Fonte: la Jornada Il massacro come forma di dominio
Non si tratta di sporadici eccessi e non è nuova la crudeltà degli attuali conquistadores. È un modello di dominazione che ha profonde radici storiche e fa del massacro il mezzo per intimorire le classi popolari affinché non escano dal copione scritto da quelli che stanno in alto. Negli ultimi decenni viene anche chiamato “democrazia”: si vota una volta ogni cinque o sei anni e, per il resto del tempo, bisogna farsi derubare o assassinare rimanendo fermi e sgomenti al proprio posto. In Messico, in Brasile, in Colombia, in Guatemala e in tutta l’América Latina, come ai tempi della Corona di Spagna, vengono scritte con l’orrore e il sangue le pagine della guerra coloniale dei giorni nostri, quella per diventare o restare padroni della terra, dell’acqua e di ogni altro bene comune. Non dobbiamo lasciare che le lacrime annebbino la nostra ricerca di un nuovo cammino
Mentre sosteneva il Premio Tata Vasco 2014, assegnato a Puebla dall’Università Iberoamericana a Fuerzas Unidas por Nuestros Desaparecidos en Mexico (Fundem), uno dei pochi maschi nel gruppo dei 25 familiari presenti all’evento, ha gridato “Questa è una guerra”. Il dolore inimmaginabile dei familiari li costringe a guardare diritta in faccia la realtà che è causa della loro sofferenza. In effetti, c’è una guerra contro i popoli. Una guerra coloniale per appropriarsi dei beni comuni, che presuppone l’annichilimento di quei settori dell’umanità che ostacolano la rapina di questi beni, perché vivono su quegli stessi territori, perché resistono all’espropriazione o, semplicemente, perché sono “di troppo”, nel senso più crudo del termine: sono superflui ai fini dell’accumulazione della ricchezza. È una guerra coloniale anche per il tipo di violenza che utilizza. Non ci si limita a uccidere. Si decapita e si smembrano i corpi affinché le parti vengano viste dalla popolazione, come monito e avvertimento. Per incutere paura. Per paralizzare, per impedire qualsiasi reazione, specialmente le azioni collettive. Non è una tecnica nuova. Venne utilizzata dalla Corona spagnola per annientare le lotte indigene. È stato lì che i nuovi colonizzatori l’hanno imparata. Túpac Amaru fu squartato vivo davanti alla folla radunata nella plaza de armas di Cuzco. Amaru fu costretto ad assistere alla tortura e all’uccisione dei suoi due figli maggiori e della sua sposa, nonché di altri familiari e amici. Prima di morire furono torturati e gli tagliarono la lingua, tutto un simbolo di ciò che veramente ossessionava i conquistadores. Il figlio minore, di soli 10 anni, fu obbligato ad assistere alla tortura e alla morte di tutta la famiglia, per poi essere deportato in Africa. La testa di Amaru venne infissa su una lancia ed esibita prima a Cuzco e poi a Tinta, le braccia e le gambe mandate per città e paesi come monito ai sostenitori. Túpac Katari e i suoi seguaci subirono più o meno gli stessi tormenti e i loro resti furono disseminati nei territori di quella che oggi è la Bolivia. Non è nuova la crudeltà dei nuovi conquistadores. Allora si trattava di impadronirsi dell’oro e dell’argento; oggi sono l’industria mineraria a cielo aperto, le monocolture e le centrali idroelettriche. In sostanza, però, si tratta di continuare a costringere quelli che stanno in basso a rimanere in silenzio, sottomessi e innocui. Il massacro è la genealogia che distingue la nostra storia da quella europea. Qui i mezzi per mantenere la disciplina non sono stati né il panoptikon né il satanic mill, “la fabbrica del diavolo” della Rivoluzione Industriale e dello sfruttamento capitalista, descritta dal poeta William Blake e analizzata con rigore da Karl Polanyi. La recinzione dei campi, “una rivoluzione dei ricchi contro i poveri”, attuata in Inghilterra a partire dal XVI secolo, viene considerata come la violazione da parte dei signori e dei nobili degli antichi diritti e delle usanze, [attuata] “usando in alcuni casi la violenza e quasi sempre le pressioni e le intimidazioni” (“La gran transformación”, La Piqueta, p. 71, il corsivo è dell’autore). Qui la violenza è stata, ed è, la norma, il modo per eliminare coloro che si ribellano (com’è successo nel 1907 a Santa María de Iquique, in Cile, quando furono massacrati 3.600 minatori in sciopero). È il modo per dire a quelli in basso che non devono muoversi dal posto che è stato loro assegnato. Qui abbiamo avuto, e abbiamo, schiavitù; niente che assomigli al “libero lavoratore” che ha contribuito allo sviluppo del capitalismo europeo nel rubare le terre ai contadini. Va notato che nelle guerre d’indipendenza tra creoli e spagnoli, gli insorti fatti prigionieri dai realisti non venivano torturati. Miguel Hidalgo e José María Morelos, per citare importanti ribelli creoli, vennero processati e in seguito fucilati, come si faceva a quel tempo con i prigionieri di guerra. Solamente il colore della pelle spiega il diverso trattamento subito da Túpac Katari e da Túpac Amaru, così come dagli indios, dai neri e dai meticci della nostra America. Non è solo storia. Nel Brasile democratico, l’organizzazione Madri di maggio, tra il 1990 e il 2012, conta 25 massacri, tutti di neri e meticci, come quello che ha dato origine alla sua militanza: nel mese di maggio del 2006, nell’ambito della repressione contro il Primeiro Comando da Capital de Sao Paulo (narcos che si erano organizzati nelle carceri), tra le 10 della sera e le 3 del mattino furono assassinati dalla polizia 498 ragazzi poveri, tutti maschi di età compresa tra i 15 e i 25 anni. Il narco è il pretesto. Il narco non esiste. Non sono altro che gli affari che fanno parte dei sistemi usati dalla classe dominante per accumulare/rubare. Non ci troviamo di fronte a sporadici “eccessi” polizieschi, bensì a un modello di dominazione che fa del massacro il mezzo per intimorire le classi popolari affinché non escano dal copione scritto da quelli che stanno in alto e che viene chiamato democrazia: votare una volta ogni cinque o sei anni e per il resto del tempo farsi derubare/assassinare. La cosa peggiore che possiamo fare è non guardare in faccia la realtà, fare come se la guerra non esistesse, perché non ti hanno ancora colpito, perché ancora sopravviviamo. Questo è contro tutti e tutte. Di certo c’è una parte che ancora può esprimersi liberamente, e perfino manifestare, senza essere annientata. Sempre che non si esca dal copione previsto, che non mettiamo in discussione il modello esistente. A ben vedere, chi tra di noi può manifestare a volto scoperto, assomiglia ai creoli delle guerre d’indipendenza, a chi può sperare in una morte dignitosa, come Hidalgo e Morelos. Tuttavia la questione è un’altra. Se vogliamo veramente che il mondo cambi, e non vogliamo servirci della resistenza di quelli che stanno in basso per arrampicarci verso l’alto, come hanno fatto i creoli nelle repubbliche, non possiamo accontentarci di truccare la realtà. Dobbiamo prendere altre direzioni. Forse un buon inizio potrebbe essere proseguire sui passi dei sostenitori di Amaru e Katari. Rimettere insieme i corpi fatti a pezzi per riprendere il cammino dal punto in cui la lotta è stata interrotta. È un momento mistico: guardare in faccia l’orrore, elaborare il dolore e la paura, andare avanti tenendosi per mano, affinché le lacrime non annebbino il cammino. Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada.
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