novembre 2014 Il nemico è ovunque. Quella sensazione soffocante di oppressione e di essere circondata da nemici l’ho provata davvero nella mia vita solo quando mi sono trovata in Israele, o per meglio dire nei territori del ’48, per usare una terminologia più palestinese. L’angoscia comincia quando salgo in aereo: sono da sola, incontrerò gli altri attivisti del progetto a Gerusalemme. Sono su un volo low cost, ciò significa che anche se il viaggio durerà 3 ore e mezza l’aereo è piccolo e stipato di gente. Naturalmente sono seduta vicina a due ortodosse: si riconoscono facilmente dalle gonne lunghe e dal fazzoletto in testa sistemato in un modo tipico che ormai ho imparato a riconoscere nella mia precedente visita in Palestina. Riconosco anche l’ebraico, con quei suoni stridenti vagamente tedeschi. Sono stretta tra il nemico e il finestrino, guardo fuori, cerco di stare calma anche se so che una volta atterrata dovrò affrontare una delle mie paure più grandi, l’aeroporto di Ben Gurion. Ripasso mentalmente il copione da dire all’addetto alla sicurezza ma perdo la concentrazione e l’occhio mi cade sul piccolo libro di preghiere tenuto in mano dalla mia vicina. Possibile che in nessuna delle pagine di quel vademecum per ebrei ci sia accennato niente sul rispetto degli esseri umani? Avrei tante cose da dire ma naturalmente taccio, anche se a livello ideale chi ho di fianco rappresenta tutto quello contro cui lotto da anni e il motivo per cui sono su quell’aereo: d’altronde se non ci fosse l’occupazione probabilmente non ci sarei neanche mai andata in Palestina, come non sono mai andata in Giordania o in Libano. Finalmente, dopo quello che è sembrato un giro intorno al mondo, atterriamo. Welcome to Israel, recitano le scritte in aeroporto. Attraverso il lungo corridoio che conduce ai gabbiotti dei controlli. Ai lati sono presenti alcuni addetti alla sicurezza che fermano la gente a caso: chiedono il passaporto e di vedere il bagaglio a mano. Io guardo davanti a me cercando di mantenere un’espressione tranquilla e rilassata anche se sto tremando come una foglia. Non mi fermano, arrivo ai gabbiotti: da una parte ci sono i controlli per i cittadini israeliani, dall’altra quelli per gli stranieri. Mentre cerco di decidere in quale fila mettermi (consapevole che da quella scelta potrebbe dipendere tutto) noto che una delle file scorre particolarmente veloce, così in una frazione di secondo penso che se va veloce forse è perché l’addetto di turno non ha molta voglia di fare domande, quindi mi accodo da quella parte. In effetti le tre persone davanti a me vengono fatte entrare in pochi minuti. Tocca a me, mi avvicino al gabbiotto: la ragazza avrà poco più di vent’anni, capelli biondi e viso angelico. Non fai così paura, penso. Inizia il teatrino. Perché forse non tutti sanno che lo scopo dei controlli è capire se “rappresenti un pericolo per Israele”, per esempio se sostieni i palestinesi (che loro chiamano arabi) e se sei lì per andare nei “Territori”. Siamo stati ben preparati alla formazione pre-partenza ed è una cosa che ho già fatto l’anno scorso, ma la paura di fare errori, essere interrogati e ricevere la stamp che ti vieta di rientrare in Israele per 5, 10 o 15 anni è indomabile. Solo il pensiero di non poter più stare in Palestina è qualcosa di assolutamente inconcepibile per me che vedo il mio futuro lì affianco ai palestinesi, almeno finché l’occupazione non finirà e arriverà il benedetto giorno in cui gli aerei atterreranno a Ramallah e a Gaza. “Perché vuoi il visto?” mi chiede. “Turismo.” “Quanto devi stare?” “Un mese.” E lì inizio a pensare, cavolo ma come può credere che un turista stia un mese in giro per questo paese che è pure una misera striscia di terra? Eppure forse ci crede. “Dove starai?” “Gerusalemme e Tel Aviv.” “Sei sola?” “Si.” “Come mai?” “Mi piace viaggiare da sola, è più facile conoscere persone del luogo.” Sorride e fa si col capo, magari anche lei è una che viaggia da sola. Umanizzo il nemico? “Conosci qualcuno?” “No” Mi viene in mente la faccia dei miei amici palestinesi di Betlemme. “Welcome to Israel”. E mi da passaporto e visto. Una gioia immensa mi pervade, è andata, ce l’ho fatta, sono dentro: mia amata Palestina, sto