http://www.linkiesta.it Lo chiamano «il duce», e ha vinto le elezioni serbe
Il progressista Vučić in passato ha firmato pene per dissenzienti e minacciato i musulmani
I giochi sembrano già fatti, per lo meno se si dà credito al sondaggio di pochi giorni fa, con il quale il giornale belgradese Blic ha incoronato vincitori i progressisti (Sns) di Aleksandar Vučić. L’«uomo nuovo» della Serbia dovrebbe portare a casa alle elezioni almeno il 44% dei voti, lasciando ai suoi diretti concorrenti soltanto le briciole. Dovrebbe essere, quello di domenica 16 marzo, un plebiscito in suo favore. In effetti, non è un mistero che proprio Vučić abbia scelto di sciogliere le camere due anni prima del termine della legislatura, e di indire elezioni anticipate unicamente per capitalizzare la propria popolarità, ottenendo il massimo risultato elettorale possibile. «Queste elezioni hanno un solo scopo: permettere a Vučić di governare per sei anni invece che quattro», ha dichiarato a Radio Free Europe Vesna Peši, esponente storica di quello che era uno dei più importanti partiti di opposizione ai tempi del regime di Milošević, l’Alleanza Civica di Serbia.
Sei anni invece di quattro. Da due anni l’impero di Vučić è infatti già in gestazione. Da quando, cioè, la guida del governo è stata assunta dal partito socialista (che fu l’artefice del regime degli anni novanta) al quale appartiene anche il premier attuale, Ivica Dai. In questo arco di tempo Aleksandar Vučić ha saputo costruirsi un potere sempre maggiore, fino a diventare il vero deus ex machina del governo di Belgrado. Anatomia di un leader Aleksandar è riuscito a passare indenne attraverso gli ultimi vent’anni di storia serba, accrescendo man mano il proprio prestigio e il proprio potere personale. Molto giovane (è nato nel 1970), già nel 1998 occupa il posto di Ministro dell’informazione nel governo di unità nazionale presieduto da Mirko Marjanović e direttamente controllato dal regime di Milošević. Non è un passato di cui essere troppo orgogliosi. In un vecchio filmato, che risale al 1995, si vede Vučić ammonire «i musulmani»: «Non pensate di intimorirci, non pensate di bombardarci. Per ogni serbo ucciso, noi ne giustizieremo cento di voi». In quanto Ministro dell’informazione, Vučić ha avuto altresì un ruolo molto attivo nel reprimere il dissenso interno. Sua è la firma sulle leggi che inasprivano le pene per i media "dissenzienti", oltre che sui provvedimenti con i quali sono state chiuse le redazioni dei pochi giornali indipendenti a Belgrado in quegli anni: Naša Borba (la nostra lotta), Dnevni Telegraf (Il corriere quotidiano) e Evropljanin (L’Europeo). Il caporedattore di due di questi giornali (Borba e Evropljanin), Slavko Curuvija, venne fatto uccidere nel 1999 a causa delle sue opinioni contrarie al regime, in particolare per la sua opposizione alla guerra in Kosovo. «Sono anni in cui ho commesso degli errori», cerca di fare ammenda Vučić oggi che è diventato il segretario del partito progressista. Quella progressista è una costola staccatasi dal vecchio partito radicale di ultradestra di Vojislav Šešelj, il quale in questo momento è in attesa di giudizio al tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità. I progressisti oggi sono un partito nazionalista, liberale ma che guarda con favore all’integrazione europea, avendo anche aderito al Ppe (il Partito popolare europeo). E Vučić è l’uomo simbolo di questo partito nuovo. Dal 2012, dopo le elezioni che incoronano premier Ivica Dai, Aleksandar ha occupato la poltrona di Vice primo ministro e di Ministro della sicurezza, posizione dalla quale è riuscito ad animare una grande campagna contro la corruzione che ha portato all’arresto, tra gli altri, di Miroslav Miškovi, l’uomo più ricco di Serbia (e vicino al principale partito della sinistra serba, il Ds). Grazie a questa posizione, Vučić si costruisce in pochissimo tempo un’enorme popolarità in patria. «O con Vučić o con i tycoon», recitano gli slogan del suo partito. L’elettorato, apparentemente, crede alla verve di un politico in lotta contro i criminali dell’economia. La campagna elettorale ha fatto il resto, riproponendo il ritratto di un politico onnipresente (fino al grottesco: in occasione di una grande nevicata, nei mesi scorsi, Vučić si è fatto riprendere mentre salvava personalmente un bambino rimasto intrappolato in un’automobile) e al tempo stesso integerrimo, vicino al popolo. I progressisti non si sono risparmiati nessuna tecnica per ingraziarsi gli elettori, arrivando persino alla distribuzione casa per casa di pacchi alimentari: olio di semi, zucchero, qualche confezione di pašteta (un paté di carne spalmabile). Tutto in cambio del proprio voto.
