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02/10/2014

Kissinger e il World Order
di Mimmo Cándito

In un interessante volume pubblicato in questi ultimi giorni negli Usa ("World Order", Penguin Press, pagg.420 $38,82), il vecchio Henry Kissinger tenta il disegno di una ricomposizione analitica delle crisi del mondo oggi. Le aree politico-geografiche sono scandagliate con l'usuale taglio pragmatico che ha fatto del lavoro di Kissinger uno dei cardini nell'incastro delle variabili della diplomazia contemporanea; e lo snodo della pace di Westfalia - e della prassi politica che ne è seguita - diventa la chiave d'intendimento delle forme che hanno seguito negli ultimi secoli i processi di stabilità/destabilizzazione delle potenze nazionali, anche al di fuori di quella realtà materiale e virtuale che noi definiamo come l'Occidente. In altre parole: ci troviamo di fronte a un riesame globale del rapporto tra potere e legittimazione. 

Il progetto di un Nuovo ordine mondiale e' antico quanto la storia delle potenze imperiali, e dal tempo della caduta del Muro a oggi ha accompagnato stabilmente le mutazioni delle relazioni internazionali, pur nelle attualizzazioni progressive; Kissinger ne fa la storia con una qualità di sintesi che forse non sarà molto apprezzata dagli accademici, ma che ha una indubbia efficacia. Ed è comunque significativo che il capitolo dedicato al Medio Oriente abbia il titolo di "Un mondo in disordine" (A World in Disorder), in contrapposizione al titolo globale del volume "Un ordine mondiale". 

E' su quel disordine che si concentra oggi l'attenzione di politici e opinione pubblica internazionale, nel tentativo di coglierne i fattori autenticamente interpretativi dopo che l'esplosione mediatica del Califfato ha scompaginato le analisi e i processi politici praticati fino alla guerra lampo di al-Baghdadi e ai suoi proclami di ricomposizione messianica della Umma arabo-musulmana. Scrive Kissinger che "il mondo è abituato agli appelli del Medio Oriente per un ribaltamento dell'ordine regionale e mondiale al servizio di una visione universale. Una profusione di assolutismi profetici e' diventata il carattere identitario di una regione sospesa tra il sogno della sua antica gloria e la sua attuale incapacità di unificarsi su comuni principi di legittimità nazionale e internazionale"; ma poiché questa "abitudine" affermata da Kissinger pare non aver agito affatto nel giudizio sull'Isi, lasciando spazio a reazioni spesso contraddittorie (Obama si è smentito in pochi giorni), coglierne le ragioni può contribuire a una valutazione corretta del fenomeno. 

Dominique Moisi aveva proposto qualche tempo fa un progetto interpretativo interessante: in "Geostrategia delle emozioni" (Garzanti, 2009) procedendo dopo quanto aveva scritto Francis Fukuyams su una presunta fine della Storia, sottolineava come le analisi strategiche andrebbero accompagnate da una attenta considerazione oltre che delle motivazioni politiche ed economiche anche delle reazioni emotive delle società umane; e individuava tre grandi aree di omogeneità "nazionale": l'Occidente, segnato da un forte emotività pessimistica dopo la perdita della sua storica centralità nella definizione degli equilibri mondiali; l'Asia, segnata al contrario da una diffusa consapevolezza ottimistica, per l'acquisizione ora di quella centralità; e infine il mondo dell'Islam, marchiato da un depresso status di umiliazione per aver smarrito nei secoli quella centralità che aveva invece posseduto a lungo quando dominava le terre e i mari dall'Atlantico all'Estremo Oriente. 

 L'umiliazione. 

E' su questa "emozione" d'una nazione di molti popoli che opera l'Isis con una scelta strategica finora vincente. Ci aveva provato Saddam Hussein, rivendicando a se stesso il ruolo di nuovo Saladino, nella memoria del condottiero Salah al-Dinh ch'era stato l'ultimo eroe arabo a sconfiggere mille anni fa i Crociati (l'Occidente degli infedeli): da quel tempo, e dalla riconquista musulmana di Gerusalemme, la Storia ha raccontato soltanto sconfitte per la bandiera verde dell'Islam, e i percorsi del tempo che scorreva erano passati accanto alle società arabe, sfiorandole senza mai coinvolgerle come protagoniste. Saddam aveva tirato su dalla polvere quella bandiera (vd. anche un mio testo: "Apocalisse Saddam", Bcd 2002), rivendicandone l'orgoglio, e questo spiega perché egli venisse ancora rispettato dall'intero mondo arabo pur dopo la sconfitta militare subita nel Desert Storm di George W. Bush. 

