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08/07/2013

La frontiera perigliosa tra Siria e Turchia

Com’è fatta una frontiera? A volte è soltanto una linea immaginaria tracciata su una cartina, e nessuno saprebbe dirti esattamente dove passa. Questo racconto è stato creato sovrapponendo le esperienze dirette di diversi stranieri alla frontiera tra la Turchia e la Siria.

Altre volte è marcata rigidamente da una rete metallica o da un muro di cemento armato. Qui nelle profondità di Hatay, nel sud più a sud della Turchia, la frontiera con la Siria si materializza in una strada militare, larga e sterrata, tortuosa e polverosa, scavata attraverso le colline scoscese ricoperte di pini. Splende il sole oggi, sussurra la brezza, la terra sorride di verde, il mondo esplode di primavera.

A cosa serve qui una frontiera? Divide un paese in guerra da un paese in pace. Separa milioni di vittime dei bombardamenti e della miseria da una possibile salvezza. Un tempo questo confine non esisteva: l’hanno creato i francesi, durante il loro protettorato, nemmeno ottant’anni fa. Un tempo questo confine esisteva ma era aperto e la gente andava e veniva senza problemi. Un tempo… ma ora questa frontiera non è né aperta né chiusa, è una linea tratteggiata, è una rete a maglie larghe, è un enigmatico non-luogo, anzi sono più luoghi allo stesso tempo.

 Guardali, sul bordo della collina. Una decina di profughi siriani appena arrestati dalle guardie di frontiera turche. Volevano entrare in Turchia per trovare riparo nei campi di rifugiati o per ricongiungersi con i loro familiari in città. Ieri ne son passati in tanti, ma oggi la rete si è chiusa. Li hanno pescati e li ributteranno a mare, nell’oceano tempestoso della guerra civile, perché di rifugiati ce ne sono già troppi, i turchi non ne vogliono più.

 Guarda proprio davanti a loro, al di là della strada. Una macchina è appena approdata al confine dalla parte siriana, porta con sé un sopravvissuto, un naufrago, l’ennesimo ferito di questo assurdo conflitto. Un’ambulanza è venuta a prenderlo per portarlo in un ospedale turco. Sarà curato e potrà restare. I sani saranno respinti e dovranno tornare in Siria. I più determinati ci proveranno di nuovo.

 Guarda lì sotto, dietro alla curva, in basso. Nel mezzo del bosco, centinaia di tende bianche, vele spettrali di barche arenate a pochi passi dalla riva. Chi non ce la fa ad attraversare la frontiera, getta l’ancora qui. È un campo improvvisato per profughi disperati, traditi da promesse mancate, stipati in una tendopoli insalubre, tormentati dal rischio mai completamente escluso di un bombardamento aereo.

 Splendore di sole, profumo di resina, tripudio di monti, nostalgia di mare. In questo piccolo paradiso silvestre, la parola guerra non dovrebbe essere mai pronunciata. Dalla base militare turca, arroccata su un’altura, si vedono pennellate e pennellate di vallate smeraldine, orizzonti sfumati nell’indaco, riflessi abbozzati di arancione. La tavolozza della natura è più ricca della nostra immaginazione.

 All’improvviso un rumore nell’aria ti distrae. Un ronzio. Un brusio. Disperso in mezzo alle nuvole. Poi uno scoppio, in lontananza, portato dall’eco delle vallate. È un bidone esplosivo. Il ronzio continua. Si avvicina. Da dove proviene? Infine lo vedi, molto in alto, davanti a te: è un minuscolo puntino nel cielo, è un elicottero dell’esercito siriano. Talmente vicino che puoi scorgerlo a occhio nudo. Un altro scoppio. Sta sorvolando i villaggi vicino alla frontiera. Un altro scoppio. Poi due o tre colpi più attutiti: sono i tentativi contraerei dei ribelli, ma il velivolo è troppo in alto, non ci possono arrivare, il comandante turco scuote la testa. Un altro scoppio. Arriva una telefonata: uno dei villaggi è stato colpito. Poi lentamente il puntino sparisce dalla vista, il brusio si allontana. Lo spettacolo per questa sera è terminato. I militari turchi se lo vedono imperterriti, giorno dopo giorno, senza alzare un dito, seguendo i loro ordini.

 In questa bizzarra frontiera ne succedono di belle. Pochi chilometri più in là, vari camion si incontrano regolarmente sul confine, alcuni dal lato turco, altri dal lato siriano. Alcuni trasportano armi e munizioni; altri portano tende, materassi e provviste; altri ancora degli aiuti umanitari. I contrabbandieri pagano una mazzetta, le guardie di frontiera chiudono un occhio. Pochi chilometri più in qua, le stesse guardie o i loro colleghi intercettano alcuni operatori umanitari. Vanno a portare assistenza alla popolazione siriana. Ma oggi è il giorno sbagliato. L’esercito turco li arresta, li detiene, li deporta, li scaccia dal paese. Come se fossero semplici criminali. Nel frattempo gli aiuti saranno anche arrivati, ma non le persone che li dovevano distribuire.

 Un giorno si apre, il giorno dopo si chiude… è ballerina questa frontiera. Nata come semplice linea su una cartina, ora decide in maniera inappellabile del destino di migliaia di persone. E a farne le spese più di tutti sono loro, la popolazione civile, i profughi siriani.

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