http://www.vita.it/ Caro Terzo settore, basta con l'autoreferenzialità
“Caro Terzo settore, che fatica chiamarti con questo nomignolo che non nomina più la realtà e neppure la sua rappresentazione e rappresentanza, credo che nel 2014 eviterò di usarlo ancora...” Caro Terzo settore, che fatica chiamarti con questo nomignolo che non nomina più la realtà e neppure la sua rappresentazione e rappresentanza, credo che nel 2014 eviterò di usarlo ancora. Sono stufo di usare una definizione che non definisce se non per sottrazione (non profit) o per differenziazione (tra Stato e Mercato). Forse è anche per questo, caro Terzo settore che ti sei ammalato, perdendo voce, spinta, interesse alle cose del mondo. Già perché le parole sono importanti, Lo urlava Nanni Moretti di Palombella rossa e recentemente lo ha sottolineato Papa Francesco, quando le parole impazziscono trascinano sul fondo quelle “verità” che vorrebbero nominare e di cui vorrebbero partecipare. È la questione delle «parole staccate dalla pratica», le parole vanno vissute. E quando la vita e l’esperienza vanno da un'altra parte, le parole impazziscono e fanno del male. Eppure, «queste parole sono buone», ha avvertito il Papa, «sono belle parole». Ad esempio, «anche i Comandamenti e le beatitudini» rientrano fra queste «parole buone», così come anche «tante cose che Gesù ha detto. Noi possiamo ripeterle, ma se non ci portano alla vita non solo non servono, ma fanno male, ci ingannano, ci fanno credere che noi abbiamo una bella casa, ma senza fondamenta», ha detto Francesco in una delle sue brevi prediche mattutine a Santa Marta. Se è così per il Vangelo, figuriamoci per la parola Terzo settore e le sue parole ormai stanche che sembrano ormai così lontane dalla vita. Sono rimasto molto impressionato poche settimane fa nel vedere un gruppo di amici (veri) presentare un manifesto dal titolo “Fiducia e nuove risorse per la crescita del Terzo settore”. No, basta per favore. Basta con l’autoreferenzialità. Di risorse e di fiducia è il nostro Paese ad aver bisogno e ciò che chiamiamo Terzo settore dovrebbe essere sulla frontiera del disagio per darle, trasmetterle, senza pre-condizioni. I nostri nonni (magari vostri bisnonni) quando fecero la Resistenza, o quando costruivano una casa o mettevano su un’attività, o criticavano un regime, non erano finanziati, sovvenzionati (quello lo hanno scoperto dopo, magari), ma rischiavano in prima persona per darsi e dare un futuro. Mandela rischiò nell’arrabbiarsi e nel perdonare, senza chiedere permessi. Il Terzo settore, parola cara ai dirigenti più che alle migliaia e migliaia di formiche che fanno e innovano senza chiedere permessi, faccia così. Basta con la difesa, arretrando sempre più, di un settore imponente sui territori, che è nato con la voglia di cambiare il mondo e non per difendere se stesso, ma per cambiare la realtà e le cose, le relazioni tra i viventi. Qui c’è di mezzo il nostro Paese, il popolo a cui apparteniamo, il suo futuro. Qui non è più questione di Terzo settore, non sono in questione le diverse énclave organizzate e, magari qualche residuo appalto, ma sono in questione i nostri figli, la loro educazione, il senso del lavoro e il lavoro che non c’è, i beni pubblici che vorrebbero svendere, la miseria diffusa e che continua a crescere (in 5 anni è raddoppiato il numero di italiani poveri, ha avvertito l’Istat), la concezione stessa dell’intraprendere (un altro anno si è perso per paura di far nascere vere imprese sociali in grado di affrontare il mare del mercato), di come concepiamo e interpretiamo la giustizia nel Paese delle sperequazioni, in questione è la nostra concezione di accoglienza che non può essere quella espressa dalla cooperativa sociale che gestiva il Centro di accoglienza di Lampedusa. Bene, allora, cara società civile, cittadini attivi in qualsiasi modo organizzati e in forme magari non riconosciute, dirigenti del Terzo settore, qui, ora, dobbiamo giocarci almeno quattro sfide da serie A, quattro sfide per il futuro dell’Italia, senza aspettare la politica dei partiti. Dobbiamo stare davanti ai partiti e non dietro elemosinando qualcosa, davanti e senza voltarci indietro. La sfida di un nuovo Servizio civile che permetta a tutti i ragazzi italiani di sperimentare la bellezza dell’impegno civico e magari di una professione che concili idealità e reddito. La sfida di un’Impresa sociale capace di giocare la partita, che alcuni vorrebbero già scritta alla voce “privatizzazioni e svendite”, dei beni comuni, acqua, trasporto locale, fabbriche post-fordiste. La sfida dell’Accoglienza, della cultura della solidarietà e della responsabilità che deve produrre nuove forme e nuove proposte. Dall’abitare ai luoghi. La sfida del Lavoro e dei nuovi lavori non avendo paura né della tradizione né dell’innovazione. Coraggio, si può fare. In movimento, allora.
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