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5 gennaio 2014

Congo, viaggio alla fine del mondo: il sogno dell’Europa e le carceri di Kinshasa
di Eleonora Bianchini

I detenuti nella capitale della Repubblica Democratica del Congo. La povertà, i militari in cerca di soldi e alcolici e la soggezione nei confronti dell'uomo bianco. Racconto di un Paese tra i più ricchi di risorse naturali del mondo e col Pil procapite più basso in assoluto

Il 30 dicembre oltre 100 ribelli sono stati uccisi tra Kinshasa e Lumumbashi. Parlavano di tentato colpo di Stato. Nella capitale della Repubblica Democratica del Congo erano state assaltate la tv pubblica, l’aeroporto e lo Stato maggiore. Questo è quanto ho letto sui giornali italiani al ritorno. In Congo, invece, le notizie erano confuse, incerte. Ognuno con la sua versione da raccontare e tutti convinti che, in fondo, non avrebbero mai saputo la verità. Pare che, alla fine, sia stato un regolamento di conti interno all’esercito. Alcuni seguaci del pastore ex candidato alle presidenziali del 2006, Joseph Mukungubila Mutombo, avrebbero assaltato i tre obiettivi armati di machete, vestiti in abiti civili. Per il portavoce del governo, Lambert Mende, le vittime erano 95 aggressori e otto membri dell’esercito. Il tentato colpo di Stato è solo un tassello del viaggio in uno dei Paesi più ricchi al mondo di cobalto, diamanti e risorse naturali, ma col Pil più basso in assoluto e dove, in media, si muore a 48 anni. Il reddito procapite annuale è di circa 270 dollari, meno di uno al giorno. Nella Rdc, che vive in buona parte con gli aiuti umanitari di Monusco (Missione di stabilizzazione delle Nazioni Unite), l’uomo bianco è per alcuni un’entità superiore, per altri uno sfruttatore. L’Europa, però, è il paradiso immaginario. Un sogno su cui decine di églises de Réveil (“chiese del risveglio”), sette cristiane che promettono ai fedeli l’arrivo e la ricchezza nel Vecchio Continente, costruiscono la loro fortuna. Fanno leva sulla disperazione dei congolesi, in balia di povertà, superstizione e stregoneria. Motivo per cui è meglio non fare foto o, al massimo, farle di nascosto. “Perché la fai a qualcuno che non conosci? Alcuni possono pensare che la usi per riti strani”, mi spiegano. A Kinshasa c’è chi è diventato schizofrenico a forza di parlare di Europa. Vaga senza meta, parla al vento. E’ impazzito perché lì non ci è mai potuto arrivare. 

