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https://now.mmedia.me Siria e la responsabilità di proteggere Nel bel mezzo di una settimana vertiginosa della politica estera americana, è da capogiro che per la prima volta che l'anniversario dell'11 settembre è passato più o meno inosservato a New York, l’Ambasciatore del Libano e Rappresentante Permanente presso le Nazioni Unite, Nawaf Salam ha ordinato un incontro a Turtle Bay, sulla "R2P". Nonostante l’acronimo che sembrerebbe più adatto al software di uno smartphone, "Responsabilità di proteggere" è, nel bene e nel male, la più importante dottrina di politica estera emersa dopo la fine del millennio. Ban Ki-moon, la cui dichiarazione, seguita Salam, ha chiamato, nel 2005, le Nazioni Unite all'adozione del concetto di "un risultato eccezionale ... i capi di Stato e di governo hanno preso il potente impegno di proteggere le popolazioni dal genocidio, dai crimini di guerra, dalla pulizia etnica e dai crimini contro l'umanità." Questo è come una pacca sulla spalla al Dialogo Informale Interattivo sul tema de "La Responsabilità di Proteggere: La responsabilità dello Stato e la Prevenzione alle Nazioni Unite" In meno di un minuto, il segretario generale ha riconosciuto l'elefante nella sala dell’Asemblea: "le atrocità, intanto, continuano ad essere commesse mentre noi continuiamo a sforzarci di affrontarle per proteggere le persone dai loro simili. L'esempio calzante è la Siria di oggi." Responsabilità di Proteggere è una dottrina nata dal fallimento, in particolare quello della comunità internazionale di fronte alle atrocità in Ruanda e a Srebrenica. Ancora una volta di fronte ad entrambe le atrocità, come Ki-moon ha ammesso, "il nostro fallimento per evitarle è collettivo" oggi in Siria la R2P è a rischio di abbandono? Che cosa significa la reazione della comunità internazionale agli attacchi del 21 agosto con armi chimiche, e l'approccio degli Stati Uniti alla crisi in questi ultimi giorni, cos’ha da dire circa lo stato della R2P nel mondo di oggi? Cosa si può fare in questa fase avanzata per proteggere il popolo della Siria? Per le risposte, ho parlato con un altro partecipante della riunione delle Nazioni Unite di Mercoledì, l'uomo che ha letteralmente scritto il libro sulla R2P. Un ex ministro degli Esteri australiano e presidente del Gruppo internazionale di crisi dal 2000 al 2009, Evans è uno dei principali artefici della dottrina. La responsabilità di proteggere resta, insiste, "fondamentalmente viva e vegeta nel sistema delle Nazioni Unite di oggi."
"Non penso che lo spazio della R2P sia a serio rischio di abbandono", ha detto Evans, "perché penso che nessun voglia davvero tornare ai vecchi tempi quando si chiudevano gli occhi completamente davanti ai crimini contro l'umanità e ai crimini di guerra, facendo finta che non fosse affare di nessuno al mondo porvi rimedio." Ma Evans ha aggiunto "dalla rottura del consenso sulla Libia c'è stata una vera paralisi del Consiglio di Sicurezza, quando si tratta di applicare i principi della R2P nel più duro dei casi." Non era la prima volta che la comunità internazionale invocava la R2P per l’intervento in Libia, ma rimane, soprattutto per quanto riguarda la Siria, la più eclatante. La Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n°1973, proposta dalla Francia, dal Regno Unito, e dal Libano, autorizzò l'uso della forza in Libia, adottando esplicitamente il linguaggio della R2P. Ma il successivo intervento militare finì, nelle parole di Evans, "per scivolare nel cambio di regime" provocando la reazione dalla Russia e di altri che hanno reso zoppicanti gli sforzi internazionali contro la Siria fino ad oggi. In tale contesto, Evans dice che l'uso di armi chimiche "è un cambio di gioco che fornisce un modo di rompere la situazione di stallo in quanto è molto più una questione di protezione civile. La natura delle armi chimiche e di ogni altra arma di distruzione di massa, sono tali distruttori indiscriminati di vite civili che la necessità di rispondere è travolgente e penso che il mondo veda quel bisogno. E' un modo di ricreare un consenso su ciò che conta davvero ed è molto importante che ci sia la possibilità di fare proprio questo". Ma cosa succede se il consenso non può essere recuperato. Potevano quei "vecchi tempi" del Rwanda, di Srebrenica e del Kosovo tornare? "E' quasi un esatto parallelo con il caso del Kosovo", ha detto Evans, "e solleva molto esattamente tutta la legalità contro la questione della legittimità. In un mondo ideale, naturalmente, si avrebbe il mandato giuridico del Consiglio di Sicurezza, la domanda è: in assenza di tale mandato è sufficiente abbandonare l'impresa dicendo che nulla può essere fatto, o si va avanti a qualsiasi costo senza l'autorità del Consiglio di Sicurezza? Penso che la cosa importante non sia avere una giustificazione legale quando non ce n'è una. Penso che il Regno Unito abbia cercato di inventare una sorta di giustificazione umanitaria alle regola del diritto internazionale. Il genere di cui parlavano negli anni 90. Non credo che abbiano avuto più successo un paio di settimane fa, di quanto non ne avessero ottenuto negli anni 90. Penso che sia molto meglio fare come hanno fatto gli americani senza inventare una giustificazione legale, ma trattando tutta la questione come grave, se si esce dai limiti del sistema del diritto internazionale. L'unico modo possibile per giustificare è con un parallelo diretto con qualcosa che tutti comprendano, nel diritto civile: Sono passato col rosso, agente, mia moglie sta avendo un bambino sul sedile posteriore dell’auto. Non stavo sfidando la legge, ma sto dicendo che ero giustificato a farlo".
