Originale: New Internationalist
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28 maggio 2014

Le rivolte sono positive per la democrazia?
di Vijay Prashad e Steve D’Arcy
Traduzione di Maria Chiara Starace

Il professore e scrittore Stephen D’Arcy  e lo storico e giornalista Vijay Prashad in un testa a testa.

Stephen

Le rivolte sono positive per la democrazia? I generale penso di sì. Però fatemi chiarire immediatamente. Le rivolte sono complesse, attività non coordinate di folla. Nessuno difende ogni atto commesso da ogni rivoltoso. Anche nelle rivolte motivate da aspirazioni ugualitarie democratiche, gli individui possono indulgere in attacchi indifendibili contro i passanti. Dovremmo rifiutare i reati nelle rivolte, come li rifiutiamo in altri contesti. Ma non possiamo lasciare che questo oscuri il fatto che degli scoppi di ribellione pubblica determinata possono spesso far cambiare l’equilibrio di potere tra le élite  governanti e la classe dei poveri e dei lavoratori che esse sfruttano e opprimono. La gente da lungo tempo respinta dai potenti, improvvisamente  diventa impossibile da ignorare, una volta che la loro insistenza di farsi sentire trova espressione negli scontri con l’ordine legale e la sua polizia.

Dopo le rivolte, gli stati spesso costituiscono delle “commissioni” designate a calmare la tensione. Si annunciano iniziative, si dà il via a programmi. Di solito queste fanno poco per migliorare l’interesse del pubblico, e giustamente consideriamo questi stratagemmi con occhio cinico. Tuttavia ci dicono qualcosa di importante: che ora dobbiamo tenere contro delle  rimostranze  a lungo ignorate; che ora è necessaria una strategia per indebolire la  nuova audacia di coloro che non sono più contenti di soffrire in silenzio.

E’ questa audacia che serve alla democrazia: quella di Stonewall, quella dei ragazzi brasiliani che si rivoltano per avere accesso all’istruzione, e i lavoratori del settore dell’abbigliamento in Bangladesh che dimostrano per un luogo di lavoro sicuro e un salario minimo. La loro ribellione mette i potenti sulla difensiva e crea un’apertura perché mettano radici altre forme più costruttive di organizzazione.  Per ribaltare la situazione  contro l’ingiustizia, abbiamo bisogno di movimenti che siano inarrestabili, in crescita  e con una base di partecipazione che si va ampliando. Le rivolte non sono una sostituzione di  questa opera. Però, nella misura in cui  esse  consentono a chi è stato zittito e ignorato di trovare la loro voce, le rivolte sono una parte importante delle politiche democratiche.

Vijay

La questione deve essere più sfumata. La stessa democrazia deve essere radicata nella sua camicia di forza  capitalista. Le rivolte non avvengono perché si vuole che avvengano. Sono una conseguenza del capitalismo. Non le esalto. Semplicemente riconosco che accadono.

Uno dei grandi risultati del marxismo è stato di stabilire, scientificamente, che l’ordine sociale capitalista è strutturato attorno alla violenza di classe, che una piccola percentuale della popolazione controlla il Capitale e che il resto deve vendere la sua forza lavoro alla minoranza sotto forzatura, è il cuore delle relazioni sociali nel nostro sistema attuale. Il capitale ha il diritto di comprare la forza lavoro al suo prezzo, così come la forza lavoro  ha il diritto di aumentare il suo prezzo. Entrambi hanno uguali diritti. Quando i diritti sono uguali, scrive Karl Max, ‘la forza decide’.

La violenza è insita nel sistema. E’ insita anche strutturalmente –  chi perpetua la violenza è anonimo. Al contrario delle precedenti epoche sociali quando era facile identificare il colpevole (il monarca, il signore feudale, il prestasoldi), è molto più difficile nel capitalismo. Le insurrezioni di massa nell’epoca capitalista, hanno, perciò un carattere diverso dalle insurrezioni di massa nei tempi precedenti. Queste sono spesso esplosioni di rabbia contro un sistema insondabile; il migliore esempio di questo è il Caracazo venezuelano del 1989.*

La dominazione sociale anonima non dorme serena dietro muri segreti. Si arma. Ecco è il motivo per cui il Caracazo è stato stroncato: innumerevoli morti. Il Caracazo è stato un messaggio dai quartieri poveri che ne aveva avuto abbastanza. Questa è stata la sua capacità. La rivolta non poteva fare più di questo.

