messo in rete un video di cattiva condotta della polizia. Come riferisce il giornalista David Wolman, due investigatori lo avevano affrontato in un Internet café e gli hanno sbattuto la testa sul tavolo prima che il proprietario gli dicesse di andare a picchiarsi fuori. Hanno fuori Said all’ingresso di un edificio dove lo hanno preso a calci e gli hanno spaccato la testa contro un cancello di ferro fino a quando il suo corpo si è afflosciato. Quando l’immagine del suo cadavere è stata fatta circolare on line, è diventata un catalizzatore virale dell’indignazione. “Forse è stato perché era un tipo conosciuto e ben educato che aveva molti amici,” ha detto uno studente a Wolman. “E la foto… era completamente sfigurato. Non so esattamente che cosa era, ma si è propagato come il fuoco.” Quando è venuto il momento di mobilitare i cittadini per le dimostrazioni del 25 gennaio, l’approccio degli organizzatori dei giovani è stato più simile alla promozione di un concerto che a costruire le organizzazioni di quartiere. Hanno creato fermento e prodotto entusiasmo. Un altro fenomeno virale è stato un video blog di Asmaa Mahfouz, di 26 anni, co-fondatrice del Movimento 6 Aprile. Invece che nascondere la sua identità, Asmaa si è posizionata direttamente di fronte alla telecamera del suo computer e ha annunciato che avrebbe partecipato alla protesta programmata per il 25 gennaio. Ha implorato senza vergogna gli altri di unirsi a lei. “Fino a quando dite che non c’è alcuna speranza, non ci sarà alcuna speranza,” ha dichiarato Asmaa. “Ma se scendete in strada e prendete una posizione, allora ci sarà speranza, La sua testimonianza ha avuto un impatto insolito, stimolando molti altri a far circolare video girati da loro. Come ha riferito il New York Times, il post di Asmaa “è partito dal comodo, famigliare anonimato dell’attivismo on line. Otre a questo, è stata una donna che ha osato mettere la sua faccia al messaggio, non turbata dalla possibilità di un arresto per il suo atteggiamento di sfida. ‘Non abbiate paura’”, ha detto. In contrasto con il tipo di proposte progressive per un cambiamento di politiche che potrebbero essere normalmente avanzate da un partito politico che cerca di ostentare i suo muscoli istituzionali, i giovani organizzatori hanno avanzato richieste cariche di simboli per produrre la più ampia simpatia possibile. In sostanza, hanno adottato uno slogan che era già reso famoso nella vicina Tunisia: “La gente chiede la caduta del regime.” Vi stavamo aspettando!” Invece di ricorrere a liste stabilite di membri e di mobilitare i membri già identificati coinvolgendo un piccolo numero di aderenti reclutati in precedenza gli organizzatori hanno fatto fiasco. La maggior parte delle persone che si sono presentate, prendevano parte alle dimostrazioni per la prima volta. A causa di questo, le previsioni degli organizzatori su chi si sarebbe presentato, nel migliore dei casi erano vaghe. Sebbene avessero tantissimo conferme on line e avessero fatto un ampio lavoro di passa parola, non potevano essere sicuri che più di una manciata di persone sarebbero accorse. L’esperienza del 25 gennaio è risultata essere una meraviglia. “Era il mio quartiere, lamia casa e in 10 anni di attivismo avevo incontrato centinaia di persone all’interno e intorno alla comunità di attivisti,” ha scritto Salah,un altro dei membri fondatori del Movimento 6 Aprile, della marcia che si era formata nel suo quartiere per dirigersi a PiazzaTahrir. ”Tuttavia le strade erano piene di uomini e di donne che non avevo mai visto. E scandivano slogan! Mentre ho alzato la voce per unirmi a loro, ho pensato tra me: “Oh, mio Dio” Dove eravate? Vi stavamo aspettando!” Per un certo periodo i media egiziani etichettavano tutte le attività di organizzazione giovanile, come opera del 6 Aprile. Questo rifletteva il successo del gruppo nel creare un tipo di mobilitazione che era meno un’istituzione concreta che un movimento aperto con cui si potevano identificare le persone in tutto il paese. Secondo Salah, il gruppo aveva soltanto poche dozzine di persone fisiche, all’inizio del 2011, e tuttavia un’ampia gamma di attività autonoma era popolarmente associata agli sforzi dell’organizzazione. “E’ diventato il marchio,” ha detto Salah. Siamo riusciti a farne l’icona del cambiamento. I giovani non hanno soltanto spinto parecchie dimostrazioni precedenti che hanno riempito le piazze del Cairo e oltre, hanno esercitato un’influenza duratura mentre le proteste crescevano. Quando, dopo vari giorni, gruppi come la Fratellanza Musulmana e l’Associazione Nazionale per il cambiamento, guidata da Premio Nobel ed ex capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, Mohamed El Baradei, finalmente hanno deciso di amplificare un’eruzione politica che era troppo grande per essere ignorata, questi attori competenti hanno dimostrato deferenza per i metodi e i messaggi che i giovani avevano stabilito dall’inizio. L’analista di politica estera Robert Dreyfuss ha spiegato: “Quando in gennaio è iniziata l’insurrezione egiziana, i Fratellanza Musulmana non erano tra i capi. In prima linea, nel movimento, c’erano giovani egiziani…a cui si è unito un insieme vario di gruppi laici, socialisti, nasseriani e filo-democratici, e alla fine anche Mohamed El Baradei.” I nuovi gruppi che hanno aderito in grande maggioranza, hanno adottato gli slogan e l’inquadratura della rivolta attuale. Quando la rivoluzione è iniziata, l’affidarsi all’organizzazione spinta dall’impulso, non era un limite. Anzi, il gruppo 6 aprile e altri gruppi giovanili sono stati in grado di suscitare un’insurrezione contagiosa esattamente perché non erano basati su strutture rigide. Non avevano risorse organizzative che potevano essere presi dal regime. Non avevano un terreno politico stabilito da difendere o interessi settari che li avrebbero fatti sembrare come un tentativo auto-interessato e di parte. Non avevano strutture che potevano essere facilmente infiltrate. E quindi potevano affrontare una campagna su vasta scala, carica dal punto di vista simbolico, destinata al massimo sostegno e al massimo disturbo. Certamente l’11 febbraio, quando le autorità hanno annunciato le dimissioni di Mubarak