Fonte: la Jornada I nuovi-nuovi movimenti sociali Erano i “nuovi” movimenti, quelli nati durante l’agonia delle dittature sudamericane e cresciuti sotto il neoliberismo. Oggi sembrano aver concluso il loro ciclo storico: alcuni si sono istituzionalizzati, altri misurano un lento declino, altri ancora hanno lasciato orme profonde e continuano a ispirare chi vuole cambiare il mondo. È già nata, intanto, un’altra, nuovissima generazione di movimenti. Tra i tratti più riconoscibili, l’influenza delle femministe e degli indigeni e la mancanza di apparati e dirigenti permanenti. Lo Stato non sembra più un riferimento importante, c’è una nuova cultura politica e si prova a costruire un mondo nuovo. In un libro classico e monumentale, Theda Skocpol http://en.wikipedia.org/wiki/Theda_Skocpol analizza le tre grandi rivoluzioni (francese, russa e cinese) in un’ottica centrata sugli stati, la loro disintegrazione e la ricostituzione post-rivoluzionaria. Con Stati e rivoluzioni sociali: un’analisi comparata di Francia, Russia e Cina (Il Mulino, 1981), Skocpol mette sotto la lente di ingrandimento il modo in cui i processi rivoluzionari hanno deteriorato e modificato le istituzioni. Per quelli di noi che si sono formati con Marx, la studiosa della Harvard University giunge a conclusioni scomode. Dopo un minuzioso confronto tra i tre processi, Skocpol conclude che in tutti e tre lo Stato ha occupato un ruolo centrale, ma che i mutamenti statali avvenuti non possono essere spiegati in funzione dei conflitti di classe. Colpisce il “potere autonomo” degli Stati, non riconducibile a nessuna delle classi sociali ma neppure neutrale rispetto ad esse. L’aspetto più attuale della sua analisi consiste in tre conclusioni esposte nella parte finale del lavoro. La prima è che le rivoluzioni non avvengono a causa delle attività decise dalle avanguardie; Skocpol cita a sostegno della sua tesi il militante antischiavista Wendell Phillips http://www.spartacus.schoolnet.co.uk/USASphillips.htm: “Le rivoluzioni non si fanno, vengono da sole”. La seconda è che la disintegrazione degli Stati del vecchio regime ha attivato il detonatore del conflitto sociale che si è tradotto nell’espropriazione delle classi dominanti. Per modificare le relazioni fra le classi, evitare il successo della controrivoluzione e neutralizzare le stabilizzazioni liberali, l’irruzione de los de abajo (di quelli in basso, ndt) è stata decisiva. La terza conclusione è che “dalle tre rivoluzioni sono nati Stati più centralizzati, burocratici e autonomamente potenti all’interno e all’esterno”. All’interno, “i contadini e gli operai sono rimasti più direttamente legati alla politica nazionale e ai progetti sostenuti dallo Stato”. L’analisi storica è incontestabile, realista e incisiva. Altra cosa è che risulti gradita a quanti di noi continuano a pensare che lo Stato sia una macchina oppressiva e aspirano seguendo Marx e Lenin alla sua “estinzione”. Ciò che ci segnala l’autrice è che le forze antisistemiche erano organizzate in modo gerarchico, con una distribuzione del potere interno che era “calco e copia” delle istituzioni statali, e che portavano dal di fuori il sapere ai soggetti ribelli. Skocpol non rileva invece che gli Stati nati dalle rivoluzioni si sono trasformati col tempo in macchine di dominazione, molto simili a quelli che avevano sostituito, fino al punto che si è potuto paragonare il regime di Stalin a quello di Pietro il Grande, e i funzionari comunisti cinesi ai mandarini imperiali. L’ultimo ciclo di lotte nel semicontinente sudamericano sembra confermare la tesi di Scokpol: gli Stati sono stati debilitati dalle privatizzazioni neoliberiste, questo ha fatto esplodere il conflitto sociale che ha condotto al governo le forze progressiste le quali hanno chiuso il ciclo con il rafforzamento degli Stati. Parallelamente, i “nuovi” movimenti hanno concluso il loro ciclo storico: sono nati nella fase finale delle dittature, sono cresciuti sotto il neoliberismo, si sono istituzionalizzati e sono entrati in un lento declino. Però i movimenti che sono stati protagonisti di questo ciclo erano diversi da quelli che li avevano preceduti, il cui esempio e modello erano stati i sindacati tradizionali. Non tutti si sono piegati ai nuovi modi di governare ed alcuni continuano a seguire percorsi propri, mostrando che la storia non è un cammino tracciato dalle logiche strutturali. Sebbene non abbiano potuto rompere completamente con le vecchie culture politiche centrate sullo Stato, si sono spinti più avanti rispetto alla generazione dei movimenti precedenti e hanno lasciato impronte profonde che continuano a essere un punto di riferimento. Negli ultimi anni sta nascendo una nuova generazione di movimenti che si differenzia non solo dai vecchi ma anche dai “nuovi” movimenti. In varie occasioni abbiamo citato il Movimento Pase Libre (Mpl) del Brasile e l’Assemblea di Coordinamento degli Studenti delle Scuole secondarie (Aces) del Cile. Non sono gli unici, anche se forse sono i più noti. Il movimento contro l’industria mineraria in Perù può essere incluso in questo gruppo, come pure il Movimento Popolare La Dignidad in Argentina, e altri che non c’è spazio per ricordare. Alcuni sono nati tempo fa, come il Mpl, con caratteristiche nuove, sia per la cultura politica (autonomia, orizzontalità, federalismo, consenso, a-partitismo) sia per le forme di azione che impiega. Altri movimenti si sono reinventati o rifondati nei processi di resistenza. I Guardiani delle Lagune peruviani sono nati dalle Ronde Campesine, organizzazioni di difesa a livello della comunità create negli anni Settanta. Fra i “nuovi” e i più recenti, i nuovi-nuovi, esiste una notevole diversità di cultura politica: questi ultimi non hanno come riferimento lo Stato, col quale possono tenere dialoghi o negoziati, né riproducono al loro interno le forme gerarchico-patriarcali. I Guardiani delle Lagune si ispirano alle comunità andine http://comune-info.net/2013/03/la-nuova-resistenza-andina/; gli studenti cileni e i giovani brasiliani alle loro modalità di vita quotidiana nelle periferie urbane, ai loro gruppi di socializzazione e di affinità, all’hip-hop, alle diverse culture giovanili nella resistenza. Non hanno creato strutture-apparati, né hanno incoronato dirigenti permanenti al di sopra dei collettivi. Sono movimenti nati dopo le dittature (i nuovi erano nati contro l’autoritarismo) e ricevono l’influenza di due movimenti che sono emersi negli ultimi decenni nel continente: quello femminista e quello indigeno. I nuovi-nuovi movimenti si nutrono delle loro varianti più antisistemiche: i femminismi contadini e popolari, i femminismi comunitari e indigeni; condividono con un settore del movimento indio la vocazione autonomista, l’aspirazione a cambiare il mondo al di fuori dello Stato e a creare istituzioni post-statali, come le Giunte di Buon Governo (zapatiste, ndt). Si organizzano per costruire un mondo nuovo, non per infilarsi nelle istituzioni. Incarnano la possibilità concreta della fioritura di una nuova cultura politica che agisca affinché i cambiamenti avvengano dal basso.
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo. In Italia ha collaborato per dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. Il suo ultimo volume è uscito per ora in Messico, Cile e Colombia ed è intitolato Brasil potencia. Altri articoli di Zibechi suon qui.
|
|