La risposta alle rivolte non sta nelle commissioni statali, ma nei movimenti politici. Le rivolte sono un messaggio. Non sono la risposta.

Stephen

Considera i due modi in cui le rivolte sono state discusse, nel corso degli anni. Da una parte, c’è il discorso dello ‘ordine pubblico’ riguardo  alle rivolte,  diffuso tra la polizia, i politici e la stampa, secondo i quali le rivolte sono una specie di violenza irrazionale di gruppo. In base a questo punto di vista, la democrazia deve essere salvaguardata dai rivoltosi senza legge e distruttivi, che non contribuiscono a nulla se non a minacciare l’ordine e la sicurezza da cui dipende la politica democratica.

Dall’altra parte, tuttavia, c’è quello che si definirebbe un discorso di ‘responsabilizzazione del pubblico’ sulle rivolte, secondo il quale le folle che si ribellano sono generalmente popolata da persone guidate dalla ragione, moralmente perspicaci, che difendono  livelli comunitari di decenza e onestà di fronte a sistemi di potere che sono indifferenti al bene comune. Chi sta dietro a questa seconda concezione – principalmente storici  come Eric Hobsbawm, E.P. Thompson e George Rudé – considerano i rivoltosi non come una minaccia alla democrazia, ma come una forza per intensificarla e difenderla.

Non è proprio che il secondo punto di vista è generalmente quello corretto, anche se sono convinto che lo sia. Più essenzialmente, entrambi questi discorsi partono dall’idea che le rivolte avranno pochi difensori di fronte alla repressione e alla penalizzazione, a meno che non venga rifiutata l’accusa che le rivolte indeboliscono la politica democratica. Quando i rivoltosi motivati dalla giustizia devono affrontare la denigrazione e il controllo    brutale, la nostra posizione dovrebbe essere supportata

dall’opinione di Martin Luther King: “la rivolta è la lingua di coloro che non vengono ascoltati”. In altre parole, dovremmo prendere le difese dei rivoltosi per lo stesso motivo per cui difendiamo gli scioperanti, i dimostranti e i dissidenti: perché essi aiutano ad assicurare quella che King chiamava “una voce per chi non ha il diritto di esprimere la propria opinione”. Le rivolte fanno parte del repertorio della gente di interventi ribelli in politica, senza i quali coloro che vengono zittiti e ignorati non godrebbero mai di un’opportunità, per quanto effimera,  di porre le loro rimostranze al centro della vita pubblica.

Vijay

Apprezzo la tua insistenza sul fatto che le rivolte siano utili alla democrazia. Penso, tuttavia, che insistendo in questo modo, ti stia generalizzando un contesto molto ristretto. Dici che le rivolte ‘sono state discusse’ in due modi: come problema di ordine pubblico (le rivolte sono negative) e come problema di responsabilizzazione del pubblico (le rivolte sono positive). Questi però non sono gli unici due modi. In molte parti del Sud globale, le rivolte sono considerate anche come il mezzo politico con cui i padroni politici mettono  in moto i loro clienti per creare il caos come modo per dividere società politiche fragili; gli esempi come quelli dell’India e dell’Egitto sono infiniti.

Queste sono rivolte di populismo autoritario, dove il potere politico gerarchico si maschera da agitazione popolare per mitigare l’agitazione politica unificata che arriva dal basso. Quando i movimenti democratici cominciano a crescere e a minacciare il potere di classe, la rivolta diventa un mezzo per raffreddare la fiducia della gente e per mantenere l’apparato di sicurezza conto il cambiamento progressista.

Nel Nord globale, le cose sono diverse: dove la società si è frammentata, e la capacità di un’azione politica comune si è esaurita, la rivolta è forse l’ultima risorsa. Ma anche nel Nord globale è la rivolta quella che è l’affermazione politica più gradita dalla classe governante, perché è quella più facile da sedare ed è il modo migliore per togliere la legittimità alle genuine lagnanze politiche di fronte al resto della gente. Non sarebbe meglio per la strategia politica al Nord riconoscere l’opera delle rivolte, ma lavorare sodo per costruire altri tipi di strade politiche per creare il potere dei molti contro quello dei pochi? Certamente questo è più utile che semplicemente festeggiare la rivolta – intrinsecamente maschile per sua natura – come  ‘parte del repertorio popolare di interventi ribelli’?

