http://www.iljournal.it I 100 anni del Tibet La nostra riflessione esclusiva sulla situazione del Tibet in occasione del compleanno del leader religioso supremo, il Dalai Lama e del centenario della proclamazione di indipendenza del Tibet
Domani, 6 luglio, è il compleanno del Dalai Lama, supremo leader religioso dei buddisti tibetani. I festeggiamenti vengono celebrati ogni anno con molta partecipazione dalla diaspora tibetana, ma quest’anno l’evento assume una rilevanza particolare: Human Ritghs Watch ha recentemente pubblicato un report inquietante sulla sistematica distruzione delle campagne del Tibet a spese della popolazione rurale; il governo cinese ha incrementato il controllo sociale e la repressione politica nelle città; quest’anno ricorre il centenario della proclamazione d’indipendenza del Tibet (1913); infine, il Dalai Lama ha dichiarato che potrebbe reincarnarsi in Italia. Questo weekend verrà organizzato a Torino il festival del Tibet alla presenza del premier del governo tibetano in esilio. Nyima Dhonup, presidente della Comunità Tibetana in Italia Onlus e docente universitario di lingua tibetana, è uno degli organizzatori. Il prof. Dhonup ha un’esperienza di vita simile a molti altri tibetani della diaspora: “Quando ero piccolo, la mia famiglia voleva mandarmi in India per studiare la nostra storia, ma io non volevo. Poi però sono fuggito nell’86, a 13 anni, e sono andato a Dharamsala. Ogni tanto telefono per sentire se i miei fratelli e le mie sorelle stanno bene, ma non possiamo parlare della situazione politica, perché è troppo rischioso. I telefoni di tutti coloro che hanno un conoscente all’estero sono sotto controllo. In Tibet non c’è libertà di pensiero, ma per fortuna io posso insegnare e diffondere la cultura e la lingua tibetana”. Secondo il prof. Dhonup la diffusione della cultura e dei saperi tibetani è fondamentale, perché in Tibet la repressione avviene anche con la distruzione della loro memoria storica e del loro patrimonio culturale. Per questo nel 1959 la prima cosa che fece il Dalai Lama in India fu fondare delle scuole tibetane. Tuttavia, lo sforzo degli uomini di cultura non è sufficiente. La causa tibetana necessita di nuova linfa politica, soprattutto dopo la repressione del 2008 e il fallimento del Middle Way Approach del Dalai Lama. Partiamo però dall’attualità con il rapporto di Human Rights Watch in primo piano.
La morte della campagna tibetana Nel 2006 la Repubblica Popolare Cinese ha avviato un piano nella Regione Autonoma del Tibet chiamato “Costruire una nuova campagna socialista”. Oltre due milioni di tibetani sono stati letteralmente “rehoused”, cioè espulsi dalle loro abitazioni e obbligati a trasferirsi in “nuovi villaggi socialisti”, costruiti appositamente a poche centinaia di metri di distanza dai vecchi villaggi. I villaggi socialisti sono il risultato di una pianificazione autoritaria, che non ha tenuto conto di consultazioni né di compensazioni. Sono vere e proprie città dormitorio, costruite con cemento e lamiere, in cui le case sono messe una in fila all’altra e organizzate per strade parallele. La nuova organizzazione è funzionale a un maggior controllo della popolazione. È un’operazione tragica per gli abitanti tibetani, che non hanno però alcuna possibilità di tornare alla vita precedente, perché i vecchi villaggi sono stati rasi al suolo. Data l’impossibilità per giornalisti e ricercatori di recarsi in questi luoghi, Human Rights Watch ha utilizzato alcune immagini satellitari per confrontare la differenza tra la situazione precedente e successiva alla distruzione. Le foto sono impressionanti: il cambiamento è più che radicale, è totale. Per di più, si tratta di un processo non ancora terminato. Secondo le autorità cinesi ci sarebbe un altro milione di tibetani da rialloggiare entro il 2014, di cui 130.000 sono nomadi. Anche i tibetani nomadi, infatti, hanno subito un destino ugualmente devastante: già 300.000 di loro sono stati costretti alla sedentarizzazione forzata in “villaggi socialisti”. Giacomella Orofino, docente di Lingua e letteratura tibetane all’università Orientale di Napoli, ha una posizione chiara sulla popolazione pastorale: “I nomadi hanno accumulato una conoscenza antica nella gestione del delicato ecosistema dell’altipiano tibetano, che ha permesso loro di conservare l’ambiente in cui vivono. Coloro che sono già stati forzati a diventare sedentari si sono estremamente impoveriti. Inoltre, molti di essi rifiutano il trasferimento nei nuovi villaggi e preferiscono recarsi nei centri urbani, dove però il rischio di esclusione sociale è molto alto”. Il governo cinese ha inviato inoltre 20.000 funzionari di partito nelle zone rurali e li suddivisi in gruppi di 5 persone per ogni villaggio. Questa operazione costerà allo Stato 227 milioni di dollari all’anno, circa un quarto dell’intero budget della Regione Autonoma del Tibet. Per non parlare della sola costruzione dei villaggi socialisti, che è costata addirittura 1 miliardo e mezzo di dollari (sic!). Secondo alcune testimonianze raccolte da Human Rights Watch, i tibetani delle campagne sono state catalogate secondo il loro pensiero politico in tre macro-categorie: coloro che appoggiano il sistema; coloro che parteggiano per il Dalai Lama ma non lo danno a vedere; e coloro i quali invece resistono apertamente contro le politiche cinesi. Molti di quelli classificati in quest’ultimo gruppo vengono trasferiti per periodi prolungati in appositi centri di “ri-educazione”, dove vengono obbligati a studiare a memoria i testi di riferimento del Comunismo. Paradossale data la svolta capitalista cinese. La propaganda cinese cerca di nascondere queste contraddizioni con nomi e slogan accattivanti. La costruzione dei villaggi socialisti, per esempio, è stata accompagnata dal motto “fortifichiamo le fondamenta, a beneficio delle masse”. Chi può beneficiare dalla totale distruzione dei propri stili di vita e delle proprie memorie storiche? “Nemmeno gli informatori tibetani, chiamati a sfregio “maiali”, ne traggono un reale vantaggio.” continua la prof. Orofino “Sicuramente ci sono collaboratori o individui corrotti che hanno piccoli benefici, ma si tratta pur sempre di profitti limitati”.