arrivando! Il giorno dopo il pullman palestinese che abbiamo preso da Gerusalemme attraversa il checkpoint di Qalandia senza problemi e la Palestina, con i suoi colori, le case bianche, la terra grigia e la bassa vegetazione, mi si para davanti in tutta la sua caratteristica bellezza. A quel punto mi sento di essere tornata a casa e sto bene. Benessere che dura tutto il mese della mia permanenza lì. Finché non ripassiamo in checkpoint di Betlemme per tornare indietro. Allora ritorna l’angoscia e il senso di oppressione. Il pullman si ferma al checkpoint: tutti i palestinesi devono scendere, mettersi in fila e mostrare i permessi per entrare nel “grande e democratico” Israele. Un poliziotto col mitra sale sul pullman e controlla i nostri passaporti: in quanto internazionali noi possiamo stare comodamente seduti ai nostri posti. Una pratica che non ha assolutamente nessun senso: potrebbero benissimo controllare i documenti dei palestinesi sul pullman come stanno facendo con noi ma infliggere umiliazioni e pratiche di apartheid e segregazione fa parte del barbaro sistema israeliano. Arrivati alla stazione dei pullman di Gerusalemme ci sono soldati ovunque. Mi viene da pensare che sono gli stessi soldati contro cui abbiamo combattuto per un mese, che abbiamo visto schierati a Ma’sara ad impedire l’entrata e l’uscita dal villaggio, o a Kufr Qaddoum sparare rubber bullets e lacrimogeni sugli shebab, che ci hanno controllato al checkpoint tra Ramallah e Betlemme, che impediscono il passaggio dei palestinesi nelle vie del centro di Hebron, che stanno fermi ad ogni angolo di strada in tutta la West Bank. Mi sento oppressa come se avessi un elefante sul petto. Ho ancora in mente le poche parole in arabo che ho imparato, per cui mentre compro il biglietto per Tel Aviv non dire salam e shukran mi costa una fatica immensa. E mentre ci prendiamo un caffè si è fatto tardi e dico agli altri “Yalla” (andiamo) e un soldato di fianco a me mi fulmina con lo sguardo. L’apartheid delle parole? A Tel Aviv ci sono pochi soldati ma io sto male comunque. Sto male quando parlo con una ragazza mentre camminiamo sul lungomare di Jaffa -l’unico posto decente di tutta la zona, sarà perché l’hanno lasciato praticamente com’era ai tempi in cui ci stavano i palestinesi?- e alla domanda di dove sei risponde: “Sono israeliana. Cioè, SONO ORIGINARIA del Canada. Ma sapete, vivere qui è bellissimo. Guardate che mare! Vivere in una città con il mare è fantastico!”. Ma lo sai che per permetterti la tua abbronzatura ci sono milioni di persone nei campi profughi poco lontano da qui? Un altro ragazzo, appartenente a quella che dovrebbe essere la sinistra israeliana contro l’occupazione, dice che stanno lottando affinché i palestinesi abbiano voce in capitolo nella scelta dei candidati al parlamento israeliano. Cioè questa è la loro idea della soluzione di uno Stato, per me è follia, per me caro mio sei fuori contesto e non hai idea di cosa sia davvero l’occupazione. Trovo che Tel Aviv sia una città orrenda, opprimente. Poi ho l’impressione che tutti ci rispondano in malo modo e che nessuno ci voglia aiutare. Ed è vero che l’unica cosa bella è il mare, ma per apprezzarlo devi metterti con i piedi in acqua e guardare solo davanti a te, perché se ti giri verso il lungomare quegli orrendi grattacieli rovinano tutto il paesaggio. Odio anche i palazzi. E odio vedere i giovani che se ne stanno a bere birra il venerdì sera come se niente fosse, come se a pochi chilometri non ci fosse l’occupazione. Dopo un solo mese in Palestina percepisco il frikkettone che suona il didjeridoo vicino al Carmel Market come un mio nemico, perché lui ha tutte le libertà che vuole, perché sembra fregarsene delle ingiustizie e dell’orrore che devono subire i suoi coetanei palestinesi, perché non deve convivere con soldati, coloni, muri, torrette, raid notturni, arresti, feriti, martiri. E poi penso che se lui sapesse dov’ero e cosa ho fatto nelle ultime settimane percepirebbe anche me come un suo nemico. E’ così, il sistema di controllo e di apartheid israeliano è fatto per creare odio, sospetto e paura tra esseri umani e io ci sono cascata in pieno.
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