e gli attivisti hanno gridato per la gioia nella piazza, nuvole di tempesta già all’orizzonte. Nei tre anni successivi, gli insorti non violenti avrebbero affrontato una montagna di contestazioni, una ripresa della repressione e lo spettro della contro-rivoluzione. Per il momento, però, hanno ottenuto qualcosa che pochi nel mondo avrebbero potuto prevedere, e qualcosa che i gruppi meglio organizzati del paese non avevano ottenuto. Hanno il tiranno che aveva governato per un periodo più lungo dell’età di molti di loro. Hanno spodestato Mubarak. “Non sappiamo fare compromessi” Raccogliere la massiccia simpatia del pubblico, portare la gente nelle strade in numero sbalorditivo “rompendo la barriera della paura” come diceva una popolare espressione egiziana mandare a casa un regime radicato, sono tutti successi notevoli. Dovrebbero essere riconosciuti come tali dai movimenti futuri, e le loro dinamiche dovrebbero essere studiate e le strategie esaminate a fondo. Tuttavia, proprio come il modello organizzativo spinto dallo slancio del 6 Aprile e di altri gruppi giovanili ha dato loro un ‘influenza sproporzionata nel modellare l’insurrezione, le strutture ben congegnate della Fratellanza Musulmana si sono dimostrate essenziali nel definire che cosa sarebbe venuto dopo. La sfida dopo qualsiasi insurrezione di massa è istituzionalizzare i risultati del potere perturbatore una volta passato il momento culminante. Qui la abitudini dell’organizzazione basata sulla struttura diviene di nuovo utile. Un’abitudine di questo tipo si riferisce al modo in cui un movimento presenta i suoi obiettivi. I gruppi spinti dallo slancio su richieste ampie, di trasformazione che abbiano una risonanza simbolica e che possano stimolare l’appoggio da parte del pubblico : “La gente chiede la caduta del regime.” In Egitto questo ampio richiamo all’azione ha creato una crisi di legittimità per Mubarak, ma non è stato altrettanto efficace nell’assicurare l’ascesa di nuovi leader o di nuovi sistemi di governo. Al contrario, gruppi come la Fratellanza Musulmana si specializzano nel cercare richieste di transizione risultati più limitati, più sequenziali che sono graditi alla loro base e gli permettono di influenzare il potere istituzionale che hanno accumulato. La strada convenzionale per ottenere tali richieste comporta contrattazioni, accesso alle informazioni e compromessi. E’ un processo notoriamente incasinato. Non sorprende che le abilità della macelleria politica e della salumeria legislativa non sono forze per reti decentralizzate la cui passione è stimolare la gente che non si sarebbe mai immaginata prima di partecipare a una manifestazione. Wael Ghonim, il redattore della pagina di Facebook che si chiama “Siamo tutti Khalid Said” e autore del libro: Rivoluzione 2.0, considerava un punto di onore che i sito non fosse affondato nel buio della politica di partito ma che invece avesse centrato la sua attenzione su argomenti “universali” come la libertà e i diritti umani. Nel documentario candidato all’Oscar, The Square (La Piazza) uscito nei cinema alla fine di gennaio per farlo coincidere con il terzo anniversario della rivoluzione due giovani discutono come questo era diventato un problema dopo la caduta di Mubarak: “La politica non è la stessa cosa che la rivoluzione. Se si vuole fare politica in modo superficiale, bisogna fare dei compromessi. E noi non ne siamo capaci…affatto,” diceva Khalid Abdalla un attivista anglo-egiziano e attore noto per il suo ruolo nel film “Il cacciatore di aquiloni”. Non sappiamo fare i compromessi.” “Siamo pessimi in questo,” è stato d’accordo Ramy Essam, un musicista che si esibiva regolarmente prima delle dimostrazioni a Piazza Tahrir, guadagnandosi la fama di “cantante della rivoluzione.” Non è successo così nel caso della Fratellanza Musulmana . Per i loro capi, trattare per un progresso istituzionale in un clima post rivoluzionario, è stato naturale. Con una struttura per un partito politico già a posto, e un blocco organizzato di elettori pronto per “l’uso” i Fratelli si sono fatti avanti. Mentre i giovani liberali in generale erano favorevoli a lasciare del tempo per la stesura di una costituzione e per la formazione di nuovi partiti, i Fratelli spingevano per nuove elezioni. Abdul- Fatah Madi, un analista egiziano che scrive su Al Jazeera, ha spiegato che prima della sconfitta di Mubarak le fazioni guidate da giovani “si preoccupavano di acquisire conoscenze sul modo di far cadere i regimi tiranni e anche di diffondere informazioni sulle violazioni dei diritti umani.” Ma quando è iniziata la transizione del dopo rivoluzione, non sono riusciti “a prendere dimestichezza con le tortuosità della costruzione dello stato e dei progetti politici che sarebbero serviti come alternativa al regime autoritario.” Madi sosteneva che i giovani mostravano un’avversione a contrattare su richieste di parte di vecchia data, un disinteresse che nasceva “dal non voler partecipare al processo decisionale che era dominato da vecchi partiti e da un’elite di lunga data.” In assenza di una sfida strutturata da parte dei rivoluzionari laici, la Fratellanza Musulmana ha fatto cadere qualsiasi pretesa di una coalizione di movimenti. Sei mesi dopo la rivoluzione, ha ordinato ai suoi membri di uscire a fare dimostrazioni di massa. Le folle disciplinata scandivano: “Governo islamico, governo islamico,” e “Il Corano è la nostra costituzione.” I giovani, i campioni dello slancio, erano stati sconfitti con una manovra. ‘Cominciare da capo una nuova rivoluzione’ Mentre la situazione difficile dell’Egitto ha alcune caratteristiche peculiari, non è unica tra le recenti insurrezioni che hanno destituito governi non democratici. Queste comprendono le “rivoluzioni colorate” nell’ex blocco sovietica e i movimenti che hanno costretto Slobodan Miloševic a lasciare il potere in Serbia nel 2000. Come in Egitto, i giovani hanno avuto un ruolo fondamentale nel guidare manifestazioni che sono rapidamente cresciute. Ma in tutti questi casi i giovani erano impreparati per eventi futuri. Matthew Collin, autore di “The Time of Rebels” Il tempo dei ribelli], che è uno studio di queste insurrezioni, scrive che “sembrava non esserci