Originariamente comparso su The Fielder L’Europa della pace assediata da quattro guerre Nell’estate che va concludendosi, l’Europa ha commemorato il centenario dello scoppio della Grande Guerra e i settant’anni dello sbarco in Normandia assistendo al divampare di quattro guerre appena fuori dai suoi confini. Alla liturgia delle celebrazioni si è sovrapposta la drammatica realtà di quattro guerre (Gaza, Iraq, Libia e Ucraina) che assediano il continente lungo quasi tutto il perimetro delle sue frontiere terrestri, dalla sponda Sud del Mediterraneo alle sconfinate pianure dell’Est. A cento anni dall’attentato di Sarajevo, l’Europa della pace si riscopre inseguita dallo spettro della guerra. La concatenazione di eventi seguita all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdindando trascinò gli Stati europei in una spirale bellica che finì per distruggere l’ordine costituito. Il Vecchio Continente perse il posto al centro del mondo spianando la strada al secolo americano o, per dirla con Hobsbawn, al secolo breve. Dei cinque trattati che definirono la pace del 1918, quello di Versailles ebbe come conseguenza l’incubo nazifascista. Arriverà il giorno in cui gli storici considereranno la Prima e la Seconda Guerra Mondiale come un unico conflitto, interrotto da un lungo armistizio. Dopo il 1945, l’Europa risorse dalle sue macerie grazie al Piano Marshall e all’idea di riunire i vecchi belligeranti sul piano economico e politico, al fine di garantire una pace duratura. La minaccia sovietica era sempre presente, ma nel complesso noi europei abbiamo goduto di pace e di una crescita economica pressoché ininterrotta. La Storia però ci attendeva al varco, in attesa che il seme dei nostri errori lasciasse germogliare i suoi frutti avvelenati. Finita la contrapposizione tra i blocchi, l’immagine onirica della pace perpetua fu spazzata via dal brusco risveglio di un mondo fuori controllo. Tensioni latenti e e/o ignorate, lungo latitudini vicine e lontane, esplosero in crisi e violenze più o meno estese. Tutti i limiti di pensiero e d’azione dell’Europa di Maastricht e più in generale della comunità internazionale vennero a capo. Jugoslavia (dalla Krajna al Kosovo, passando per Sarajevo), Somalia, Afghanistan, Iraq, Libano, Libia, Siria e Gaza (due volte), senza dimenticare il genocidio in Ruanda, sono state le tappe di un ventennio in cui la pace era l’eccezione. L’Europa alzava le mani di fronte ad un mondo con le armi in pugno. Ecco un primo paradosso: nei quarant’anni della Guerra Fredda, quando la minaccia di un terzo conflitto globale era un pericolo concreto, in Europa ha regnato la pace; dalla caduta del Muro di Berlino ad oggi, invece, il Vecchio continente assiste ciclicamente all’insorgere di conflitti di cui non sa comprendere le ragioni prima e cui non riesce a proporre soluzioni dopo. Lontana nel tempo, la guerra ci appare remota anche nello spazio perché la immaginiamo confinata in luoghi esotici. E invece la scopriamo drammaticamente vicina quando i suoi effetti si presentano sotto i nostri occhi, come le orde di profughi che giungono sulle nostre coste (nostre di chi? D’Italia o d’Europa?) o l’abbattimento di un aereo di linea in Ucraina. Ti senti al sicuro perché la guerra è al di là del tuo orizzonte, eppure Bengasi dove gli islamisti hanno proclamato un emirato si trova a un’ora e mezza di volo da Roma. E a proposito di volo, la guerra non è poi così lontana nemmeno quando la sorvoli a diecimila metri d’altezza: un missile terra-aria può raggiungerti anche lassù, in pochi, pochissimi secondi. Tornando sulla terra, quello che sta succedendo in Iraq non ha precedenti nella storia. Un Paese che una volta rappresentava il vertice delle conquiste umane nella civiltà, oggi riassume i peggiori fallimenti politici locali, regionali e globali di cui la miopia della comunità internazionale può dirsi responsabile. Iraq, terra di errori e orrori. Le atrocità dell’ISIS fanno eco alle sue conquiste sul campo. Saremmo tentati di iscrivere al-Baghdadi e soci nella rubrica dei soliti fanatici barbuti e ignoranti che ammazzano e distruggono in nome di Dio, ma sarebbe fin troppo banale. Il primo messaggio dell’autoproclamatosi Califfo è del luglio 2012: prima di assurgere a Stato Islamico, dunque, l’ISIS aveva preparato l’offensiva per due anni, pensando alla logistica e ai finanziamenti prima ancora che a fare proseliti. Due anni in cui gli Stati Uniti erano altrove e l’Europa, intesa come attore globale, semplicemente non era. Laddove ieri abbiamo “esportato” la democrazia, oggi c’è il Califfato. Negli anni della caccia a bin Laden, i combattenti islamisti che ne vaneggiavano la rinascita ci sarebbero parti non meno “eroici” (e perciò patetici) dei giovani fascisti che sognavano di ricreare l’Impero Romano. Eppure l’ISIS il Califfato l’ha rifondato davvero; a Bengasi c’è un emirato; in Nigeria, Boko Haram governa territori che sfuggono al controllo dell’esercito regolare; in Somalia, un emirato l’ha proclamato anche al-Shabaab; a Gaza, Hamas controlla praticamente uno Stato parallelo. Non aspettiamoci buone novelle, giacché il pericoloso legame tra la maggioranza sunnita siriana e la minoranza sunnita irachena provocherà una spaccatura della Siria dopo aver generato quella dell’Iraq. Siamo ancora sicuri che l’idea di una nuova alba dell’impero maomettano sia da prendere così alla leggera? Facendo un nuovo salto