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3 dicembre 2014

Quarant’anni fa la Jugoslavia varava la sua ultima Costituzione. Dopo di che, il diluvio
di Vittorio Filippi

Quaranta anni fa, nel febbraio del 1974, la Jugoslavia varava la sua nuova Costituzione. Fu la quarta in nemmeno mezzo secolo di vita della Federazione titoista, segno delle difficoltà di sistematizzazione definitiva del paese. Lunga (406 articoli) e macchinosa, fu il tentativo di Edvard Kardelj – l’ideologo sloveno che ispirò lo state building jugoslavo – di imbrigliare e regolamentare uno stato complesso, eterogeneo e percorso da spinte centrifughe. Come ad esempio le convulsioni autonomistiche del Maspok che la Croazia aveva conosciuto pochissimi anni prima. Ma fu anche l’ultima Costituzione, tanto che appena tre lustri dopo, nell’89, la Serbia già ne rivedeva profondamente l’impianto eliminando l’autonomia delle sue due regioni (il Kosovo e la Vojvodina).

Ora, è perlomeno azzardato dire che la Costituzione del ’74 abbia “provocato” la crisi e la disintegrazione della Jugoslavia, dato che anche altre variabili vi hanno giocato un ruolo rilevante. Tuttavia nelle righe del documento vi erano i limiti e le contraddizioni che poi avrebbero perlomeno favorito il collasso finale. La Carta disegnava una struttura di fatto confederale con una implicita sovranità di repubbliche e regioni autonome ed un esplicito diritto alla secessione per le sei repubbliche. Inoltre, pur richiamandosi ad una cultura politica comunista (ruolo guida del partito, dittatura del proletariato), progettava una architettura istituzionale articolata e fondata su robuste autonomie, capaci di assicurare i diritti nazionali fondamentali. Addirittura, si potrebbe dire, il voler attribuire minuziosamente le garanzie alle varie nazioni jugoslave creò tante lentezze e farraginosità che ostacolarono la governabilità.

Perché quello del ’74 fu il tentativo, estremo se non estremista, di bilanciare le esigenze del centro federale con le crescenti pressioni che ormai montavano nelle repubbliche. Arrivando ad una “feudalizzazione” repubblicana che paralizzava la Federazione attraverso i poteri di veto incrociati. Questa micidiale “vetocrazia” portava non solo all’impotenza decisionale, ma costringeva ad infinite e defatiganti negoziazioni tra repubbliche. “Se la Jugoslavia si disintegrasse, le repubbliche non se ne accorgerebbero”, diceva una amara battuta. A metà degli anni ottanta Jovan Miric, un politologo di Zagabria, nel suo Sistem i kriza scriveva: “Stiamo insieme per bisogno, se non per paura, e si fa di tutto per sottolineare ogni tipo di differenza. Siamo l’unico paese al mondo in cui le diverse componenti della federazione hanno diritto di veto, favorite in ciò dalla costituzione”. Miric, provocatoriamente, disse anche che bastava inviare in Parlamento solo otto delegati che decidessero per le repubbliche e le regioni, al posto degli oltre 300 rappresentanti costretti ad esprimere solo l’opinione del gruppo nazionale di appartenenza.

Milosevic in seguito avrà buon gioco nello smantellare la Costituzione sia per riprendersi il controllo delle riottose Vojvodina e Kosovo che con il gioco dei veti bloccavano Belgrado (a causa, diranno i nazionalisti, della volontà del croato Tito di avere una Jugoslavia forte a spese di una Serbia debole e divisa), sia per sbloccare il sistema decisionale passando da un consenso imbelle al voto di maggioranza (e i serbi contavano per il 36% della popolazione jugoslava).

La crisi economica del sistema autogestionario negli anni ottanta e l’asimmetria profonda della ricchezza e dello sviluppo tra le aree del paese (con il rapporto di 7 a 1 del prodotto sociale tra Slovenia e Kosovo) porterà le singole repubbliche a chiudersi difensivamente nei propri confini perdendo l’interesse verso la dimensione federale (per loro l’Etat c’est nous, aggiornando Luigi XIV). Se nel 1970 lo scambio di merci e servizi avveniva per il 60% all’interno delle singole repubbliche, nel 1980 si era saliti al 69% per crescere ancora nel corso degli anni seguenti in un vortice inarrestabile di nazionalismo economico (la Croazia era la repubblica più “autarchica” grazie al turismo) che virerà ben presto in nazionalismo tout court. Lo stesso numero di imprese autogestite con unità produttive in due o più repubbliche – come caldeggiato dalla stessa Costituzione al fine di saldare gli interessi delle varie aree jugoslave – rimarrà assolutamente irrilevante. E dato che dal 1975 le repubbliche ottennero anche la sovranità valutaria, queste iniziarono a contrarre debiti al di fuori di ogni controllo centrale, tanto da costringere il governo di Milka Planinc a porre nell’83 il segreto di stato sui debiti delle singole repubbliche per evitare recriminazioni ed accuse reciproche.

Alla fine degli anni ottanta, con una “repubblicanizzazione” sempre più rissosa ed intollerante a spese del declinante potere federale, la Costituzione kardeljana veniva stravolta o addirittura ignorata, mentre le nuove Costituzioni nazionali (e nazionalistiche …) la sostituivano velocemente (già nel 1990 Croazia e Serbia si dettero le nuove Carte costituzionali). Il tutto in un clima di disfacimento già profetizzato nell’85 dal corrosivo film Život je lep del bosniaco Boro Draskovic. Oggi, quaranta anni dopo, di quella monumentale Costituzione rimane il gusto amaro di una forbice insostenibile tra gli ideali contenuti (tanti, forse troppi) ed una realtà politica che da essi divergeva prepotentemente.

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