http://www.greenreport.it L’accesso alla terra è ormai un problema di diritti umani Non è una novità che l’iniqua distribuzione della terra, accelerata dai processi di land-grabbing, finisca per spodestare i piccoli proprietari e contadini. Qualcuno, come l’economista neoliberista della Banca Mondiale Hernando de Soto, ha sostenuto che basterebbe procedere a una massiccia formalizzazione dei titoli di proprietà e godimento della terra a vantaggio di chi di fatto ne fruisce, per garantire transazioni eque, trasferimenti di titoli fondiari trasparenti, ed evitare ogni sorta di abusi. Si tratta tuttavia di una visione pericolosamente semplicistica, che cancella, sotto l’apparente uniformità del diritto positivo, le sproporzioni di potere che di fatto condizionano le relazioni fra piccoli proprietari e latifondisti, siano essi investitori stranieri, multinazionali, fondi pensione a caccia di beni-rifugio, o membri della nascente borghesia terriera africana. Anche senza contare le pressioni esercitate dalla fluttuazione dei prezzi delle materie agricole, oggetto di speculazioni sui futures, e la tendenza all’indebitamento promossa consciamente dalle politiche liberiste, la possibilità di ricorrere in giustizia e di far valere i propri diritti di proprietà non è di fatto identica per mettiamo la Coca-Cola e per una famiglia anonima dell’entroterra del Mozambico. Per questo, fin dal 2006, anno della Conferenza internazionale sullo Sviluppo Rurale (ICAARD) la FAO sostiene la necessità di favorire la redistribuzione e la deconcentrazione della proprietà fondiaria a favore dei piccoli proprietari: non limitarsi a confermare e congelare lo status quo con il titling di Hernando de Soto, ma redistribuire le risorse, e garantire un accesso equo a un bene fondamentale che per il 20% dell’umanità rappresenta la principale fonte di sostentamento. Sembra una proposta rivoluzionaria, e invece è parte del diritto internazionale. Il sapore spartachista della rivendicazione, in effetti, esprime bene il fatto che, dalle serre dell’Andalusia alle piantagioni del Paranà, dal Vietnam a Rosarno, la schiavitù formale o coatta è tragicamente diffusa nei campi di tutto il mondo. Il 17 aprile il movimento contadino internazionale celebra la giornata mondiale delle lotte rurali, in memoria del massacro, avvenuto nel 1996, di Eldorado dos Carajás, quando 19 attivisti del Movimento Sem Terra furono trucidati e 69 gravemente feriti dalla polizia brasiliana istigata dai latifondisti. Ogni anno, ogni mese, decine di contadini in giro per il mondo sono minacciati, pestati, uccisi o fatti sparire per aver difeso il loro diritto alla terra e alle risorse. Alla luce della gravità e frequenza degli abusi, e con la pressione della Via Campesina, dal 2010 lo Human Rights Council dell’ONU sta studiando la fattibilità di nuovo trattato internazionale, per la promozione dei diritti delle popolazioni vulnerabili delle aree rurali, primi fra tutti i sindacalisti agrari e contadini. A partire dall’estate 2013, la proposta ha varcato una tappa importante, ed è stata sottomessa all’attenzione di un gruppo di lavoro intergovernativo. L’UE, che di questo trattato non vuole neanche sentir parlare, brilla per negazionismo, fingendo di ignorare perfino i frequenti richiami dello Special Rapporteur sul diritto al cibo. Forse perché i fondi europei continuano a incentivare pratiche predatorie della terra e delle risorse, nelle quali saltuariamente trovano la morte gli attivisti che osano opporsi (come successo recentemente in Senegal, su un territorio sottratto alle comunità locali per produrre biocarburanti). A ridosso di un’elezione europea di importanza strategica, il 17 aprile rappresenta una data fondamentale per ricordare che la questione dell’accesso alla terra è un problema di diritti umani, e non di registri e notai.
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