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October 2, 2014

Perché la guerra è buona
di Robert Kaplan

Alcuni dei momenti più terrificanti della mia vita sono stati in mezzo ai conflitti; con i marines americani a Fallujah nel 2004 e con le bande armate in Sierra Leone nel 1993, durante la guerra Iran-Iraq nel 1984 mi trovavo accanto a cumuli di soldati iraniani morti, adolescenti in realtà. L'orrore della guerra è una realtà che ho sperimentato in prima persona. E ancora penso che un analista non debba mai cedere alle sue emozioni. Lui o lei deve vedere la storia con un cuore di ghiaccio per trovare i modelli che agli altri mancano. Questo è ciò che fa il professor Ian Morris di Stanford nel suo nuovo libro, Guerra! A che cosa serve? Conflitto e il progresso della civiltà dai primati ai Robots. Morris, è un archeologo e uno storico, dopo aver sondato migliaia di anni di storia ne esce con la tesi, apparentemente sorprendente, che il progresso umano è stato aiutato, piuttosto che ostacolato, dalla guerra.

Come egli scrive, "combattendo guerre, le persone hanno creato grandi società, più organizzate che hanno ridotto il rischio che i loro membri morissero violentemente."

Infatti, nell'età della pietra, avevi una probabilità del 20 per cento di morire violentemente per mano di un altro essere umano. Ma nel 20° secolo, anche con le trincee, anche con Hitler, con Hiroshima, con il terrorismo e con tutta una serie di guerre del Terzo Mondo, si ha solo una possibilità dell’1 o 2 per cento di morire violentemente. Sì, ben 200 milioni di persone sono morte nelle guerre, in tutto il novecento, ma circa 10 miliardi di vite sono vissute in quel periodo. Si potrebbe obiettare che questo è solo una questione di produzione alimentare che supera la produzione di fucili d'assalto, in modo che la violenza non venga veramente soppressa ma sopraffatta dalla scienza. Ma Morris vede un altro fattore: l'ascesa del Leviatano di Hobbes* che poteva venire solo dalla guerra stessa.

Un Leviatano è il mostro orribile che Giobbe vide nella Bibbia, il re di tutti i figli della superbia. Il filosofo inglese Thomas Hobbes, nel 1651 secolo ha utilizzato quel concetto come metafora di un governo centrale forte che, monopolizzando l'uso della forza, renderebbe gli uomini non più timorosi l’uno dell’altro, ma solo delle autorità sopra di loro. Tale era la strada verso il progresso pacifico. Morris mostra che, ironia della sorte, nel corso della storia il Leviatano non viene generalmente creato da una discussione ragionata, ma dalla guerra. Egli lamenta che è così, ma dimostra che l'umanità non ha finora trovato nessun altro modo.

Morris racconta la terribile pura delle conquiste di Roma per le tribù del nord d'Europa. "Roma fece un deserto e lo chiamarono pace", divenne famoso adagio. Ma quel deserto, egli prosegue, è diventato la parte più produttiva e più sviluppata della Grande Europa e del bacino del Mediterraneo, anche se la vita sotto il dominio romano era più sicura e più prevedibile per la persona media rispetto a qualsiasi altra parte dei cosiddetti distretti barbarici adiacenti a Roma. Il Leviatano ha sedato la violenza, anche se la richiedeva. Il filosofo politico Francis Fukuyama nel suo libro del 2011, Le origini dell'ordine politico, ha posto la domanda, come si arriva alla Danimarca? Danimarca come metafora di una comunità umana politica ed efficace. Morris risponde in sostanza che si arriva alla Danimarca partendo da Roma.

Un tema che attraversa il libro di Morris è che, mentre alcuni idealisti adorano le società primitive e i nobili selvaggi che le popolano, le società primitive, piuttosto che ritiri idilliaci sono più spesso riempite con mostri umani terrificanti, associati al romanzo del 1954, di William Golding, Il Signore degli Mosche. Così, l'idea è di incorporare società primitive all'interno del Leviatano, di solito ha successo attraverso la conquista militare.

Naturalmente, il Leviatano può essere periodicamente peggio delle società meno organizzate che conquista. La Germania di Hitler e l'Unione Sovietica di Stalin erano Leviatani. Così, anche, su scala minore, lo sono stati la Siria di Hafez al Assad e l'Iraq di Saddam Hussein. Ma ricordate, Morris sta scrivendo su grandi modelli durante l'intero arco della storia, e quindi le sue generalizzazioni non possono, per definizione, essere perfette. Egli ammette che "teorizzare su come funziona la guerra su un orizzonte temporale di millenni potrebbe sicuramente sembrare uno scherzo crudele per le persone reali uccise in conflitti armati fin dall'antichità, cosìcchè le implicazioni morali della sua tesi sono, per forza, inquietanti."  Per quanto Shakespeare ammise nell’Enrico V, "pochi muoiono bene come in una battaglia."