un piano per quello, seppure ci fosse, che questi movimenti giovanili potevano ottenere dopo le loro rivoluzioni.” I capi di alcuni gruppi sono entrati in agenzie governative, alcuni gruppi hanno tentato di diventare partiti politici, e altri hanno cercato di rimanere integri e fare da gruppi di sorveglianza. Ma dato che è impossibile mantenere livelli alti di mobilitazione di massa per sempre, spiegava Collin, “In tutti i casi la maggior parte degli attivisti membri di un gruppo, si sono semplicemente allontanati. Potevano aiutare a cambiare i loro paesi, ma hanno trovato più difficile assicurare che i politici che sono andati dopo al governo rimanessero fedeli ai principi che avevano accettato al momento della rivoluzione.” I tentativi spinti dallo slancio, hanno ottenuto dei cambiamenti durevoli come l’istituzione di elezioni regolari in Serbia ma le elite più vecchie sono state in grado di usare la loro forza istituzionale, per avanzare di nuovo all’interno delle mura del potere. Idealmente, quando l’organizzazione basata sulle strutture e i movimenti spinti dall’impulso si sono allineati, i due modelli possono fare da complemento reciproco. Gruppi stabiliti che condividono gli obiettivi dell’insurrezione di massa, possono trarre vantaggio da un’esplosione di maggiore energia e interesse in una causa condivisa. A loro volta, le organizzazioni più consolidate possono offrire il loro prestigio e risorse a “scoppi” di resistenza quando si manifestano. E’ successo in Egitto quando la Fratellanza Musulmana ha deciso di appoggiare la rivolta di Tahrir, portando i microfoni nella piazza, facendo partecipare i suoi affiliati, organizzando la raccolta della spazzatura, e quando si è unita all’iniziativa di una coalizione di governo. Ma quando i due gruppi si sono divisi, quando i rivoluzionari laici sono stati in disaccordo con gli Islamisti, l’esercito è stato il principale beneficiario. Le forze armate che si sono rifiutate di intensificare le repressioni per conto di Mubarak, per annientare l’insurrezione del gennaio 2011, venivano percepiti come eroi dopo la rivoluzione. L’esercito è quindi emerso come la forza che avrebbe controllato il vecchio regie e sarebbe stato in competizione per il dominio, con la Fratellanza musulmana. Nell’anno e mezzo seguente, quando il consiglio Supremo delle forze armate ha tentato di prendere il potere, nuove proteste che usavano lo slogan “Da capo una nuova rivoluzione” li hanno costretti a cedere a un governo civile. Questo ha Mohamed Morsi, della Fratellanza Musulmana, di assumere la carica come primo presidente democraticamente eletto del paese nell’estate del 2012. Tuttavia, durante il suo anno in carica Morsi si è garantito anche poteri sempre più costosi, spingendo a un contraccolpo pubblico. Avendo già detronizzato Mubarak e il Consiglio Supremo, gli egiziani sono scesi nelle strade per dimostrare contro un terzo potere dominante. Gli artisti di graffiti hanno cambiato i loro stampini: coloro che una volta segnavano delle X rosse sulle immagini di Mubarak dipinte con la vernice a spruzzo, hanno iniziato a usare invece i ritagli delle foto Morsi. Nell’estate del 2013, tra proteste anche più grandi di quelle che hanno dato il via alla rivoluzione, i militari sono intervenuti e hanno costretto i Fratellanza Musulmana a lasciare il potere. All’inizio i liberali esitavano a chiamarlo colpo di stato militare, ma le speranze per un tipo di governo più aperto e pluralista sono state ancora una volta mandate all’aria. Nei mesi successivi, l’esercito ha intensificato la repressione, prendendo seri provvedimenti sia riguardo agli oppositori islamisti che a quelli laici. Nel terzo anniversario della rivoluzione, quando Amnesty International avvertiva che “le autorità usavano ogni risorsa…per reprimere il dissenso,” la situazione appariva davvero cupa. La più grande vittoria della rivoluzione” Dovremmo concludere dal punto di vista odierno che la non violenza è fallita in Egitto? Le sfide di istituire un ordine sociale più libero e giusto dopo una rivoluzione, non sono certo unici nei movimenti non violenti. Influenzano tutti i cambiamenti turbolenti del potere statale. Degli studi hanno trovato che, in vari decenni passati, quando un regime è stato rovesciato, gli stati del dopo-transizione era di gran lunga più probabile che diventassero democratici quando la transizione era guidata da coalizioni che usavano tattiche di resistenza civile non armata scioperi, boicottaggi di massa e dimostrazioni di vasta portata. Nel caso di un’insurrezione tipo guerriglia, contro uno stato non democratico, le possibilità di un governo aperto e partecipativo sono molto più scarse. In questo caso, i rivoluzionari devono ancora riempire il vuoto lasciato dal vecchio regime. Ma dal momento che le forze armate che hanno istigato il rovesciamento di regime sono di solito l’istituzione meglio organizzata dell’opposizione, le sue strutture gerarchiche sono idonee a subentrare. Il risultato, come in molti stati africani post-coloniali è spesso un nuovo governo militare. Fino dalla cacciata di Morsi, i gruppi militanti islamisti hanno fatto sparatorie e altri attacchi contro le forze di sicurezza governative tra questi, due grossi bombardamenti contro il quartiere generale della polizia al Cairo. Sebbene la Fratellanza Musulmana abbia rilasciato dichiarazioni di condanna degli attacchi, l’esercito ha usato la violenza come occasione di un brutale giro di vite nei riguardi dei dissidenti. In dicembre ha dichiarato la Fratellanza Musulmana una “organizzazione terrorista”, ha dichiarato fuori legge ogni partecipazione alle sue manifestazioni, e ha congelato i beni di almeno 1.055 organizzazioni benefiche affiliate. Sfortunatamente, il pretesto di una “guerra al terrore” ha permesso all’esercito di mantenere un notevole appoggio popolare. Alcuni di coloro che sono scesi nelle strade il 25 gennaio 2011, forse si opponevano moralmente alla violenza. Ma, nel complesso, il popolo egiziano ha optato per dimostrazioni di massa senza armi rispetto a partecipare a una lotta di guerriglia, per una semplice ragione: credevano che la non-violenza strategica fosse il mezzo più pratico ed efficace