Di fronte al veto del Consiglio di Sicurezza, quali sono i criteri per decidere se l'uso della forza e la potenziale violazione della legge internazionale è giustificata? Evans ha a lungo sostenuto che la decisione di usare la forza militare per proteggere i civili deve basarsi sui cinque pilastri: la gravità del danno, lo scopo primario è l'uso della forza in primo luogo al fine di scongiurare la minaccia in questione o se vi è un diverso movente?, se l'intervento è l'ultima risorsa, la proporzionalità della risposta, e infine l'equilibrio delle conseguenze, cioè, se la situazione abbia danneggiato solo i civili. Nella nostra conversazione, Evans ha detto che il primo punto, la gravità del danno, "è assolutamente stata soddisfatta.” Sulla questione del movente, Evans era ugualmente sicuro: "Non credo che ci sia alcun dubbio sul fatto che i motivi degli americani e di altri che stanno discutendo per l'uso della forza, siano assolutamente legati alla protezione dei civili dal problema delle armi chimiche." Secondo Evans, la questione di ultima istanza, è "ovviamente ora di nuovo in gioco, con la proposta dei russi di smantellare i depositi di armi chimiche siriane. E se questo si rivela essere una traccia efficace allora sarebbe prematuro. Abbiamo esaurito tutte le opzioni diplomatiche e le altre opzioni per garantire che almeno le armi chimiche non verranno utilizzate, se non anche atroci crimini più in generale. Beh questo è, ovviamente, ora di nuovo in discussione, con la proposta dei russi di smantellare la capacità di usare armi chimiche dei siriani. E se questo si rivela essere una traccia efficace allora sarebbe prematuro, gli ultimi pilastri non sarebbero soddisfatti. Perchè ce n’è uno in gioco in questo momento." Sulla proporzionalità, Evans afferma che la sfida è "dare un giudizio su quale tipo di forza militare sia appropriata. Non credo che qualcuno possa discutere se, un certo tipo di intervento sia servito a consegnare dolore sufficiente per essere un deterrente efficace per impedire l'uso di armi chimiche in futuro, semplicemente non sarebbe giustificabile. Con proporzionalità purché non scivoli nel cambio di regime ed a condizione che sia direttamente legato all'uso di armi chimiche credo che i criteri sarebbero soddisfatti e penso che sia il linguaggio che viene parlato." Ma se l'esito della missione è semplicemente di proteggere i civili dalle armi chimiche, lasciandoli esposti a quelle convenzionali, stiamo davvero realizzando le nostre responsabilità di proteggere? "Beh, certo, la mia speranza è che questo sarà l'interruttore del circuito", ha detto Evans, "e genererà abbastanza slancio perchè ci possa essere una soluzione politica negoziata e di transizione in qualche ambiente più stabile. Questo non è un conflitto che possa essere risolto con una soluzione militare. E la maggior parte del discorso reale circa l'azione militare ora è semplicemente quello di fermare l'ulteriore uso di armi chimiche." https://now.mmedia.me Syria and the Responsibility to Protect In the middle of a dizzying week in American foreign policy so dizzying that for the first time since the September 11th attacks, the anniversary went by more or less unnoticed in New York Lebanon's Ambassador and Permanent Representative to the United Nations, Nawaf Salam called to order a meeting at Turtle Bay on “R2P.” Despite bearing an acronym that would seem better suited for smartphone software, “Responsibility to Protect” is, for better or worse, the most important foreign policy doctrine to emerge since the turn of the millennium. Ban Ki-moon, whose statement followed Salam’s, called the UN’s 2005 adoption of the concept “an exceptional achievement… Heads of States and Government made the powerful commitment to protect populations from genocide, war crimes, ethnic cleansing, and crimes against humanity.” That was it for pats on the back at the Informal Interactive dialogue on “The Responsibility to Protect: State Responsibility and Prevention" at the UN.” Less than a minute into his remarks, the secretary general acknowledged the elephant in the assembly room: “atrocities continue to be committed and we continue to face challenges in our efforts to protect people from them. The case in point is Syria." Responsibility to Protect is a doctrine born out of failure, specifically those of the international community in the face of atrocity in Rwanda and Srebrenica. Faced again with both atrocities and, as Ki-moon put it “our collective failure to prevent it” in Syria today, is R2P at risk of abandonment? What does the international community’s reaction to the August 21st chemical weapon attacks, and the United States’ approach to the crisis in recent days, say about the state of R2P in the world today? What can be done at this late stage to protect the people of Syria? For answers, I spoke with another attendee of the Wednesday’s UN meeting, the man who literally wrote the book on R2P. A former Australian Foreign minister and president International Crisis Group from 2000-2009, Evans is one of the doctrine’s principal architects. The responsibility to protect remains, he insists, “basically alive and well in the UN system today.” “I don’t think the R2P room is at serious risk of abandonment,” Evans said, “because I think it is the case that no body really wants to go back to the bad old days of turning a complete blind eye to crimes against humanity and war