Inoltre, la marcia verso un’umanità più pacifica dall'età della pietra al 20° secolo non è stata costante, ma piena di zig-zag selvatici. In particolare, Morris chiama l'anarchia del Medioevo "il culmine di un millennio di guerre controproducenti seguite alla ripartizione degli antichi imperi." Difficile come può essere crederlo, in generale, l'imperialismo ha fatto avanzare l'umanità rendendola più sicura e più ricca, aspirando ad un universalismo ben oltre le tribù e le etnie. L'imperialismo tentato da Hitler si è bruciato dopo pochi anni, a causa del suo stesso estremismo, mentre Roma,l’ antica Persia, Venezia, l’Olanda, la Francia, la Gran Bretagna e l’America, tutti hanno favorito, chi più chi meno, lo sviluppo umano attraverso vari tipi di imperialismi come di imprese. E tutti l’hanno fatto in misura significativa attraverso la guerra.

L'imperialismo ha portato alla fine a quello che Morris chiama "globocop", un ruolo che gli Stati Uniti hanno giocato, per quanto imperfettamente, dopo il crollo dell'impero sovietico. L’America potrebbe entrare nei pantani del Medio Oriente, ma la sua Marina e l’Air Force, per non parlare della reputazione delle sue forze di terra e degli apparati di intelligence, hanno progettato potere in tutto il mondo, e fino ad oggi lo hanno fatto in modo da ridurre il livello dei conflitti eliminando il rischio di grandi guerre interstatali. Gli Stati Uniti, da parte loro, sono diventati una società complessa e produttiva, in gran parte grazie ai rigori che hanno attraversato nella pianificazione del conflitto armato, in particolare la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Morris avrebbe potuto aggiungere al suo testo che l'istruzione universitaria di massa, l'esplosione della vita suburbana e dei diritti civili per le minoranze erano tutte espressioni della democratizzazione della vita americana che sarebbe stato difficile immaginare senza l'unità nazionale imposta dal dover combattere i nazisti e i giapponesi.

Morris esplora vari scenari per la futura guerra, dalle insurrezioni alle guerriglie ai guerrieri robotici, fino ai missili nello spazio. Egli tende ad essere ottimista, ritenendo che l'umanità, dopo millenni di guerra possa raggiungere un punto culminante, in cui il numero di esseri umani uccisi da altri esseri umani continua a scendere drasticamente. In questo, egli è in sintonia con il libro del 2011 del professore di psicologia di Harvard Steven Pinker, I migliori angeli della nostra natura, che vede anch’esso una continuazione nel declino della violenza umana.

Tenete a mente, però, che questi scenari ottimistici e altri ,possono, tra le altre cose, essere prodotti dei loro tempi. In quanto viviamo ancora relativamente bene nel periodo post seconda guerra mondiale, in cui la più grande guerra interstatale della storia ha portato a 70 anni senza guerre interstatali tra le grandi potenze. Il 19° secolo in Europa, tra la conclusione delle guerre napoleoniche e lo scoppio della prima guerra mondiale, fu un periodo simile in cui molte persone hanno persero il senso del tragico solo per essere sconvolti da ciò che venne dopo. Possiamo solo sperare che la difesa di Morris della guerra in realtà risulti esatta, in modo da poter continuare a godere di una relativa pace.

Note

* Il libro più conosciuto di Thomas Hobbes, pubblicato nel 1651, tratta il problema della legittimità e della forma dello Stato, rappresentato sulla copertina della prima edizione come un gigante costituito da tanti singoli individui; il gigante regge in una mano una spada, simbolo del potere temporale, e nell'altra il pastorale, simbolo del potere religioso, a indicare che, secondo Hobbes, i due poteri non vanno separati.


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October 2, 2014

Why War Is Good
By Robert Kaplan

Some of the most terrifying moments of my life have been in the midst of conflict: with American marines in Fallujah in 2004 and with armed bands in Sierra Leone in 1993. I stood next to mounds of dead Iranian soldiers, teenagers actually, during the Iran-Iraq War in 1984. The horror of war is a reality I have experienced firsthand. And yet an analyst must never give in to his or her emotions. He or she must view history with a heart of ice to find patterns that others miss. This is what Stanford classics professor Ian Morris does in his new book, War! What Is It Good For? Conflict and the Progress of Civilization from Primates to Robots. Morris, both an archaeologist and a historian, surveys thousands of years of history and comes away with the seemingly startling thesis that human progress has been helped, rather than hindered, by war.

As he writes, "by fighting wars, people have created larger, more organized societies that have reduced the risk that their members will die violently."

Indeed, in the Stone Age, you had as much as a 20 percent chance of dying violently at the hands of another human being. But in the 20th century - even with the trenches, even with Hitler, with Hiroshima, with terrorism and with a panoply of Third World wars - you had only a 1 or 2 percent chance of dying violently. Yes, as many as 200 million people may have died in wars throughout the 1900s, but roughly 10 billion lives were lived during that period. One may argue that this has merely been a matter of food production outpacing the production of assault rifles, so that violence has not so much been suppressed as overwhelmed by science. But Morris sees another factor: the rise of Hobbesian Leviathans that could only come about by war itself.