Stephen

Penso che tu faccia due considerazioni: che le rivolte nel sud globale siano spesso usate a servizio del populismo anti-democratico, e che nel nord siano spesso gradite alla classe dirigente come occasione di screditare i movimenti di opposizione.

La prima considerazione è corretta, nei limiti della sua enunciazione. Le rivolte non sono intrinsecamente positive per la democrazia. Come altre forme di protesta, possono essere usate in maniera positiva o negativa. Tuttavia, nella misura in cui sono intraprese da coloro che vengono zittiti e ignorati allo scopo di trovare la loro voce e di ottenere l’occasione di farsi sentire, devono essere bene accette. Penso che questo valga tanto nel sud globale quanto in qualsiasi altro posto.

La tua seconda considerazione sembra fuorviante. Come ho detto in precedenza, non propongo le rivolte al posto della costruzione di movimenti popolari. Tuttavia non hai ragione quando suggerisci che la classe dirigente nel nord globale accoglie volentieri  le rivolte dal basso (preferendole, almeno, ad altre forme di protesta). Se fosse così, perché userebbero l’intimidazione come deterrente delle rivolte ai “vertici” prima che inizino? No, i tentativi di criminalizzare e di demonizzare i rivoltosi, e di usare l’occasione di una rivolta come pretesto per una vigilanza aggressiva e per la propaganda contro i rivoltosi, sono capite al meglio come modi con i quali le élite ricavino il meglio da una situazione negativa. La stessa cosa succede durante gli scioperi o altre forme di opposizione. I potenti cercano di trarre vantaggi dalla resistenza, sfruttando i conflitti e la tensione che produce. Preferirebbero però di gran lunga una arrendevole docilità  – o qualcosa di simile – rispetto alle rivolte, anche se questo atteggiamento offre loro, come consolazione, immagini da sfruttare in una guerra di propaganda.

Questo punto è importante perché l’ansia davanti alla prospettiva delle rivolte che in varia misura perseguita i palazzi del potere, deve essere mantenuta e ravvivata : è una delle salvaguardie contro i peggiori eccessi del governo antidemocratico.

Vijay

Il tuo atteggiamento cavalleresco riguardo alle rivolte rivela un punto di vista che non ha considerato che cosa queste possono fare. Da giovane dottorando e giornalista, ho fatto servizi sulle rivolte avvenute  nei quartieri  periferici di Delhi nel 1992-93 dove gli uomini di caste oppresse  trovavano la loro politica splendere del sangue dei loro vicini musulmani. Questo era una rivolta: provocata dalle classi governanti, imposta ai poveri. Tu suggerisci che anche queste potrebbero essere positive per la democrazia. Sono esterrefatto. O non sai nulla della grammatica della politica al di fuori del Nord America, oppure credi che queste azioni di rabbia orchestrate siano positive. Nella prima ipotesi ti suggerisco di usare un linguaggio un po’ meno universale per i tuoi pareri. Se è vera la mia seconda ipotesi, resto senza parole.

Dove la politica è frammentata, le rivolte sono inevitabili. Dove la società non è spezzettata come lo è in Occidente, le rivolte sono più spesso strumenti delle classi governanti rispetto a  qualsiasi altra cosa. Qui esistono altri meccanismi per dare voce agli oppressi, altri modi per farsi sentire.


Vijay Prashad ha la Cattedra intitolata a Ewdard Said  a Beirut. Di recente ha scritto il libro: The Poorer Nations: A Possible History of  the global South (Verso, uscito ora in edizione tascabile)  [Le nazioni più povere: una possibile storia del Sud globale].

Stephen D’Arcy è professore associato al Dipartimento di Filosofia al College Huron, dell’Università  dell’Ontario, Canada. E’ autore del libro: Languages of the Unheard: Why Militant Protest is Good for Democracy, [Le lingue degli inascoltati: perché la protesta militante è utile alla democrazia] and curatore (con altri)  del libro in via di pubblicazione : A Line in the Tar Sands: Struggles for Environmental Justice [Una linea nelle sabbie bituminose: lotte per la giustizia ambientale].


http://it.wikipedia.org/wiki/Caracazo

http://it.wikipedia.org/wiki/Moti_di_Stonewall

Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://zcomm.org/znetarticle/are-riots-good-for-democracy

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