crimes, pretending that its none of the world’s business." But Evans added “since the breakdown in consensus over Libya there’s been real paralysis on the Security Council when it comes to applying R2P principles in the hardest of cases.” The intervention in Libya was not the first time the international community invoked R2P, but it remains, particularly with regard to Syria, the most consequential. Security Council Resolution 1973, proposed by France, the United Kingdom, and Lebanon, authorized the use of force in Libya, and explicitly adopted the language of R2P. But the subsequent military intervention ended up, in Evans words, “sliding into regime change,” prompting a backlash from Russia and others that has hobbled international efforts on Syria to this day. In that context, Evans says the use of chemical weapons “is a game changer” and provides “a way of breaking out of the deadlock as it is very much a civilian protection issue. The nature of chemical weapons and any other weapon of mass destruction is such that it is so indiscriminate a destroyer of civilian lives that the need to respond is overwhelming and I think that world sees that need. It’s a way of recreating consensus about what really matters and it is very important that the opportunity be granted to do just that.” But what if consensus can’t be regained. Could those “bad old days” of Rwanda, Srebrenica, and Kosovo perhaps return? “It’s almost an exact parallel with the Kosovo case,” Evans said, “and it raises very squarely the whole legality vs. legitimacy issue. In an ideal world of course you would have the Security Council legal mandate, the question is in the absence of that mandate do you just abandon the enterprise and say nothing can be done, or do you go ahead any way without Security Council authority? I think the important thing is not to make up a legal justification when there isn’t one. I think the UK tried to invent the sort of humanitarian justification rule of international law. The kind they were talking about in the 1990s. I don’t think they were any more successful a couple weeks ago than they were in the 1990s. I think it's far better to do what the Americans have done and not go there on that particular path of making up a legal justification but it is all a serious matter if you do go outside the frame work of international law system. The only way you can begin to justify it is if there’s a parallel with what everyone understands in domestic law: ‘I ran a red-light, officer, my wife is having a baby in the back of the car.’ You’re not challenging the law; you broke it but you're saying breaking the law was justified.” In the face of a Security Council veto, what are the criteria for deciding whether the use of force and potential violation of international is justified? Evans has long argued that the decision to use military force to protect civilians should rest on a five “pillars”: the gravity of harm, primary purpose (is the use of force primarily to halt or avert the threat in question or is there a different motive?), whether intervention is a last resort, proportionality of the response, and the balance of consequences, that is, whether the situation will only be made worse for civilians. In our conversation, Evans said that on the first count, gravity of harm, “it has absolutely been satisfied. On the question of motive, Evans was similarly assured: “I don’t think there’s any doubt that the Americans motives and others that are arguing for the use of force here is absolutely related to the civilian protection against chemical weapons issue.” According to Evans, the question of last resort, is “obviously now back in play, with the proposal from the Russians to possibly dismantle Syrian chemical weapons capability. And if that proves to be an effective track then it would be premature. Have we exhausted all diplomatic and other options for ensuring that at least chemical weapons won’t be used, if not atrocity crimes more generally. Well that’s obviously now back in play, with the proposal from the Russians to possibly dismantle Syrian chemical weapons capability. And if that proves to be an effective track then it would be premature to the last resort criteria would not be satisfied. That one's in play at the moment.” On proportionality, Evans says the challenge is “to make a judgment about what kind of military force is appropriate. I don’t think anyone would argue with that if it’s aimed at delivering sufficient pain to be a deterrent for the future use of chemical weapons it wouldn’t be just justified. With proportionality provided it doesn’t slide into regime change and provided it is directly related to the use of chemical weapons I think that criteria would be satisfied and I think that’s the language that’s being talked.” But if the outcome of the mission is simply to keep civilians safe from chemical weapons, while leaving them exposed to conventional ones are we really meeting our responsibility to protect? “Well, of course, my hope is that this will be the circuit breaker,” Evans said, “and will generate enough momentum for there to be a negotiated political settlement and transition into some more stable environment. This is not a conflict with a military solution. And most of the actual talk about military action now is simply to stop the further use of chemical weapons.”
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