per cacciare il regime pesantemente militarizzato di Mubarak e per ottenere una società più libera e partecipativa. Le conseguenze degli attacchi degli insorti negli scorsi 6 mesi, che non sono certo serviti a indebolire la posizione dell’esercito, indicano che il giudizio tattico dei rivoluzionari no violenti ha prodotto una notevole saggezza. Malgrado le attuali difficoltà, la strategia della mobilitazione non armata contiene anche speranze per il futuro. Considerati gli sviluppi dei tre anni passati, si potrebbe pensare che la rivoluzione sia stata screditata in Egitto, che l’insurrezione di Piazza Tahrir poteva essere denigrata o dimenticata nell’immaginazione popolare. Non è questo il caso. Invece la rivoluzione rappresenta una pietra di paragone culturale onorata. Invece di attaccarla, ognuno dei gruppi che rivaleggiano per il potere nel paese, cercano di attribuirsi il merito di aver cacciato Mubarak e si presentano come la forza che sta portando avanti il vero spirito della rivoluzione. Questo è vero per quanto riguarda l’esercito che, come scrive un giornalista “ha avvolto la sua presa di potere non soltanto nella bandiera, ma anche nella prima insurrezione del 2011.”Quando mettono in prigione i rivoluzionari laici o dei membri della Fratellanza Musulmana, le forze armate li dipingono come traditori della causa popolare. Le misure di emergenza della polizia di stato per combattere il terrorismo, sostengono i generali, sono l’unico modo di conservare quella che chiamano la rivoluzione “gloriosa”. Coloro che in Egitto hanno guidato le mobilitazioni di massa devono ancora risolvere il problema della istituzionalizzazione. Ci vorrà del tempo per sviluppare delle strutture che possano assorbire i vantaggia ottenuti con azioni di disturbo. Gli organizzatori dei giovani ora riconoscono questo: nel 2012 i capi del movimento giovanile 6 Aprile hanno promesso di iniziare un piano di cinque anni per sviluppare istituzioni alternative. Nello stesso tempo, riconoscono anche che la loro insurrezione ha scatenato uno spirito di auto determinazione condivisa che non può essere facilmente soppressa. “L’arma della nostra rivoluzione è la nostra voce,” ha spiegato l’attivista Ahmed Hassan ai registi del film La piazza. “Se mi chiedete, ‘Quale è la più grande vittoria della rivoluzione?’ vi dico che è che oggi i bambini fanno un gioco che si chiama ‘Protesta’, dove alcuni fanno la parte dei rivoluzionari e altri quella della polizia o dell’esercito o dei Fratelli Musulmani. Da parte sua, il co-fondatore del 6 Aprile, Ahmed Salah, vive ora in esilio e sta affrontando il trauma della repressione. “Penso che sia il periodo peggiore,” ha detto. “La maggior parte delle persone tramite l’indottrinamento arrivano a pensare che l’unico modo di salvare l’Egitto sia tramite il governo militare.” E tuttavia racconta che il suo pessimismo viene bilanciato da un altro impulso. “Ho anche fiducia,” ha detto Salah.”Ogni gruppo che è stato in una posizione eminente nel paese, ha tentato di mantenere il potere. Tuttavia noi egiziani siamo stati capaci di abbattere tre regimi: quello di Mubarak, il Consiglio Supremo e i Fratellanza Musulmana .” Ha concluso: “Quello che abbiamo fatto prima, possiamo farlo di nuovo.” Da: Z Net Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org Fonte: http://www.zcommunications.org/did-nonviolence-fail-in-egypt-by-mark-engler
http://wagingnonviolence.org Did nonviolence fail in Egypt? Three years ago this month, the 82-year-old president of Egypt, Hosni Mubarak, stepped down amid historic protests against his dictatorial rule. News of his resignation on Feb. 11, 2011 marked the climax of an uprising that was quickly recognized as one of the most sudden and significant upheavals of the 21st century. As the New York Times reported, “The announcement, which comes after an 18-day revolt led by the young people of Egypt, shatters three decades of political stasis and overturns the established order of the Arab world.” Activists in Egypt, along with sympathizers throughout the world, rejoiced. “We had tried before. But nothing was like this,” said Ahmed Salah, a veteran youth organizer who had worked for years to drum up resistance to the regime. For months, he had been promoting the audacious and improbable idea of a revolution without arms. “I had hopes, but I never really thought that I’d see it,” he explained. “Tahrir brought tears to my eyes.” Today, the euphoria of those times is gone. The military, now under the command of General Abdel Fattah al-Sisi, is back in charge, having ousted the elected, Muslim Brotherhood-led government of Mohamed Morsi last July. Prominent political scientist Amr Hamzawy describes his nation as “a country in fear” that is now experiencing a “fast recovery of authoritarianism.” Amnesty International concurs. In a recent report the human rights group argued, “Three years on, the demands of the ‘25 January Revolution’ for dignity and human rights seem further away than ever. Several of its architects are behind bars and repression and impunity are the order of the day.” The report further contends, “The Egyptian authorities are using every resource at their disposal to quash dissent and trample on human rights.” These troubling developments raise some critical questions: Did nonviolence fail in Egypt? And, if so, what can be learned from the country’s experience? Egypt is often held up as a success story of civil resistance a fresh and exciting example of how a nonviolent mass mobilization can prevail over a force with far greater military might. However, as the country has slid back into a repressive and undemocratic state, this success has been called into question. Some regard the situation in Egypt as worse than ever, and the most cynical contend that it would have been better if the revolution had never happened at all. In fact, the Egyptian revolution should been seen neither as an uncomplicated success nor a mere staging ground for pessimism. For it is far more valuable when recognized as something different: a perfect case study both of what can be accomplished by mass mobilizations that harness the power of disruptive protest and of the limits of