“1984” a Lhasa Cooptazione, controllo e repressione fanno enorme affidamento alla distruzione della memoria collettiva, perché un nemico che non conosce la sua storia è meno pericoloso. L’autoritarismo asfissiante dello Stato nelle zone rurali tibetane fa il pari con la repressione nei centri urbani. Quest’anno il governo cinese ha fatto un passo avanti in questo senso e ha avviato un nuovo piano di sicurezza cosiddetto “grid system”. Verranno attivati altre 600 postazioni di polizia e le città verranno potenziate ulteriormente di telecamere. Sophie Richardson, responsabile per la Cina di Human Rights Watch, non ha mezzi termini: si tratta di un sistema orwelliano. Alcuni analisti dicono che questo terrorismo di Stato nasce come reazione alle proteste della primavera 2008. Una parola chiave per giustificare questa aggressività statale è il “mantenimento della stabilità sociale”, parole apparentemente benigne che mascherano azioni violente e repressive. Tanto è vero che è una stabilità da preservare anche a suon di ruspe. Non passa inosservata nemmeno la leggendaria capitale del Tibet. “La situazione di Lhasa è molto grave” racconta la prof. Orofino “da anni stanno smantellato tutto il centro storico. La città è considerata un mandala, una città sacra per i tibetani. Al centro di Lhasa c’è il tempio Jokhang, attorno al quale si sviluppava la cittadella e lo storico bazar. Oggi il bazar è stato trasferito in un centro commerciale multipiano e molte case in pietra e legno della cittadella sono state smantellate per far spazio a nuove abitazioni. Tanto che oggi l’UNESCO ha eliminato Lhasa dalla lista delle città patrimonio dell’umanità”. Questa distruzione è stata documentata dal blog highpeakspureearth.com, che ha mostrato, con numerose foto, sia il cambiamento della capitale sia la prassi ormai consolidata dei tibetani di protestare pacificamente camminando attorno alla città vecchia attuando il rito della “circoambulazione”. Come premesso, alla distruzione è stata affiancata un controllo di sicurezza pervasivo. Oltre al “grid system” la Cina ha anche aumentato il controllo negli affari interni dei monasteri, tanto da arrivare a una loro gestione diretta. I monasteri sono luoghi dove ancora oggi si riescono a preservare i saperi tibetani. I monaci e le monache sono dunque persone altamente consapevoli della loro condizione di oppressione. Per questo sono individui maggiormente esposti a scelte politiche più eclatanti. Per loro, ma anche per molti civili, la protesta non-violenta può assumere anche altre vie: dal 2009, infatti, 120 tibetani si sono suicidati dandosi fuoco. Questi gesti estremi non fanno parte di una dimensione puramente individuale, ma rientrano in una cosiddetta “politica delle immolazioni”. Le auto-immolazioni, infatti, possono essere considerate atti politici, tattiche di resistenza, attentati suicidi non-violenti. Piero Verni sul suo blog “Free Tibet” scriveva ancora l’anno scorso: “Quale sia lo spirito alla base di queste drammatiche scelte lo spiega molto bene una sorta di testamento spirituale lasciato da Sopa Rinpoche, un importante monaco immolatosi con il fuoco l’8 gennaio 2012 (…) ‘Sacrifico il mio corpo come offerta di luce che riesce a disperdere l’oscurità. Compio una tale azione non per me stesso, non per realizzare un mio personale desiderio, non per ricavarne onore. Sacrifico il mio corpo con ferma determinazione e purezza di cuore, proprio come il Buddha offrì coraggiosamente il suo corpo a una tigre affamata’”. Le ragioni della Cina I dirigenti comunisti hanno interiorizzato la lezione dell’Unione Sovietica: a riforma economica non bisogna associare aperture politiche. Ci sono due considerazioni da fare. La prima riguarda la sicurezza nazionale cinese, la seconda la possibile frammentazione dello Stato. In primo luogo, la Cina considera il Tibet una regione imprescindibile: la Regione Autonoma del Tibet giace sull’altopiano più alto del mondo ed è una delle zone strategiche per la difesa del confine meridionale. Non a caso alcune stime dicono che in Tibet stazionano circa 500.000 unità militari e che ci siano circa 550 testate nucleari. Secondo il Partito Comunista, accettare le richieste tibetane legittimerebbe anche altre istanze in altre aree geografiche. In secondo luogo, il Tibet non è l’unica regione che ha sentimenti separatisti o che rivendica un’eredità culturale distinta dal cuore cinese. Le regione della Mongolia Interna e dello Xinjiang subiscono un ugual trattamento da Pechino. Anche lì la distruzione della memoria storica avviene in modo analogo, come ad esempio la “casbah” di Kashgar, nello Xinjiang appunto, una cittadella letteralmente rasa al suolo per motivi politici.
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