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11 Agosto 2013

Storia di Muhammad, detto il Bruto
di Lorenzo Trombetta

Una rissa per le strade di Sidone, il ricordo delle torture nelle carceri di Assad che torna in vita. Racconto senza lieto fine sulla guerra in Siria, le vittime e i carnefici

Il Bruto ha le mani nei capelli e piange. È seduto sul marciapiede e ha la schiena appoggiata a una saracinesca chiusa in un vicolo del mercato della città vecchia di Sidone, il porto 40 chilometri a sud di Beirut. Il Bruto ha un nome, Muhammad. Ma tutti lo conoscono come al wahsh, “il bruto” appunto. Muhammad detto il Bruto ha appena picchiato a sangue un uomo. In mezzo alla strada. Senza che ve ne fosse apparente motivo. I clacson delle auto ferme nell’ingorgo causato dalla zuffa hanno impedito di comprendere le parole che Muhammad detto il Bruto urlava in faccia alla sua vittima. La sua vittima è il suo torturatore.

Muhammad detto il Bruto lo aveva incontrato quel giorno, per caso, nelle vie di Sidone. Diciannove anni prima quell’uomo, che ora appariva mite e intento a fare spese nei negozi del centro, era stato per due anni il custode della vita e della morte di Muhammad detto il Bruto. Il suo carceriere e torturatore è siriano, ma si è da poco trasferito a Sidone a causa della guerra che dilania la Siria.

Il carceriere e torturatore si chiama Hikmat. In città si dice che Hikmat abiti da solo e che sia sposato con una siriana rimasta in Siria e con una libanese originaria dell’Iqlim al Kharrub, nell’entroterra a sud di Beirut. Ma questo poco importa a Muhammad detto il Bruto, che ha appena riempito di pugni e calci Hikmat, dileguatosi chissà dove mentre ripeteva: «Io non c’entro niente! Mi chiamo Abdel Maamur. Non c’entro niente!».

L’inferno rosso

Muhammad detto il Bruto piange e pronuncia frasi sconnesse sul marciapiede dove si è accasciato, sfinito. È stato rinchiuso per due anni, dal 1994 al 1996, in una delle più tristemente note prigioni siriane: quella di Saydnaya. Il nome è dato dal vicino villaggio a nord di Damasco, dove a oltre mille metri d’altezza sorge l’antico convento di “Nostra Signora”, la Vergine Maria. La prigione di Saydnaya ha tre bracci e dalle immagini aeree appare come una grande “Y” disegnata sul brullo terreno pietroso. In uno di quei bracci, nella cella numero dieci, è stato rinchiuso per 24 lunghi mesi Muhammad detto il Bruto. «La numero dieci era per tutti sinonimo di inferno rosso».

La singolare vicenda di Sidone è riferita da Shirin Qabbani sul quotidiano panarabo ash Sharq al Awsat, ma nel suo racconto non è chiaro perché Muhammad detto il Bruto abbia parlato di «inferno rosso». Un archetipo, forse, che fa tornare alla mente l’incipit de Il Torturatore (1943) di Friedrich Dürrenmatt: «I massi squadrati sono morti. L’aria è come pietra. La terra preme da ogni parte. Acqua fredda stilla dalle fessure. La terra è in suppurazione. L’oscurità incombe. Gli strumenti di tortura sognano. Il fuoco brilla nel sogno. I tormenti aderiscono alle pareti. Lui è rannicchiato nell’angolo. Il suo orecchio spia. Le ore strisciano. Si alza. Su in alto si apre una porta. Il fuoco si sveglia e avvampa rosso. Le tenaglie si muovono. Le corde tendono. I tormenti lasciano le pareti e si calano su tutti gli oggetti. La camera di tortura comincia a respirare. Passi si avvicinano (…)».

Forse il defunto scrittore svizzero avrebbe potuto comprendere la tragedia di Muhammad detto il Bruto e del suo torturatore Hikmat ora in cerca di riparo dalle violenze siriane. Avrebbe forse compreso il significato di quelle che alcuni passanti in quel vicolo di Sidone pensavano fossero solo colorite imprecazioni urlate dal Bruto al malcapitato: «Mi hai spezzato la schiena sulla sedia tedesca!» e «Non c’è stata ruota in cui tu non mi abbia infilato!» erano invece formule dell’antico rito infernale della tortura.

La «ruota» (ad dulab) è un copertone di ruota di camion o di auto di grossa cilindrata – a seconda delle necessità – dove il prigioniero viene infilato con la testa e le gambe in modo da rimanere immobilizzato mentre i suoi torturatori lo frustano e lo percuotono. Secondo le organizzazioni umanitarie libanesi, dal 1976 ai primi anni 2000 migliaia di libanesi sono morti nelle prigioni politiche siriane e sono stati seppelliti in fosse comuni, mentre ancora centinaia sarebbero ancora vivi e attendono di tornare a casa.

La «sedia tedesca» (al kursi al almani) consiste invece nel far stendere la schiena del prigioniero sullo scheletro di metallo di una sedia denudata di ogni eventuale imbottitura. La testa del prigioniero viene reclinata verso il basso e tirata dalle braccia tese dietro la schiena. I polsi sono legati ai piedi. Le vertebre della spina dorsale in tensione vengono compresse sulle due aste di metallo della sedia. E a ogni movimento del capo, delle spalle, delle gambe o dei piedi del torturato la tensione aumenta. E così il dolore. «È un dolore indescrivibile», si limita a dire Muhammad detto il Bruto, che intanto è stato aiutato da alcuni passanti a rimettersi in piedi e a entrare in un vicino chiosco di frullati e succhi di frutta, come ce ne sono tanti nel vecchio suq di Sidone.