these mobilizations. Beyond ‘a tightly knit and hierarchical structure’ To understand how the political situation in Egypt has unfolded, it is useful to first ask a more basic question: How did a small, loosely organized group of Egyptian young people end up setting the terms for their country’s revolution? If anyone should have spearheaded a successful revolt against Mubarak’s rule, it was the Muslim Brotherhood. Founded more than 80 years ago, the group was banned in Egypt in 1954 and operated underground for decades. As a result, estimates of its membership have been imprecise, but the count reaches into the hundreds of thousands and may be as high as a million. Moreover, the organization’s influence extends beyond its membership rolls. The Muslim Brotherhood established a strong reputation as a social service provider, operating a nationwide network of schools, food banks, hospitals and programs for orphans and widows. While the Mubarak regime worked at turns to repress or contain the Brotherhood’s political activities. It tolerated these charity efforts recognizing them as an essential supplement to the state’s fraying social safety net. As public health researcher Nadine Farag reported in 2011, an Egyptian woman, regardless of politics or religion, could pay the equivalent of $175 to give birth in a well-staffed and well-equipped hospital run by the Brotherhood, or she could pay $875 in a private hospital. Farag further notes that, when a devastating earthquake hit Cairo in 1992, the Brotherhood quickly provided tents, food, tea, blankets and makeshift medical clinics, solidifying its reputation among the Egyptian public. While still officially banned, the Brotherhood gained a foothold in parliament in 2005 with its candidates running as independents. Although not a member of the Muslim Brotherhood himself, Salah, one of the youth leaders during the Tahrir uprising, nevertheless described that organization as “by far the largest and best-organized opposition group in Egypt,” a formidable social and political institution with members “organized into a tightly knit and hierarchical structure.” Although it may seem strange, the same factors that made the Brotherhood powerful the strengths of its organizing model also made its leaders hesitant to risk all they had built in a mass confrontation with Mubarak. After all, they had something to lose. Because the Brothers had clearly identified leadership and hierarchical membership, they were easily targeted for repression by the state. Because they had created strong structures through which they could patiently amass power, they felt less urgency to force a public crisis for the regime. And because they were experts in person-to-person networking among their Islamist base, they were less adept at advocating for widely popular political demands that would be supported by other segments of society. This pattern is not unusual. From the U.S. civil rights movement, to the “color revolutions” in the former Soviet bloc, to the Occupy movement, one can see a similar scenario play out: the most established, well-structured organizations on a given political landscape are taken by surprise by little-known upstarts who launch nonviolent rebellions that capture the public imagination. These new groups have far fewer resources and much weaker institutional structures than conventional labor unions, community-based organizations or political parties. But they use these traits to their advantage by organizing outside of the structure of any traditional dissident group. They specialize in a different type of social movement activity: momentum-driven mass mobilization. This type of protest activity goes by different names. Sociologist Frances Fox Piven calls it the exercise of “disruptive power,” distinguishing it from the typical practices of membership organizations. Historian Charles Payne, identifying two different strains within the U.S. civil rights movement, calls it the community mobilizing tradition a lineage “focused on large-scale, relatively short-term public events” such as the famous campaigns in Birmingham and Selma which he contrasts with the patient community organizing and local leadership development carried out by the likes of Ella Baker. A relatively new academic field devoted to the study of “civil resistance” has begun exploring in depth the dynamics of mass, unarmed uprisings building upon Gene Sharp’s pioneering studies into strategic nonviolent action. In each case, the groups on the disruptive side of the equation look a lot less like the Muslim Brotherhood and a lot more like Egypt’s scrappy April 6 Youth Movement. ‘It spread like fire’ Social media-savvy organizations such as April 6 and the followers of popular activist Facebook pages had little in common with the tight-knit cadres of the Brotherhood. While these recently formed groups had tens of thousands of online “members” sometimes amassed in a matter of weeks after a high-publicity event organizers often knew little more about a given follower than an Internet username. Rather than mastering the arts of long-term leadership development, they focused on confrontation and public spectacle. Their strength was telling stories publicizing pictures of police abuse and rallying outrage. The regime gave them plenty to work with. The organizers posted videos of people being beaten by police and showed the wounds of those who had been tortured in custody, the congealed blood from electrocution leaving pink stains underneath the victims’ skin. As one example, the “We Are All Khalid Said” Facebook page was named after a 28-year-old man who, in June 2010, was savagely beaten by authorities after posting a video of police misconduct. As journalist David Wolman recounts, two detectives confronted him at a cybercafe and “slammed his head on a table before the owner told them to take the fighting outside. They pulled Said out to a building entryway where they kicked him and smashed his head against an iron gate until his body went limp.” When a picture of his dead body was circulated online, it became a viral catalyst for indignation. “Maybe it was because he was a well-known and educated guy with many friends,” one student told Wolman. “And the picture. I mean, he was so completely disfigured. I don’t know what it was exactly, but it spread like fire.”