all’indietro, dei cinque trattati scaturiti dalla Grande Guerra, la medaglia d’argento per volume di danni prodotti spetta a quello di Sèvres. L’intesa decise la spartizione del Medio Oriente tra Londra e Parigi, e gli Stati che ne nacquero tra cui, appunto, Iraq e Siria videro i propri confini tracciati con righello e squadra, senza troppo riguardo per le esigenze dei popoli che vi rimasero dentro o fuori. In Medio Oriente, il pericoloso legame tra la maggioranza sunnita siriana e la minoranza sunnita irachena provocherà una spaccatura della Siria dopo aver generato quella dell’Iraq; pertanto la riunificazione di due Paesi creati artificialmente dagli Imperi britannico e francese all’indomani del 1918 non sembra più possibile. Nei territori che furono oggetto di colonizzazione, le potenze europee cercarono d’imporre e consolidare barriere tra i territori e distinzioni artificiali tra i gruppi etnici. Oggi, molti di questi confini rischiano di sfaldarsi sotto pressione delle dinamiche antropiche sul campo. In principio è stata la Linea Durand tra Afganistan e Pakistan; oggi, l’accordo SykesPicot tra Iraq e Siria. Quale sarà il prossimo limite a essere messo in discussione? Quello tra India e Pakistan, lungo il quale sono state combattute tre guerre e dove recentemente si è ricominciato a sparare? Per la cronaca, tutti e tre sono opera degli inglesi. Anche la Libia è stata creata artificialmente. Essa è un’invenzione italiana, nata dall’unione forzata tra una Tripolitania di estrazione magherbina (sulla quale la Francia ci lasciò via libera nel 1902) e una Cirenaica affine all’Egitto (occupata al termine della guerra con i Turchi) in un connubio che avrebbe resistito per ben cento anni. La caduta di Gheddafi, in gran parte frutto delle oscure manovre anglofrancesi poi mascherate dall’ufficialità di un intervento Nato, ha rotto questo equilibrio gettando il Paese nell’anarchia. Se il grande incubo europeo, ancor prima che lo sbarco di centinaia di migliaia di disperati, era la balcanizzazione della Libia, possiamo dire di aver fatto del nostro meglio nel realizzarlo. La secessione de facto di Bengasi è solo il primo passo verso una possibile infiltrazione del fondamentalismo islamico nel Vecchio Continente. Il termine “Balcanizzazione”, qui usato in riferimento al Medio Oriente, ci ricorda che la guerra c’è stata anche nel cuore d’Europa con la deflagrazione della Jugoslavia. A vent’anni di distanza, i cannoni tuonano di nuovo ai nostri confini, precisamente in Ucraina. Ad Est di Kiev è in corso una guerra civile di cui al momento è arduo presagire la fine. L’obiettivo di Putin è chiaro: reintegrare nella sfera d’influenza russa tutti i Paesi che fecero parte dell’Urss prima che la Ue e la Nato vi appongano la propria ipoteca. Meno chiaro è l’obiettivo di Bruxelles, che non sa ancora bene cosa vuol fare: per accogliere gli ucraini siamo veramente disposti a rinunciare al commercio da e per la Russia? La stella di Kiev accanto alle altre 28 già presenti sulla bandiera a sfondo blu vale il prezzo di una rottura con Mosca? L’Unione non sa rispondere, perché un’unione non c’è. Troppi gli interessi particolari dei singoli Stati, troppi i legami a doppio filo che si accavallano al di qua e al di là di quella che una volta chiamavamo Cortina di ferro. La carrellata delle ostilità si conclude a Gaza, dove Israele e Hamas si scontrano per la seconda volta negli ultimi cinque anni. Al di là delle ragioni politiche e, se vogliamo, antropologiche che lo sottendono, quello arabo-israeliano ha la caratteristica di essere il conflitto più ideologizzato che esista. Nessun altro capitolo di politica internazionale scatena le passioni in modo altrettanto accalorato; non si può esprimere un’opinione su cause ed effetti senza vedersi incasellare nell’una o nell’altra parrocchia. E col dibattito alla mercé delle tifoserie, incoraggiare una riflessione matura è impresa impossibile. Dei quattro conflitti, qual è il più minaccioso per l’Europa? In sintesi, tutti: la Libia dal punto di vista geografico, Gaza da quello storico (è il più longevo), l’Ucraina sotto l’aspetto politico (ci contrappone a Mosca) e l’Iraq per la sicurezza (il jihadismo cresce e si avvicina). Nel caso dell’Italia, invece, la risposta è univoca: la Libia, per storia, geografia, politica e sicurezza. Grandi spazi richiedono grandi potenze che vi mettano ordine, ma l’Europa della pace ha dimenticato come si fa a fermare una guerra. Ecco un secondo paradosso, la cui conseguenza è che Bruxelles e i 28 membri si gettano nella mischia talvolta sotto le mentite spoglie di missioni umanitarie o non fanno nulla. Tertium non datur. Ridurre tutto all’opzione di armare i curdi in Iraq o di infliggere alla Russia delle sanzioni che danneggerebbero anche noi significa alzare le braccia per mancanza di idee; è rinunciare al onore-onere di proporre e agire su e per la politica internazionale. L’Italia , da questo punto di vita, è messa anche peggio, con la politica estera di Renzi la cui alfa e l’omega si riduce alla capricciosa battaglia per far eleggere Federica Mogherini a capo di una politica estera europea che non c’è né mai potrà esservi. E pensare che l’Europa, intesa come Unione fra Stati, era nata proprio per affermare la pace perpetua dopo secoli di guerra. D’altra parte, il Nobel per la Pace le è stato assegnato per questo.
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