Le prigioni di Makala – E’ il carcere principale di Kinshasa, 6400 detenuti divisi in pavillon, “padiglioni”. All’ingresso, alle visitatrici, danno un quadratino di carta giallo “da non perdere, altrimenti non ti fanno uscire. E non dire che sei giornalista”. Ci sono uomini, donne, minori, malati, detenuti politici. Una città nella città, labirinto di corridoi all’aperto tra visite dei parenti, mercatini interni e corruzione senza fine. I secondini sono alcuni condannati, i più fortunati: li chiamano governateur, hanno posizioni di potere all’interno del carcere, decidono gli “incarichi” degli altri prigionieri e li controllano. Un sistema repressivo talmente efficiente da garantire un ordine ineccepibile. Tanti detenuti non sono chiusi in cella. Non ce n’è bisogno. Stanno all’aperto, tra la polvere dei passaggi di terra battuta, nei cortili dentro le mura carcerarie, sotto il sole sempre opaco e pungente, avvolti dall’umidità. A tanti carcerati vengono affidati presunti ruoli di responsabilità. C’è chi è contabile, chi siede nella commissione disciplina incaricata di vigilare sulla condotta dei compagni di padiglione. Passiamo tra loro, siamo tre bianchi. Sorridono con soggezione, ci stringono la mano, ci fissano a lungo. Impossibile passare inosservati, passare e basta. Ci accompagna suor Anna, già infermiera in una prigione in Togo. “Spesso, la mattina, trovavo un morto in infermeria. La diagnosi non era mai ‘morto di fame’, non si poteva dire. Eppure era così”. 
Anche a Makala, come in tutto il Paese, mangiare non è scontato. Bisogna essere fortunati, conoscere le persone giuste dentro al carcere, avere soldi – anche per dormire su un materasso si paga. Altrimenti a terra, e sulla terra sporca e calpestata. Un pasto al giorno è un lusso. 
Lì dentro la religione è la sola distrazione, l’unica attività che abbia un senso. I carcerati, chi può e come può, autofinanziano la propria chiesa.
Suor Anna ci sconsiglia di chiedere il motivo della condanna. “Solo se si prende confidenza si può domandare, altrimenti si offendono”, spiega. In tanti non sanno nemmeno perché sono lì, aspettano di sapere il capo d’imputazione e sono in attesa di giudizio. Possono passare anni, spesso i dossier scompaiono. La burocrazia smarrisce le carte, i faldoni. A quel punto, bonne chance. Si è in balìa del destino, della fortuna e dei soldi. Chi può pagare 300 dollari al magistrato, magari, ha qualche possibilità. Tanti rimangono lì, sine die. 
Incontriamo anche un uomo vestito da militare che, all’ombra, ascolta musica assordante – la sentiremo più o meno ad ogni angolo di strada. Ha lo sguardo fiero e la disinvoltura di un uomo libero. Gli stringiamo la mano. È Edi Kapend, il colonnello accusato di avere ordito il complotto contro Laurent Kabila, padre dell’attuale presidente, ucciso nel 2001. Kapend era suo cugino nonché responsabile della sua sicurezza. Quanto rimarrà dentro? “Di certo fino a che Kabila figlio sarà al mondo”.
Dicono che le maman che controllano il padiglione femminile siano più severe degli uomini. All’ingresso alcune donne perquisiscono altre visitatrici. Allungano qualche centinaio di franchi e hanno il via libera, possono entrare. Il cortile nel padiglione delle donne è pieno di fango. Stanno lì, puliscono stancamente qualche pentola, un vestito. Si accovacciano senza lamentarsi nella polvere, tra i rifiuti, a fianco degli scoli a cielo aperto. Senza sapere neanche perché sono lì. Il momento più vivace della settimana è la messa. Ma, per partecipare, devono scrivere una lista coi nomi delle aspiranti da consegnare ai responsabili. Burocrazia su burocrazia solo per attraversare un cortile e pregare. C’è una signora anziana. La sua colpa, pare, è di avere dato ospitalità a tre minorenni che il giorno dopo avrebbero assaltato qualcuno con i machete. Di più, non sa. Non sa se e quando ci sarà il processo. Non ha soldi per pagare. Lei li aveva solo ospitati, senza chiedere nulla.
C’è anche il padiglione dei minorenni, hanno dai 13 ai 18 anni. Entriamo in una delle celle, anche quella non è chiusa a chiave. Sono circa in 40, tutti davanti alla tv, tutti a dire in coro “bonjour”. Hanno passato gli ultimi cinque giorni senza acqua corrente, quello era il primo in cui potevano lavarsi. Anche qui, chi ha i soldi, ha un letto. Chi è senza, a terra. A Kinshasa ci sono oltre 40mila bambini di strada, spesso abbandonati dalle famiglie perché accusati di portare sfortuna, essere la causa di malattie o problemi in famiglia. Finiscono per strada, a imbottirsi di sedativi a basso costo per stordirsi. Abbandonati da tutti, vivono di accattonaggio. Alcuni di loro finiscono a Makala. Se l’inferno esiste, lo immagino così.

Verso il Basso Congo – Partiamo all’alba del 28 dicembre dopo avere passato la notte al Foyer Saint Paul, studentato progettato e voluto da Coe (Associazione Centro Orientamento Educativo) che accoglie 60 giovani universitari congolesi e si occupa della loro formazione. Il nostro autista sniffa tabacco, parla lingala, dialetto della Rdc occidentale. Il volume della musica in auto è altissimo. Chiediamo di abbassare, ma al nostro amico congolese del Foyer, Firmìn, spiega che non può, altrimenti si addormenta. Parte “Heal the world” di Michael Jackson, dice che è l’unico cantante occidentale che conosce. A noi bianchi non rivolge né lo sguardo né la parola. C’è caldo, umidità. La strada verso Matadi è asfaltata, il paesaggio sempre lo stesso: bambini piccoli che giocano nel fango con capre e maiali nei villaggi, donne incinta o cariche di foglie di manioca, legna e figli, affaticate, pazienti. Uomini seduti a guardare il vuoto, a chiacchierare e a bere birra. Poi, la città. Matadi. Un formicaio, come Kinshasa. Il traffico è anarchia pura. Pulmini stracolmi di passeggeri, attaccati alle ante delle portiere, a qualunque appiglio per scroccare un passaggio. La gente corre mentre attraversa la strada. Le costanti: polvere, fango, rifiuti, fogne a cielo aperto. Le uniche foto le posso fare mentre siamo in macchina, sperando nessuno si offenda. Passiamo Matadi, direzione Boma. La strada è sterrata, è fango secco, una tormentata gimcana tra buche e dislivelli di decine di centimetri. Da Boma arriviamo a Nsioni, un villaggio. Lì conosciamo Jacques Courtejoie, medico belga ex dipendente Oms che si è trasferito in Congo nel 1958, “dove vuole morire ed essere sepolto“. Da allora ha sempre lavorato lì. Dopo tanti anni all’ospedale di Kangu, ora scrive libri per la formazione degli infermieri e dirige il il “Centre pour la Promotion de la Santé”. Si è sempre preoccupato di come informare la popolazione locale sulla profilassi comportamentale per evitare le malattie. La malaria, ad esempio. Ci racconta che, appena arrivato in Congo, aveva portato con sé un poster della Bayer che accostava la sagoma di un uomo a quella di una zanzara e spiegava come si contraeva la malattia. Nel disegno le proporzioni, dato lo scopo didattico, non erano rispettate. La zanzara era grande quasi come l’uomo. Le mamme congolesi a cui lo mostrò per prime scoppiarono a ridere. Credevano che il medico fosse fuggito dall’Europa perché gli insetti erano grandi quanto lui. Allora Jaques capì che la didattica che aveva usato fino a quel momento non sarebbe servita a niente. E iniziò a spiegare malattie, rischi e infezioni con storie, disegni e dialoghi nei quali i congolesi potessero identificarsi.