When it came time to mobilize citizens for the January 25 demonstrations, the youth organizers’ approach was more akin to concert promotion than the building of neighborhood organizations. They created buzz and generated enthusiasm. Another viral phenomenon was a video blog by 26-year-old Asmaa Mahfouz, a co-founder of the April 6 Youth Movement. Rather than conceal her identity, Mahfouz positioned herself directly in front of her computer’s camera and announced that she would attend to the protests planned for January 25. She brazenly implored others to join her: “As long as you say there is no hope, then there will be no hope,” Mahfouz argued. “But if you go down and take a stance, then there will be hope.” Her testimonial had an unusual impact, inspiring many others to circulate videos of their own. As the New York Times reported, Mahfouz’s post “departed from the convenient, familiar anonymity of online activism. More than that, it was a woman who dared put a face to the message, unfazed by the possibility of arrest for her defiance. ‘Do not be afraid,’ she said.” In contrast to the type of incremental proposals for policy change that might typically be advanced by a political party trying to flex its institutional muscle, the young organizers put forward symbolically loaded demands designed to engender the broadest possible sympathy. Ultimately, they adopted a slogan that had already been made famous in nearby Tunisia: “The people demand the fall of the regime.” ‘We’ve been waiting for you!’ Instead of turning to established membership lists and mobilizing an already identified rank-and-file going deep with a small number of pre-recruited adherents the youth organizers went wide. Most of the people that turned out were taking part in demonstrations for the first time. Because of this, organizers’ predictions for who would show up were vague at best. Although they had scores of confirmations online and had done extensive word-of-mouth outreach, they could not be certain that more than a handful of people would actually come through. The experience of January 25 turned out to be a marvel. “This was my neighborhood, my home, and during my 10 years as an activist I had met hundreds of people in and around the activist community,” wrote Salah, another of the April 6 Youth Movement’s founding members, of the feeder march that formed in his neighborhood to head toward Tahrir Square. “Yet the streets were filled with men and women I had never seen. And they were leading chants! As I lifted my voice to join them, I thought to myself: My God! Where have you been? We’ve been waiting for you!“ For a time, the Egyptian media branded all youth organizing as the work of April 6. This reflected the group’s success in creating a type of mobilization that was less a concrete institution than an open movement, one with which people across the country could identify. According to Salah, the group had only a few dozen physical members as of early 2011, and yet a wide range of autonomous activity was popularly associated with the organization’s efforts. “It became the brand name,” Salah said. “We were successful in making it the icon of change.” Not only did the youth propel several early demonstrations that filled city squares in Cairo and beyond, they exerted lasting influence as the protests grew. When, several days in, groups such as the Muslim Brotherhood and National Association for Change led by the Nobel Laureate and former head of the International Atomic Energy Agency, Mohamed El Baradei finally decided to amplify a political eruption that was too large to ignore, these experienced actors showed deference to the methods and the messages that the young people had established from the outset. Foreign policy analyst Robert Dreyfuss explained, “When the Egyptian uprising began in January, the Muslim Brotherhood was not among the leaders. At the forefront of the movement were young Egyptians… joined by a panoply of secular, socialist, Nasserite, and pro-democracy groups, and eventually by Mohamed El Baradei.” The new groups that signed on overwhelmingly adopted the slogans and framing of existing revolt. As the revolution commenced, the reliance on momentum-driven organizing was not a limitation. Rather, April 6 and other youth groups were able to spark a contagious uprising precisely because they were not based on rigid structures. They did not have organizational assets that could be seized by the regime. They did not have established political turf to defend or sectarian interests that would make them be seen as a self-interested, partisan effort. They did not have structures that could be easily infiltrated. And so they could take on a broad-scale, symbolically loaded campaign, geared toward maximum support and maximum disruption. Certainly, on February 11, 2011, when authorities announced Mubarak’s resignation and the activists cried with joy in the square, storm clouds already loomed on the horizon. Over the next three years, the nonviolent insurgents would face a mountain of challenges, a resurgence in repression and the specter of counter-revolution. But for the moment, they accomplished something that few in the world could have predicted and something the best-organized group in the country could not: They unseated the tyrant who had ruled for longer than many of them were alive. They overthrew Mubarak. ‘We don’t know how to compromise’ Rallying mass public sympathy, bringing people onto the streets in staggering numbers by “breaking the fear barrier” as a popular expression among Egyptian activists puts it and ousting an entrenched regime are all remarkable accomplishments. They should be recognized as such by future movements, and their dynamics should be studied and the strategies mined. Yet, just as the momentum-driven organizing model of April 6 and other youth groups gave them disproportionate influence in shaping the uprising, the well-engineered structures of the Muslim Brotherhood proved critical in defining what