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La dottrina muscolare di Rasmussen, il danese tosto che sfida Putin sull’Ucraina
Il segretario generale della Nato, in scadenza di mandato, tiene testa a Mosca nella crisi ucraina, con toni e parole che lo caratterizzano come un capo politico autonomo. E dà lezione ai governi europei, "colpevoli" di voler ridurre le spese militari
Da una parte Vladimir Putin, dall’altra Anders Fogh Rasmussen. Il presidente russo e il segretario generale della Nato. Nella crisi ucraina sono i due personaggi centrali sulla scena. Certo, i protagonisti politici, i decisori ultimi sul versante occidentale, sono il presidente statunitense Barack Obama e la cancelliera Angela Merkel. Ma nella guerra delle parole che ha tutta l’aria di prepararne una in piena regola, e che ha già raggiunto livelli assai preoccupanti, è soprattutto il danese Rasmussen a tenere testa allo zar. Si comporta come un leader politico autonomo, Rasmussen, più che come il rappresentante e dirigente di un’organizzazione complessa e variegata, composta da 28 stati membri, un arco di nazioni che va dalla Scandinavia alla Turchia, dal Mediterraneo all’altra sponda dell’Atlantico. Un tempo l’Alleanza atlantica aveva di fronte a sé il Patto di Varsavia, la “Nato dell’est”. Oggi non ha più un nemico e si è data compiti di portata planetaria. Oltre la vecchia cortina di ferro, c’è la Russia, senza più i suoi satelliti, animata da revanchismo, ma ormai ridotta a solitario player militare, per quanto ancora molto forte, guidata da un capo autoritario. Ed è come se Rasmussen si fosse incaricato di “correggerla” e riequilibrarla, questa asimmetria, con un protagonismo da cowboy scandinavo, che risponde per le rime e tempestivamente alle minacce e alle mosse del capo del Cremlino. Ma anche rilanciando la sfida. Ieri colpiva il tono ultimativo con cui Rasmussen ha reagito alle notizie dei movimenti di truppe russe intorno all’Ucraina e alla minacciosa e crescente pressione militare di Mosca dentro le regioni “filorusse” del paese vicino. La Nato, ha detto il numero uno dell’Alleanza, rafforzerà «nel giro di pochi giorni» le difese aree, navali e terrestri, saranno schierati più aerei nei cieli orientali, più navi nel Baltico e nel Mediterraneo orientale, più uomini e mezzi sul terreno nei paesi più esposti. Un tempo si sarebbe detto che Rasmussen segue una dottrina di “confrontation” con il Cremlino, come avveniva nei momenti più tesi della guerra fredda. Quanto essa sia concordata con i governi della Nato almeno con i principali di essi, i più esposti nella partita o quanto sia frutto di un suo sentirsi ormai più “libero”, è difficile capirlo. Già, perché l’ex-premier danese è in scadenza e può sentirsi svincolato. Lascerà il suo incarico peraltro dopo un allungamento di oltre un anno rispetto alla scadenza naturale il prossimo fine settembre, passando le redini all’ex-primo ministro norvegese Jens Stoltenberg. 61 anni, l’uomo della svolta conservatrice nella socialdemocratica Danimarca, l’entusiasta alleato di Bush nell’invasione dell’Iraq, «il primo ministro più bello dell’Europa, anche più bello di Cacciari», come lo definì Berlusconi, non è stato è un abile tessitore come lo fu lo spagnolo Javier Solana, né un discreto diplomatico come il suo predecessore, l’olandese Jaap de Hoop Scheffer. Rasmussen ha interpretato fino all’ultimo in modo molto attivo, anche politicamente, il suo ruolo. In particolare rispetto alla crisi ucraina: non solo nella pronta reattività alle mosse russe, ma anche con prese di posizione molto nette, molto giudicanti, molto orientate, anche nei confronti dei governi europei. In una recente intervista al Wall Street Journal, ha detto che l’Europa ha «interpretato erroneamente» la figura di Vladimir Putin per anni e adesso è costretta ad affannarsi per fermare la ambizioni espansionistiche del Cremlino. Sottolineando la crescita della potenza militare della Russia, «l’incredibile sviluppo della sua abilità di intervenire con determinazione e rapidità», ha ammonito: «Non dobbiamo sottostimare la potenza delle forze armate russe», mentre «noi in Europa abbiamo disarmato troppo e per troppo tempo». E ha concluso: «non possiamo continuare a tagliare i budget della difesa mentre la Russia li aumenta». Addio soft power, ben tornata guerra fredda. Dunque corsa al riarmo, mentre non c’è governo che non s’industri per come tagliare le spese militari.
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