http://it.ibtimes.com Bosnia, 22 anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo Sono ormai passati quasi 20 anni dalla fine della guerra in Bosnia-Erzegovina, ma dalla memoria di tanti bosniaci non si possono cancellare le violenze e le atrocità di una sanguinosissima guerra civile che conta fino a 250mila vittime, 50mila casi di tortura, 20mila stupri, 715 campi di concentramento e 2 milioni e 200mila persone, vale a dire la metà della popolazione prima della guerra, costrette a lasciare le proprie case. Uno degli episodi più significativi della guerra è senza ombra di dubbio l'assedio di Sarajevo, di cui in questi giorni ricorre il 22esimo anniversario dell'inizio. La capitale venne accerchiata dalle forze serbe praticamente per tutta la durata della guerra, vale a dire dal 1992 al 1995, diventando il più lungo assedio della storia moderna, tre volte più lungo di quello di Stalingrado e un anno più lungo di quello di Leningrado. L'assedio di Sarajevo fu la diretta conseguenza della dissoluzione della Jugoslavia. Morto Tito, che governava con il pugno di ferro un Paese estremamente eterogeneo, le diverse forze nazionaliste salirono presto alla ribalta. Con l'indipendenza di Slovenia e Croazia nel 1991, anche nella repubblica di Bosnia-Erzegovina, soprattutto tra croati e bosgnacchi (bosniaci musulmani) cominciò a diffondersi l'idea di separarsi dalla Jugoslava, che ormai stava diventando sempre più serbo-centrica. Sarajevo decise dunque di indire un referendum, che venne boicottato dai serbi. Con il 99,7 per cento dei sì, il 3 marzo 1992 la Bosnia-Erzegovina si dichiarò indipendente da Belgrado. Da lì in poi, gli eventi precipitarono in fretta. Il 5 aprile poliziotti bosniaci di etnia serba attaccarono diverse stazioni di polizia e una scuola di formazione del ministero dell'Interno, uccidendo due agenti e un civile. Il governo bosniaco dichiarò lo stato di emergenza per il giorno successivo, ma gli attacchi dei serbi non si fermarono, anzi. Nel corso di una manifestazione, che coinvolse tutti i gruppi etnici della città, alcuni cecchini uccisero due donne tra la folla. Era iniziato l'assedio di Sarajevo. Il governo bosniaco, ottenuto anche il riconoscimento internazionale, chiese all'occidente di distribuire nel territorio delle forze di peacekeeping che però non riuscirono a giungere in tempo, data la velocità con cui la situazione si era aggravata. Le forze dell'esercito jugoslavo presero il controllo delle colline che circondano Sarajevo e da lì cominciarono a bombardare la popolazione che di fatto si trovò inchiodata in un inferno. Bloccate tutte le vie d'accesso, tagliate le forniture per il cibo e le medicine, senza acqua, elettricità e riscaldamento, la popolazione sarajevese era destinata a morire. Il presidente bosniaco, Alija Izetbegovic, chiese al leader jugoslavo, Slobodan Milosevic, di ritirare l'esercito dalle alture della città. Per tutta risposta, Milosevic, fece notare che la maggior parte dei soldati erano bosniaci (ma ovviamente di etnia serba) e dunque solo i militari non bosniaci lasciarono Sarajevo per fare ritorno a Belgrado. I soldati dell'esercito jugoslavo che erano di etnia serbo bosniaca rimasero ad assediare la capitale e passano sotto il comando del generale Ratko Mladic. Gli attacchi alla popolazione divennero pressoché sistematici, sia tramite bombardamenti che attraverso gli spari dei cecchini. Tantissimi furono i cartelli messi nella città che dicevano "Pazite, Snajper", cioè "Attenzione, Cecchino!". Inoltre i serbi controllavano la maggior parte delle postazioni militari, nonché tutte le vie d'accesso alle armi. Tristemente celebri sono gli attacchi ai cittadini mentre erano in fila per l'acqua, o quelli a una partita di calcio, o ancora, quelli a piazza Markale nelle ore di punta, eventi che hanno provocato delle vere e proprie stragi. La comunità internazionale agì subito attraverso un ponte aereo, ma anche la popolazione locale si organizzò con la costruzione di un tunnel, completato nella metà del 1993, che permise di bypassare l'embargo di armi, applicato a tutte le parte coinvolte nel conflitto, dunque anche ai croati e ai bosgnacchi. Il tunnel però divenne anche un passaggio per far giungere in città medicine, cibo e permise ad alcune persone di scappare. In totale, i rapporti indicano una media quotidiana di 329 colpi di artiglieria sparati nella città assediata, con un picco di 3.777 raggiunti il 22 luglio 1993. Questi bombardamenti hanno danneggiato tantissime strutture, sia residenziali che culturali. Nel settembre del 1993 è stato stimato che quasi tutti gli edifici di Sarajevo avevano subito danni e 35mila erano stati completamente distrutti, compresi ospedali, centri di comunicazione, complessi industriali, strutture governative e installazioni militari. Nel mirino dei serbo bosniaci finì anche la storica Biblioteca Nazionale, dove, nel conseguente incendio, andarono distrutti migliaia di testi rarissimi. Con il cessate il fuoco dell'ottobre del 1995 e con la pace di Dayton nel dicembre dello stesso anno, la città venne finalmente liberata. Ufficialmente, il governo bosniaco dichiarò la fine dell'assedio di Sarajevo il 29 febbraio 1996, quando le ultime forze serbo bosniache lasciarono le loro postazioni sulle colline. Secondo un rapporto, nei tre anni di assedio, sarebbero morte circa 10mila persone, di cui 1.500 bambini. Il dramma, infatti, non ha risparmiato neanche i più piccoli. Un'analisi dell'Unicef riferisce che almeno il 40 per cento dei bambini sarajevesi è stato colpito da un cecchino, il 51 per cento ha assistito all'uccisione di qualcuno, il 39 per cento ha avuto uno o più decessi in famiglia, il 48 per cento aveva la propria casa occupata, al 73 per cento hanno bombardato la casa e l'89 per cento si è dovuto rifugiare nei sotterranei. Oggi, Sarajevo è profondamente cambiata rispetto al periodo prebellico. Sebbene sia stata la città che è cresciuta di più in tutta la Bosnia-Erzegovina, molti edifici rimangono danneggiati e il tessuto sociale è estremamente differente. Difatti, abbandonato il tradizionale volto multietnico, oggi Sarajevo è abitata per lo più da bosgnacchi e la popolazione serba è passata da oltre il 30 per cento nel 1991 ad appena il 10 per cento. Tuttavia, i sarajevesi, benché non abbiano mai dimenticato quegli anni di violenze, terrore e atrocità, cercano di andare avanti e di ricostruire il proprio Paese, che, però sembra vivere un dopoguerra infinito.
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