would come next. The challenge after any mass uprising is to institutionalize the gains of disruptive power once a peak moment passes. Here the habits of structure-based organizing become very useful again. One such habit relates to how a movement presents its objectives. Momentum-driven groups thrive on broad, transformative demands that have symbolic resonance and can inspire support from the general public: “The people demand the fall of the regime.” In Egypt, this sweeping call to action created a crisis of legitimacy for Mubarak. But it was not nearly as effective in ensuring the rise of new leaders or new systems of governance. In contrast, groups like the Muslim Brotherhood specialize in pursuing transactional demands narrower, more incremental gains that play to their base and allow them to leverage the institutional power they have accrued. The conventional route to winning such demands entails horse-trading, insider access and compromise. It’s a famously messy process. Not surprisingly, the skills of political butchery and legislative charcuterie are not strengths for decentralized networks whose passion is energizing people who would have never before seen themselves joining a demonstration.
Wael Ghonim, the administer of the “We Are All Khalid Said” Facebook page and author of the book Revolution 2.0, took it as a point of pride that the site did not sink into the muck of party politics but instead focused on “universal” issues such as freedom and human rights. In the Oscar-nominated documentary The Square released in late January to coincide with the third anniversary of the revolution two youth leaders discuss how this became a problem after the fall of Mubarak: “Politics is not the same as a revolution. If you want to play politics, you have to compromise. And we’re not good at this… at all,” said Khalid Abdalla, a British-Egyptian activist and actor known for his role in The Kite Runner. “We don’t know how to compromise.” “We’re terrible at it,” agreed Ramy Essam, a musician who performed regularly before rallies in Tahrir, earning renown as the “singer of the revolution.” This was not the case for the Muslim Brotherhood. For its leaders, negotiating for institutional advancement in a post-revolutionary climate came naturally. With the framework for a political party already in place and an organized bloc of voters at the ready, the Brotherhood moved to the fore. While young liberals generally favored allowing time for the drafting of a constitution and the formation of new parties, the Brotherhood pushed for quick elections. Abdul-Fatah Madi, an Egyptian analyst writing for Al Jazeera, explained that prior to Mubarak’s defeat the youth-led factions “preoccupied themselves with acquiring knowledge on how to topple tyrannical regimes as well as spreading information about human rights violations.” But as the post-revolutionary transition began, they failed to “familiarize themselves with the intricacies of state-building and political projects that would serve as an alternative to the authoritarian regime.” The young people, Madi argued, showed an aversion to haggling over long-standing partisan demands, a disinterest stemming “from not wanting to participate in the decision-making process, which was dominated by old parties and the long-standing elite.” In the absence of a structured challenge by the secular revolutionaries, the Muslim Brotherhood dropped any pretense of a movement coalition. Six months after the revolution, it ordered its members out for mass rallies. The disciplined crowds chanted, “Islamic rule, Islamic rule,” and, “The Qur’an is our constitution.” The youth, the champions of momentum, had been outmaneuvered. ‘A new revolution all over again’ While Egypt’s predicament has some distinctive characteristics, it is not unique among recent upheavals that have unseated undemocratic governments. These include the “color revolutions” in the former Soviet bloc and the movement that forced Slobodan Milosevic from power in Serbia in 2000. As in Egypt, students played a critical role in leading quickly swelling mobilizations. But in all these cases, the youth were unprepared for later events. Matthew Collin, author of The Time of the Rebels, a study of these uprisings, writes that there “seemed to be no blueprint for what, if anything, these youth movements could achieve after their revolutions.” The leaders of some groups joined government agencies, some attempted to become political parties, and others tried to remain intact as outside watchdogs. But given that it is impossible to maintain high levels of mass mobilization forever, Collin explained, “In all cases, most of the rank-and-file activists simply drifted away. They could help to change their countries, but they found it harder to ensure that the politicians who came to power afterwards remained true to the principles they had espoused at the moment of revolution.” The momentum-driven efforts achieved some lasting changes such as the establishment of regular elections in Serbia but older elites were able to use their institutional strength to bore back inside the walls of power. Ideally, when structure-based organizing and momentum-driven movements are aligned, the two models can complement one another. Established groups that share the goals of a mass uprising can benefit from a burst of increased energy and interest in a shared cause. In turn, the more established organizations can lend their prestige and resources to outbreaks of resistance when they arise. This happened in Egypt when the Muslim Brotherhood decided to back the Tahrir revolt bringing microphones to the square, turning out its members, arranging garbage collection and when it joined the push for a coalition government. But when the constituencies split, when the secular revolutionaries were at odds with the Islamists, the army became the main beneficiary. The armed forces, which refused to crack down on behalf of Mubarak to wipe out the January 2011 uprising, were perceived as heroes after the revolution. The military thus emerged as the force that would control the structures of the old regime, and it would compete with the Muslim