L'Isis parte da quel punto li', da quella "emozione" collettiva, da quella bandiera tirata su dalla polvere del tempo, e trova sensibilità aperte a coglierne senso e valori, come d'una vendetta che finalmente si può consumare. La Umma, la comunità universale dei musulmani, continua tuttora a restar fuori da quello che Kissinger definisce "il sistema Westfalia"; e comunque non è nemmeno ipotizzabile che il miliardo dei "fedeli" su muova tutto a schierarsi dietro gli stendardi neri di al-Baghdadi, perché odi settari profondi e immodificabili dividono Sunna e Shia, ema anche perché l'estremismo jihadista coinvolge nella sua prassi militante soltanto una piccola parte delle società dell'Islam. Ma certamente quell'avanzata trionfale nei deserti di Siria e Iraq scuote animi e memorie antiche. Scrive il primo numero di "Dabiq", la rivista on line appena pubblicata e che raccoglie il manifesto politico dell'Isi :"E' giunto il tempo, per intere generazioni annegate in oceani di disgrazia, cresciute con il latte della umiliazione, governate dalle più vili tra le genti, di sollevarsi. Il sole del jihad e' sorto. La bandiera della vittoria sventola alta". 

L'Isis tenta la polarizzazione del mondo (scrive ancora "Dabiq": "Il mondo e' diviso in due. Il campo dell'Islam e della fede. E il campo dei miscredenti e della ipocrisia"). E nel nostro campo si fanno purtroppo preda di questa predicazione tutti coloro che, ignorando o sottacendo la complessità della galassia che fa l'identità dell'Islam, predicano a loro volta una polarizzazione teologica nella quale "l'Islam e' il Male" (vd ora il recupero del pensiero di Oriana Fallaci). Ma non v'è dubbio che a loro giustificazione, l'impatto travolgente delle operazioni militari dell'Isis abbia giocato bene a sollecitare un adeguamento, innescando paure, terrori, angosce, che hanno travolto la razionalità che Kissinger comunque vedeva nella consumata "abitudine" del nostro mondo. 

L'efficacia della strategia dell'Isis e' infine rafforzata dalla straordinaria abilità mediatica con la quale viene condotta. Se Osama bin Laden inviava il suo "messaggio" a camera fissa, dal fondo di una caverna afghana, ed era anche obbligato a chiedere l'intervento dei media per poter rendere pubblico il suo appello, e lui era davvero la preistoria dell'Inf Tech, l'Isis sfoggia invece nel proprio "messaggio", non soltanto una autonomia di intervento diretto e senza mediazione fin dentro l'ultimo computer di casa nostra, ma anche una sapienza tecnica, una raffinatezza di montaggio, una capacità di articolazione del linguaggio espressivo tra primi piani, dettagli, campi lunghi, che sfondano le resistenze della nostra ricezione, e ci riportano ancora una volta a riconoscere che davvero la centralità del nostro tempo sta interamente nella comunicazione e in una sapienza scientifica del suo uso. Ancora una volta, il medium e' il messaggio. 

La manipolazione passa anche attraverso l'impianto simbolico della narrazione: lo sgozzamento e la decapitazione sono solo un'immagine, un tormento indicibile, un'idea sollecitata e proiettata dentro di noi, ma mai si vede il sangue; e Folley, Sotloff, Haines, sono tutti in ginocchio, prede impotenti, sconfitte, umiliate, mentre alle loro spalle, ritto in piedi, fiero, forte, dominante, sta il loro assassino, l'uomo nero simbolo della potenza ora invincibile delle armate di Isis, figlio spurio di un Occidente che riconosce nelle bandiere del deserto la nascita di una storia nuova: la storia del riscatto che chiude i mille anni della umiliazione. La guerra era propaganda, ora e' pubblicita'. 

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