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6/07/2014

Obama e il soccorso dell’ape regina
di Giulio D’Antona

La Casa Bianca ha emesso un memo che riguarda il futuro degli insetti impollinatori, e dell'umanità

Quello che fa la regina, fa il resto dello sciame. E quello che fa il resto dello sciame determina la disponibilità delle risorse alimentari mondiali. Poco più di una settimana fa, il presidente Obama ha firmato un memo ufficiale che sollecita un provvedimento del governo federale sulla questione che da qualche anno mette Apis mellifera, l’ape comune, in una posizione di estrema responsabilità — e estremamente delicata — nei confronti del futuro dell’umanità. Considerando le 100 colture che provvedono per il 90 per cento all’alimentazione umana, si considera che 71 siano impollinate quasi esclusivamente dalle api. È facile disegnare lo scenario catastrofico che si prospetta togliendo a questi numeri l’agente fondamentale, come è facile capire il perché della preoccupazione della Casa Bianca — forse un tantino tardiva rispetto all’evolversi del problema — per una questione tanto disequilibrata tra le dimensioni del protagonista e quelle del danno plausibile.

Se si dovesse togliere dal piatto, con uno sforzo più scellerato che immane, la disastrosa carenza di risorse successiva alla scomparsa delle api dal globo, rimarrebbe comunque un buco di 207 miliardi di dollari l’anno che le industriose bestioline impilano diligentemente, provvedendo all’impollinazione di un’ottima fetta di colture agricole e piante da frutto — più di 100mila specie, per chi volesse i numeri. La risposta del gabinetto Obama arriva dopo anni di girare attorno al problema, con picchi più o meno evidenti di preoccupazione, quasi sempre aggirati da problemi più urgenti. Sia Ue che Usa hanno prodotto una documentazione piuttosto esaustiva nel corso degli anni, ma è stata l’Europa ad arrivare per prima al nocciolo. O a uno dei noccioli. Cosa sta succedendo alle api, e perché?

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Negli ultimi dieci anni la popolazione mondiale di api è diminuita drasticamente di numero. Il calo è stato osservato in vari Paesi dell’Unione Europea — tra cui Italia, Belgio, Svizzera, Germania, Francia, Paesi Bassi e Regno Unito — mentre dal 2005 in Nord America è stato registrato il minimo storico da cinquant’anni a questa parte (il numero di api nordamericane sarebbe più che dimezzato rispetto al 1945, mettendo questo dato in prospettiva mondiale si ha un calo critico di un terzo della popolazione). Parliamo di colonie di api allevate, ovvero gli animali che rappresentano il massimo ascendente di controllo delle impollinazioni delle colture agricole, e il fenomeno ha preso il nome di Ccd (Colony collapse disorder), ovvero “sindrome di spopolamento degli alveari”. Il perché della moria è argomento di dibattito ma intanto le api continuano a cadere. Come mosche verrebbe da dire.

In un report di ricerca del 2013, del dipartimento dell’Agricoltura statunitense, sullo stato di salute degli alveari, individua una decina di cause plausibili ma non ne isola nemmeno una. Da questa indecisione il ritardo nella presa di posizione degli organi ufficiali. D’altra parte, la Ue poco più di un anno fa, aveva scelto dal mazzo l’unica ragione che poteva sembrare probabile ma che lasciava alcuni dubbi di carattere pratico. Con ordine: secondo i ricercatori statunitensi, le cause della diminuzione nelle popolazioni di Apis mellifera, sono da individuarsi in una concorrenza di fattori diversi. Si va da fattori biologici — il parassita Varroa destructor, ad esempio, Aethina tumida, lo scarabeo degli alveari, o le epidemie virali — a cause di stress ambientale, passando per la più classica tra le cause antropiche: l’uso sregolato di pesticidi dannosi, unico fattore degno dell’attenzione della Ue che lo scorso aprile, dopo un precedente provvedimento che sosteneva diciassette stati membri nella sorveglianza delle popolazioni, ha stanziato un blocco di due anni all’uso di sostanze neonicotinoidi, ritenute letali per gli individui adulti in caso di utilizzo massivo e inibenti nel caso di un utilizzo ridotto — le api a contatto con tali sostanze, anche in parte minima, son sarebbero più in grado di individuare le fonti di sostentamento, di tornare agli alveari e di riprodursi.

Quando Einstein diceva che «senza le api all’umanità resterebbero circa quattro anni di vita» e il romanziere canadese Douglas Coupland immaginava le conseguenze dell’ecatombe in Generazione A, non cadevano troppo lontani da quella che potrebbe essere la verità. Se ispirato dallo scienziato o dallo scrittore è difficile da dire, ma pare che Obama sia finalmente arrivato a vedere i contorni, ronzanti e vibranti, del problema.

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In realtà, l’interesse del presidente per lo stato di salute delle api nordamericane sembra solo affiorare dalla latenza. Qualche mese fa il consigliere particolare Dan Pfeiffer nel corso di un’intervista rilasciata a Politico, menzionava la preoccupazione di Obama per «la riduzione degli esemplari, che deve avere qualcosa a che fare con i cambiamenti climatici», e se c’è una cosa che non si può imputare a questa amministrazione, e in generale alla sensibilità dei democratici, è una scarsa attenzione ai problemi ambientali. Anche nel pratico la Casa Bianca non scherza affatto, il consigliere Sam Kass — che si occupa anche di cucinare (sic!) per la famiglia presidenziale, ma solo nei weekend — ha discusso a fondo del problema con Obama, tanto da convincerlo ad ampliare gli orti di pertinenza e ad aggiungere un “pollinator’s garden”, una porzione di giardino controllata dagli impollinatori. Da lì al Pollinator’s act, il passo è breve, senza contare che per il Congresso si aggirano personaggi influenti e appassionati come Micheal Eggman, democratico, apicoltore, fondatore e membro della Beekepers Mafia, qualsiasi cosa voglia dire.

Il fatto che il colosso si stia girando dalla parte giusta per avere un’angolazione favorevole sul problema è positivo, al di là dei tempi biblici che il movimento ha richiesto — se le tempistiche stimate all’inizio fossero state attendibili a quest’ora i quattro anni einsteniani sarebbero un vago ricordo, e l’umanità assieme a loro. La speranza è che chi si sta occupando di trovare una soluzione non si perda dietro l’individuazione del problema, che l’esempio europeo dia una spinta e un’oliata alla mastodontica macchina burocratica americana e che, alla fine, aiuti anche l'amministrazione in carica a recuperare un po’ del terreno perduto. Se vogliamo vederla così, Barack Obama ha il taglio e lo spirito dell'ape regina e adesso deve convincere di non essere ancora pronto ad abbandonare l'alveare. Lo sciame lo capirà, quando sarà il momento, e con la sua fame, continuerà a nutrire il mondo. 

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