Brotherhood for dominance. Over the next year and a half, when the Supreme Council of the Armed Forces attempted to hold on to power, reinvigorated protests brandishing the slogan, “A new revolution all over again” forced them to cede to civilian rule. This allowed the Brotherhood’s Mohamed Morsi to take office as the country’s first democratically elected president in the summer of 2012. However, during his year in office, Morsi would grant himself ever-more-expansive powers, prompting a public backlash. Having already dethroned Mubarak and the Supreme Council, Egyptians took to the streets to rally against a third ruling power. Graffiti artists changed their stencils: those who once marked red Xs over spray-painted images of Mubarak began using cutouts of Morsi instead. In the summer of 2013, amid anti-government protests even larger than those that started the revolution, the military stepped in and forced the Muslim Brotherhood from power. At first, liberals were hesitant to call it a coup. But hopes for more open and pluralistic governance were once again thwarted. In following months, the army escalated repression, cracking down on both its Islamist and secular opponents. By the revolution’s third anniversary, when Amnesty warned of authorities “using every resource… to quash dissent,” things looked bleak indeed. ‘The revolution’s biggest victory’ Should we conclude from today’s vantage point that nonviolence has failed in Egypt? The challenges of establishing a more free and just social order after a revolution are hardly unique to nonviolent movements. They afflict all turbulent changes of state power. Studies have found that, in the past several decades, when a regime has been toppled, the post-transition states have been far more likely to become democratic when the transition was led by coalitions employing tactics of unarmed civil resistance strikes, mass boycotts and large-scale demonstrations. In the case of a guerrilla uprising against an undemocratic state, the chances of open and participatory government are far slimmer. Here, revolutionaries still have to fill the vacuum left by the old regime. But since the armed force that instigated the overthrow is usually the best-organized institution of the resistance, its hierarchical structures are primed to take over. The result, as in many post-colonial African states, is often a new military government. Since Morsi’s ouster, militant Islamist groups have carried out shootings and other attacks against government security forces including two high-profile bombings of the police headquarters in Cairo. Although the Muslim Brotherhood has issued statements condemning the attacks, the army has used the violence as occasion for a brutal crackdown on dissidents. In December, it declared the Brotherhood a “terrorist organization,” outlawed all participation in its protests, and froze the assets of at least 1,055 affiliated charities. Unfortunately, the pretext of a “war on terror” has allowed the military to retain considerable popular support. Some of those who took to the streets on January 25, 2011 may have been morally opposed to violence. But, as a whole, the people of Egypt opted for unarmed mass demonstrations over joining a guerrilla struggle for one simple reason: They believed strategic nonviolence was the more practical and effective means of ousting the heavily militarized Mubarak regime and achieving a more free and participatory society. The results of attacks by insurgents in the past six months, which have hardly served to weaken the army’s hand, suggest that the tactical judgment of nonviolent revolutionaries carried considerable wisdom. Despite current difficulties, the strategy of unarmed mobilization also contains hope for the future. Given the developments of the past three years, one might think that the revolution has been discredited in Egypt, that the Tahrir uprising might be denigrated or forgotten in the popular imagination. That is not the case. Instead, the revolution stands as a celebrated cultural touchstone. Rather than attacking it, each of the groups vying for power in the country tries to claim credit for ousting Mubarak and presents itself as the force that is carrying forward the true spirit of the revolution. This is true of the army, which, one reporter writes “wrapped its takeover not only in the flag, but also the original 2011 uprising.” When jailing secular revolutionaries or members of the Muslim Brotherhood, the military paints them as traitors to the popular cause. Emergency police state measures to combat terrorism, the generals contend, is the only way to preserve what they call the “glorious” revolution. Those who led momentum-driven mass mobilizations in Egypt have yet to solve the problem of institutionalization. Developing structures that can absorb the gains won by disruptive outbreaks will take time. Youth organizers now recognize this: In 2012, leaders of the April 6 Youth movement vowed to embark on a five-year plan to develop alternative institutions. At the same time, they also recognize that their uprising has unleashed a spirit of communal self-determination that cannot be easily subdued. “Our revolution’s weapon is our voice,” activist Ahmed Hassan explained to the filmmakers of The Square. “If you ask me, ‘What is the revolution’s biggest victory?’ It’s that today kids play a game called ‘Protest,’ where some kids are playing the revolutionaries and others play the police or army or Muslim Brothers. For his part, April 6 co-founder Ahmed Salah is now living in exile and dealing with the trauma of repression. “I feel that this is the worst time,” he said. “Most people have been brainwashed into thinking that the only way to save Egypt is through military rule.” And yet he reports that his pessimism is balanced by another impulse. “I also feel confidence,” Salah said. “Each group that has been in the leading position in the country has tried to retain power. Yet we Egyptians were able to bring down three regimes: Mubarak, the Supreme Council and the Muslim Brotherhood.” “What we did before,” he concluded, “we can do again.”
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