Di come il Bruto finì nelle prigioni di Assad

Il padrone del negozio, Ali, conosce da tempo Muhammad detto il Bruto. Gli porge dell’acqua. Ali ricorda che negli anni della guerra civile libanese (1975-90) Muhammad detto il Bruto aveva aderito a una delle organizzazioni palestinese di resistenza all’occupazione israeliana del sud del paese (1978-2000). Muhammad detto il Bruto era già stato dentro prigioni straniere, quelle israeliane, negli anni Ottanta. Fu poi rilasciato durante uno scambio di prigionieri, aggiunge Ali.

Muhammad detto il Bruto non aveva però appeso al chiodo la passione per l’attivismo politico. Era rimasto fedele all’ala irachena del partito Baath, quella che faceva capo al regime di Saddam Hussein e che da decenni era in rotta con l’ala siriana. Una guerra fratricida inter-araba e inter-baatista che ha spinto a lungo dissidenti siriani o libanesi a trovare rifugio alla corte di Saddam, proprio mentre altri dissidenti, iracheni, riparavano a Beirut o a Damasco sotto l’ala protettiva degli Assad e dei loro alleati.

A Beirut abitava Taleb Suhayl, iracheno, shaykh della tribù Tamim e oppositore di spicco di Saddam Hussein. Suhayl fu ucciso da sicari nella sua abitazione nella capitale libanese il 13 aprile del 1994. Due giorni dopo, Muhammad detto il Bruto fu arrestato assieme ad altri undici membri del Baath iracheno in Libano. Di allora non rinnega l’appartenenza politica ma assicura di non avere niente a che fare con l’omicidio Suhayl: «Appoggiai la guerra dell’Iraq contro l’Iran (alleato degli Assad, ndr). E quando i siriani sono tornati in forze in Libano agli inizi degli anni Novanta, non potevo sopportare questo stato di cose. Mi opposi in tutti i modi all’invasione del mio paese. Ma sempre in modo pacifico».

Muhammad detto il Bruto fu portato via quella mattina del 15 aprile non da agenti siriani ma da loro colleghi libanesi, che all’epoca e, almeno fino al ritiro delle truppe siriane dal paese dei Cedri nel 2005, erano telecomandati da Damasco. «Fecero irruzione in casa e mi portarono assieme ad altri nella caserma “Zgheib” di Sidone. Il giorno dopo ci consegnarono ai servizi di sicurezza siriani nell’ambito delle indagini sull’uccisione di Suhayl».

Il torturatore e il vile

Eppure il giorno prima dell’arresto di Muhammad detto il Bruto e degli altri undici baatisti filo-Saddam le autorità libanesi avevano ottenuto la piena confessione di due dei tre sicari dello shaykh iracheno: si trattava di due diplomatici di Bagdad, Muhammad Kazem, «addetto culturale», e Khaled Khalaf, «addetto commerciale». Il terzo, Hadi Hasan, era la guardia del corpo dell’ambasciatore e si barricò nella sede diplomatica irachena a Beirut. Il 18 aprile, tre giorni dopo l’arresto di Muhammad detto il Bruto, il governo libanese ruppe le relazioni diplomatiche con l’Iraq perché Baghdad si era rifiutata di rimuovere l’immunità ai suoi due “addetti” d’ambasciata. Il caso Suhayl era di fatto già chiuso. Ma Damasco aveva così colto l’occasione per “ripulire” Sidone e altre città libanesi da alcuni suoi storici nemici.

Nella cella numero dieci di Sayndaya «eravamo stipati in 58», afferma Muhammad detto il Bruto. «Misurava tre metri e mezzo per tre metri. Stavamo accovacciati. Ognuno aveva a disposizione lo spazio di una mattonella e mezzo. Avevamo sulla pelle insetti che succhiavano il sangue e ci siamo tutti ammalati di scabbia». Nel 1943 Dürrenmatt scriveva: «Si apre una porta. L’ambiente è quadrangolare. Un fuoco guizza incontro. L’aria è umida. Un’ombra si stacca dall’angolo. Dal fuoco si levano tenaglie. L’ombra si avvicina. Grida. È il torturatore».

Due anni dopo il suo arresto e senza esser mai stato processato, Muhammad detto il Bruto fu liberato. Nel 1996 da Saydnaya tornò a Sidone. E da allora del bruto ha davvero poco. È un individuo spezzato dentro. «Mi sento come menomato», confessa. E non nasconde che rivive spesso negli incubi notturni le immagini di quelle torture, dentro la ruota o sulla sedia tedesca. «Ti tirano il corpo fino quasi a spezzarti al spina dorsale… La tortura subita nelle carceri siriane non è paragonabile a quelle delle prigioni sioniste». Nel chiosco di frullati entra un giovane che annuncia la fuga di Hikmat: «Se n’è andato di corsa, con le valigie e a bordo di un taxi… che haqir (vile)!». «Sì, è un vile – lo interrompe Muhammad detto il Bruto – ma in Siria ce ne sono di più vili. E sono ancora lì a fare la guardia alle prigioni».

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