A Leviathan is the horrifying monster that Job beheld in the Bible, the "king over all the children of pride." The 17th century English philosopher Thomas Hobbes used the concept as a metaphor for a strong central government that, by monopolizing the use of force, would make men no longer fear each other but only the authorities above them. Such was the way toward peaceful progress. Morris shows that, ironically, throughout history Leviathan has generally been created not by reasoned discussion but by war. He laments that this is so but demonstrates that humanity has thus far found no other way.

Morris recounts the sheer dreadfulness of Rome's conquests over the northern tribes of Europe. "Rome had made a wasteland and called it peace," went the famous adage. But that wasteland, he goes on, became the most productive and the most developed part of Greater Europe and the Mediterranean basin, even as life under Roman rule was safer and more predictable for the average person compared to any of the so-called barbarian precincts adjacent to Rome. Leviathan quelled violence, even as it demanded it. The political philosopher Francis Fukuyama in his 2011 book, The Origins of Political Order, posed the question, how do we get to Denmark - Denmark being a metaphor for a humane and efficient polity? Morris essentially answers that we get to Denmark by starting with Rome.

A theme that runs through Morris' book is that while some idealists worship primitive societies and the noble savages who populate them, primitive societies rather than idyllic retreats have more often been filled with the terrifying human monsters associated with William Golding's 1954 novel, Lord of the Flies. Thus, the idea is to incorporate primitive societies within Leviathan, and that has usually happened through military conquest.

Of course, Leviathan can periodically be worse than the less organized societies it conquers. Hitler's Germany and Stalin's Soviet Union were Leviathans. So, too, on a smaller scale, were Hafez al Assad's Syria and Saddam Hussein's Iraq. But remember, Morris is writing about grand patterns throughout the entire sweep of history, and therefore his generalizations cannot, by definition, be perfect. He admits that "theorizing about how war works over a timescale of millennia would surely have seemed like a cruel joke" to the real people being killed in armed conflicts as far back as antiquity, so that the "moral implications" of his thesis are, perforce, "unsettling." For as Shakespeare put it in Henry V, "few die well that die in a battle."

Moreover, the march toward a more peaceful humanity from the Stone Age to the 20th century has not been steady but full of wild zigzags. In particular, Morris calls the anarchy of the Middle Ages the culmination of a millennium of "counterproductive wars that followed the breakdown of the ancient empires." Hard as it may be to believe, in general, imperialism has advanced humanity by making it safer and wealthier, and by aspiring to a universalism beyond tribe and ethnicity. Hitler's attempt at imperialism burnt out after a few years because of his very extremism, whereas Rome, ancient Persia, Venice, Holland, France, Great Britain and America have all fostered, more or less, human development through various kinds of imperialist or imperial-like enterprises. And they have all done so in significant measure through war.

Imperialism has led ultimately to what Morris calls a "globocop," a role that the United States has played, however imperfectly, since the collapse of the Soviet Empire. America may get into Middle Eastern quagmires, but its Navy and Air Force, not to mention the reputation of its land forces and intelligence apparatus, project power sufficiently throughout the world so as to reduce the level of conflict and so far eliminate major interstate war. The United States, for its part, has become the complex and productive society it is largely thanks to the rigors it has passed through in planning for armed conflict, especially World War II and the Cold War. Morris might have added to his text that mass college education, the explosion of suburban life and civil rights for minorities were all expressions of the further democratization of American life that would have been hard to imagine without the national unity enforced by having to fight the Nazis and the Japanese.

Morris explores various scenarios for future warfare, from guerrilla insurgencies to robotic warriors to missiles in space. He tends to be optimistic, believing that humanity after millennia of war may reach a culmination point, in which the number of humans killed by other humans continues to drop dramatically. In this, he is in league with Harvard psychology professor Steven Pinker's 2011 book, The Better Angels of Our Nature, which also sees a continuation in the decline of human violence.

Keep in mind, though, that these optimistic scenarios and others may, among other things, be products of their times. For we still live in the relatively benign aftermath of World War II, in which the greatest interstate war in history has led to 70 years without interstate war between the great powers. The 19th century in Europe, between the conclusion of the Napoleonic Wars and the outbreak of World War I, was a similar period when many people lost their sense of the tragic only to be shocked by what came afterward. We can only hope that Morris' defense of war actually proves accurate so that we can continue to enjoy relative peace.


Robert D. Kaplan is Chief Geopolitical Analyst at Stratfor, a geopolitical intelligence firm, and author of Asia's Cauldron: The South China Sea and the End of a Stable Pacific. Reprinted with the permission of Stratfor.

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