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Lunedì 14 Aprile 2014 14:12

Goodbye Mr Left
di Commonware


Meglio un grande reazionario che un piccolo rivoluzionario, diceva un tempo Tronti. Se la seconda categoria resta piuttosto ben rappresentata, la prima è decisamente a secco. Di questi tempi, dunque, conviene accontentarsi di qualche piccolo reazionario che di tanto in tanto riesce ad azzeccare qualcosa.

È il caso di Galli della Loggia, che nel suo editoriale sul Corriere della sera di domenica 13 aprile analizza perché, nonostante la crisi economica e un “disagio sociale” arrivato a livelli insopportabili, la sinistra non ne sa approfittare. I dati sul “disagio” nell’Unione Europea forniti da Galli della Loggia sono perfino edulcorati: 25 milioni di disoccupati, precarietà dilagante, salari che non arrivano nemmeno per chi lavora. Sappiamo che la realtà è ancora più dura, che la precarietà è ormai un elemento permanente che precede la crisi, che i working poor sono la norma delle nuove condizioni occupazionali. Ma più interessanti sono le tre ragioni individuate dall’editorialista per “spiegare le difficoltà della Sinistra a tradurre la crisi economica in consenso”. Innanzitutto, la nostalgia in cui è imprigionata: nostalgia per il compromesso socialdemocratico, per l’impiego (leggi sfruttamento) a tempo indeterminato, per il welfare state e il controllo sindacale della forza lavoro. L’esempio di questa struggente nostalgia, ironizza Galli della Loggia, è la commozione suscitata a sinistra dal film di Veltroni su Berlinguer. Tutto ciò, come seconda ragione, impedisce alla sinistra di avere delle rappresentazioni e delle narrazioni adeguate alla realtà. Non capisce perché, per esempio, sia talora la destra a intercettare – elettoralmente – il “disagio”; non capisce, soprattutto, che “non sta scritto da nessuna parte che i ‘poveri’ debbano pensare e ‘fare cose di sinistra’”. Last but not least, la sinistra e i suoi esponenti vengono percepiti – giustamente, aggiunge correttamente Galli della Loggia – come parte significativa dell’elite al potere, non solo per le posizioni e collocazioni politiche, ma perfino nel modo di vestire e negli stili di vita. “Nell’ambito dell’Ue e delle sue politiche, poi, la Sinistra appare poco o nulla distinguibile dai suoi avversari, prona da tempo alla medesima vuota ideologia dell’‘europeismo’ a prescindere”. “Europeismo a prescindere”, scrive Galli della Loggia: studia forse i nostri materiali?

Nella parte finale l’editorialista dimostra di essere non tanto reazionario quanto piccolo, con una stucchevole apologia di Matteo Renzi, supposta novità in grado di rispondere alle tre ragioni della sconfitta della sinistra, fuoriuscendo dalla sua nostalgia, dall’ideologia e dalla compromissione con le elite tradizionali. Ma quello di Galli della Loggia non è un endorsement, bensì un vincolo politico: il varco a cui l’editorialista del Corriere aspetta il giovinastro è la sua capacità di oltrepassare la leadership personale e coagulare dirigenti e dimensioni collettive in grado di costituire una prospettiva egemonica. Un blocco sociale e dell’ordine, capace di governare la crisi permanente e le politiche di austerity. E qui è lo stesso Galli della Loggia, come i suoi colleghi di sinistra, a essere preda di una grottesca nostalgia.

 