Si tratta di una campagna elettorale piuttosto aggressiva, che sfocerà probabilmente in un trionfo (c’è chi parla di un risultato superiore al 50% delle preferenze) e che desta però anche enormi preoccupazioni. «La Serbia è ai piedi di un nuovo vož», titolava pochi giorni fa il croato Veernji List. Di certo non si tratta della stampa di un Paese amico, ma fa comunque impressione il termine usato: «vož» è l’equivalente serbo di «duce», ed è un titolo che, storicamente, fu attribuito a Milošević. C’è il rischio che la storia si ripeta? «Vučić ormai gode di un’autorità sconfinata nel nostro Paese», dice Miloš Vasi, editorialista di Vreme: «Lo si vede ovunque. Per esempio, recentemente ci sono stati degli operai della città di Baka che si sono messi a protestare, proclamando uno sciopero e ripetendo: finché Vučić non viene qui, noi non trattiamo con nessuno. In un certo senso, egli è già l’immagine del potere, e siamo stati noi a permettere che questo avvenisse». Secondo Vasi, «si prepara un nuovo regime autoritario, e il problema non è nemmeno tanto Vučić, ma l’accolita di affaristi, faccendieri, opportunisti che si tira dietro». Gente senza scrupoli e che ama, più di ogni altra cosa, il potere. E che ora ha deciso di salire sul carro del vincitore. Tra Kosovo ed Europa: un Paese al bivio. Soltanto nei prossimi mesi si capirà quanto una vittoria così netta, come sembra quella che si prepara da parte dei progressisti, sarà un bene oppure no per la Serbia. Tante sono, infatti, le questioni rimaste aperte nell’agenda di Belgrado. La prima, e la più eclatante, è sempre quella del Kosovo. Come noto, la Serbia non ha mai riconosciuto l’indipendenza di quella che tuttora considera come una propria provincia. Da questo punto di vista, a meno di improvvisi voltafaccia da parte del prossimo premier, sembra improbabile che i negoziati con Prishtina subiscano dei passi indietro. Proprio la destra serba è stata infatti l’artefice della normalizzazione dei rapporti con il Kosovo, determinata a investire piuttosto sul processo di integrazione nell’Unione Europea (una scelta che ha raccolto, peraltro, anche i primi frutti, visto che a gennaio la Serbia ha ottenuto formalmente lo status di Paese candidato da Bruxelles). Questa domenica anche i cittadini del Kosovo potranno votare alle elezioni serbe, visto che Belgrado formalmente continua a considerare la provincia una parte del proprio territorio. Ma questo compromesso, frutto di estenuanti trattative tra i due governi, non deve fare dimenticare che queste sono le prime elezioni nella storia recente della Serbia in cui di Kosovo non si è praticamente parlato La televisione serba ha dovuto addirittura organizzare un’apposita trasmissione di tribuna politica per sapere «dove fosse il Kosovo» nei programmi dei partiti. La morale che ne consegue è che, con ogni probabilità, i cittadini serbi hanno smesso di considerare la questione come prioritaria. Nei palazzi del potere di Belgrado si ripete all’unisono che «l’indipendenza del Kosovo non verrà mai riconosciuta» ma verosimilmente la possibilità di tornare indietro, annullando le conquiste ottenute da Prishtina in fatto di sovranità negli ultimi anni, è molto bassa. Il riconoscimento del Kosovo non sarà probabilmente nell’agenda del prossimo governo di Belgrado, ma ciò non toglie che esso, nel lungo periodo, sarà inevitabile: si sta unicamente aspettando che il momento sia abbastanza propizio da consentirlo. La questione fondamentale all’ordine del giorno ormai è un’altra, ovvero la crisi e come garantire il benessere sufficiente alla maggior parte della popolazione. Come riconosciuto, tra gli altri, anche dal Financial Times, quello che verrà richiesto ad Aleksandar Vučić quando diventerà premier è soprattutto di portare avanti le riforme di cui il Paese ha bisogno. Nonostante i giornali riportino con cadenza quotidiana le notizie di nuovi investimenti esteri nel Paese, e nonostante questi rappresentino una fonte di ricchezza crescente per Belgrado, la Serbia resta un Paese con forti difficoltà economiche, con un’alta percentuale di disoccupati (oltre il 20%) e con delle finanze pubbliche estremamente fragili. Le riforme sono una priorità, per permettere al Paese di costruire la propria crescita su basi più solide e per portare avanti con successo il processo di integrazione europea, nella quale i Serbi continuano a credere, nonostante gli ultimi sondaggi mostrino una flessione nella percentuale di coloro che si dicono favorevoli all’ingresso del Paese nell’UE (a gennaio 2013 era di poco superiore al 40%). «La Serbia negli ultimi anni ha compiuto dei grandi progressi, abbiamo lavorato duramente e continueremo a farlo per portare avanti i cambiamenti necessari», ha dichiarato recentemente Vučić alla Cnn, «ma abbiamo fatto molto in passato soprattutto in termini di lotta alla corruzione e di legalità, e questo è qualcosa che ci differenzia anche da tutti gli altri paesi della regione. I cittadini hanno fiducia nelle riforme e nel proprio governo. Vedono i risultati di quanto abbiamo fatto fino ad oggi». LEGGI ANCHE La primavera bosniaca senza leader e in mano ai vandali
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