Di fronte all’Angola – Altre ore di macchina tra fango, terra rossa e  arriviamo a Mwanda, sull’Oceano Atlantico. L’acqua è scura, sporca, come la sabbia. Eppure ci sono alcuni pescatori e chi fa il bagno. Ci sono pozzi di petrolio e la foce del fiume Congo. Che significa anche sversamento di rifiuti in mare. Di fronte a noi c’è l’Angola, vediamo la costa. Nubi pesanti della stagione delle piogge, anche se caldo e umidità non ci abbandonano mai. Sul tragitto di andata e ritorno, alcune barriere indicano i pedaggi “peage“, scritto a mano. I militari ci fermano con un cenno della mano, si avvicinano. Chiedono soldi, come tutti, perché capita che passino mesi senza che lo Stato versi lo stipendio. “Soldi per la birra, vogliamo bere qualcosa, lì dietro [sul sedile posteriore, ndr] ci sono i bianchi”. E via 500, 1000 franchi. Circa 50 centesimi, un dollaro. Mentre il militare parla, i bambini si avvicinano a lui e alla nostra macchina, schiacciano il volto contro il finestrino e si appoggiano al fucile del poliziotto, forse senza munizioni, in cerca di familiarità davanti a qualcosa di così misterioso e insolito come un bianco. Si aggrappano a quel fucile come se fosse la mano di un adulto. 

L’ospedale di Kingasani – Torniamo a Kinshasa per visitare l’ospedale di Kingasani, uno dei quartieri più poveri della città. Lì più di altrove si respirano odore di fogna e rifiuti. Suor Claudia è in Congo da quasi vent’anni. E’ dell’ordine delle Poverelle di Bergamo, a cui appartenevano anche le sei suore morte di Ebola nel 1995 a Kikwit, diocesi suffraganea di Kinshasa. Per loro è in corso il processo di beatificazione. L’ospedale di Kingasani è una perla di cura e bellezza nel degrado del quartiere. Vediamo il reparto maternità. Tante donne, spesso giovanissime, aspettano il loro turno. Le suore spiegano che devono fare attenzione affinché i neonati non vengano rubati. Perché le africane che non possono avere figli “e non sono poche” se li portano via “per non avere problemi in famiglia”. Essere sterili è un disonore insopportabile, una maledizione. Poi c’è anche chi prende i bambini per atti di stregoneria e traffico umano. “Dobbiamo stare attente”, dice. Lì hanno costruito anche una casa di riposo per anziani. Tanti di loro vivevano in strada. Ora hanno trovato un letto, tre pasti caldi al giorno e assistenza. Nella stessa struttura c’è anche un bambino, ha meno di dieci anni. “L’ho trovato in un ospedale pubblico - spiega suor Claudia - L’avevano messo tra i matti, dove finiscono le persone di cui nessuno vuole occuparsi. Ma non sono mica matti, eh. Era legato mani e piedi, sporco dei suoi bisogni, pieno di piaghe. L’avevano bruciato e torturato. L’ho portato via con un’ambulanza”. Il bambino tace. Nessuno sa se, un giorno, vorrà parlare.

Un ringraziamento speciale a Coe – Associazione Centro Orientamento Educativo di Milano, Paolo Giacobazzi, Firmìn Mambimbi, la sua famiglia e il villaggio di Nsioni

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