Assedio al lavoro sinistro

Ma la data in cui l’editoriale è stato pubblicato non è casuale, o almeno non lo è per noi. Nella stessa pagina (come su tutti i media) ha grande visibilità la manifestazione che il giorno precedente, in continuità con il percorso aperto con il 19 ottobre, ha portato nelle strade di Roma 30.000 persone. A conquistare la visibilità mediatica è l’assedio al Ministero del Lavoro, quello di proprietà di Legacoop, con la determinazione delle pratiche (ovviamente ridotte sui giornali alle solite poche centinaia che rovinano una manifestazione pacifica, cioè che non dà fastidio) e le violente e brutali cariche della polizia (ovviamente agnellini sacrificati sull’altare dell’eroica difesa dell’ordine democratico). A questo punto abbandoniamo la lettura dei media, che non ci restituiscono nulla al di fuori della noiosa e preconfezionata ripetizione dei soliti mantra, e torniamo a concentrarci sulla piazza del 12 aprile. Qui trovano conferma alcuni elementi che già avevamo evidenziato all’indomani del 19 ottobre: la centralità di temi come la casa e il reddito (che inizia a uscire dalla sua astratta connotazione di proposta per incarnarsi in pratiche concrete di riappropriazione), l’ampia partecipazione migrante (alcuni media, allarmati, notano che non si tratta più solo di migranti che prendono parte sporadicamente alle manifestazioni, ma di occupanti di case, lavoratori in lotta o addirittura militanti). Vi si affiancano le presenze consolidate, quelle dei movimenti territoriali e delle lotte specifiche, che del percorso del 19 ottobre sono state i promotori.

Ognuno, restando all’interno di una dialettica tutta istituzionale, può tentare di vedere in questa composizione e nelle sue forme di espressione quello che corrisponde ai propri desideri: chi il ritorno a uno Stato-nazione di cui appropriarsi (come e quando, tra l’altro, non è dato sapere), chi un vuoto e astorico europeismo, che a seconda delle necessità si può tingere di giacobinismo, di federalismo o perfino di indipendentismo, visto che sul piano delle retoriche sganciate dai rapporti di forza tutto in qualche modo quadra. In queste posizioni vi é ancora una volta l’incapacità di disfarsi della sinistra, con la sua confusione tra idealismo e materialismo, tra carte dei principi e principi di carta, con la sua tragica incapacità di pensare attraverso la composizione di classe e non per alleanze di ceti politici. Ci sembra invece che questa composizione, e ciò a cui in modo allargato allude, sia in buona misura distante o addirittura separata proprio dalla sinistra, e quindi da quelle caratteristiche che Galli della Loggia pro domo sua identifica e critica. Per questa composizione non c’è nostalgia per un compromesso socialdemocratico che le nuove generazioni non hanno nemmeno sentito raccontare. Non c’è spazio per narrazioni ideologiche, percepite come completamente astratte e aliene alla materialità dei problemi con cui ci si deve quotidianamente confrontare nella crisi. Vi è un profondo odio, radicato e perfino istintivo, nei confronti di quel blocco di potere politico e sociale di cui la sinistra è corresponsabile o protagonista. In questo senso, è naturale trovarsi come principali nemici il Pd e il suo governo. In Italia é iniziato, finalmente, il post-antiberlusconismo. È esattamente in queste caratteristiche, e non in improbabili ricette istituzionali, che questa composizione può scoprirsi europea e transnazionale, perché rintraccia in uno spazio complessivo i fili comuni con altre espressioni di soggettività collettiva.

Non è un caso, del resto, che ciò che a Galli della Loggia piace di Renzie sia il suo “buon senso populista”, nella sostituzione degli interessi di classe con una non meglio precisata immagine di “poveri”, che si può evidentemente adattare a figure diverse a seconda delle convenienze, purché siano disponibili a farsi rappresentare e a non dare fastidio, ovvero organizzarsi autonomamente. La compattezza del corteo durante l’assedio e di fronte alle criminali cariche delle forze dell’ordine, la disponibilità o comunque la simpateticità con la concretezza delle pratiche, simboleggia con efficacia che si sta andando nella direzione giusta. È infatti finito il tempo del cattivo simbolismo (talvolta inventato dai media mainstream e sempre subalterno a essi), cioè quello che pretende di sostituire, simulare o rappresentare le lotte. Sono le lotte a produrre simboli, e non viceversa.

Il 12 aprile è allora stata una giornata importante, e lo è stata innanzitutto perché collocata in un processo che viene già da abbastanza lontano e punta ad andare molto lontano. La prossima tappa di questo processo, fatto della quotidianità delle lotte e dei tentativi di organizzazione territoriale, sarà l’11 luglio a Torino in occasione del vertice europeo – a dir poco provocatorio – sulla disoccupazione giovanile. Perfino i piccoli reazionari del Corriere ci spiegano perché su questo tema, nel quadro della crisi (economica e della rappresentanza), la rivolta é oggi un principio di realismo politico.

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