Fortress Europe I primi villaggi cristiani nelle mani dell'esercito libero È una donna cristiana la protagonista della battaglia di Yaqubiya, uno dei primi villaggi cristiani conquistati dall’Esercito libero siriano nella provincia di Idlib. Si chiama Raghda, è madre di tre figlie e lavora come insegnante alla scuola elementare del vicino villaggio musulmano di Janudiya. È stata lei che ha evitato il bagno di sangue in città. Proteggendo i soldati disertori delle truppe del regime e aiutandoli a unirsi ai ragazzi dell’esercito libero. Ragazzi che ha visto crescere sui banchi di scuola. Sì perché nelle campagne i combattenti dell’esercito libero sono i ragazzi dei villaggi. E lei che da quindici anni fa l’insegnante, li conosce tutti fin da bambini. “Sono come dei figli per me. Conosco le loro famiglie, ho insegnato loro a leggere e scrivere. Se oggi possono leggere il Corano è grazie al mio lavoro. E di questo sono fiera. Quando li ho visti, ho parlato con loro e mi hanno spiegato le loro ragioni. Noi cristiani siamo rimasti neutrali nella guerra, io credo nella non violenza, ma volevo fare qualcosa contro il regime, soprattutto dopo aver visto personalità come padre Paolo Dall’Oglio prendere posizioni forti contro la dittatura. Così li ho convinti ad aspettare e ho iniziato a parlare con i soldati del regime che erano entrati nel villaggio. Prima uno, poi due, alla fine hanno disertato a decine. Li nascondevo in casa e poi passavano con l’esercito libero.” In quei giorni il villaggio di Yaqubiya e i suoi duemila abitanti erano letteralmente assediati dalle truppe del regime. Il parroco cattolico si era rifiutato di concedere il campanile ai cecchini. La comunità cristiana armena invece aveva concesso la propria chiesa all’esercito come quartier generale. Le casse vuote delle munizioni sono ancora nel piazzale, davanti a una vecchia icona della madonna. Da qui operavano i cecchini e gli artificieri. Fino a quando dopo le tante defezioni, i soldati del regime si sono ritrovati in inferiorità numerica e hanno deciso il ritiro. Era il 27 gennaio 2013. La battaglia è stata combattuta fuori dal paese, al posto di blocco lungo la strada degli oliveti. I segni degli scontri sono ancora sul posto. Un carro armato bruciato, i bossoli vuoti ai bordi della strada, i sacchi di rena crivellati di colpi e i rami degli olivi spezzati dalle raffiche di mitra. Due settimane dopo, nel villaggio si respira un’aria tranquilla. I ragazzi musulmani dell’esercito libero presidiano le strade, lasciando circolare liberamente i cristiani rimasti in paese. Fondamentalmente i cattolici, perché molte famiglie armene sono fuggite insieme al prete dopo che la loro comunità aveva prestato la chiesa alle truppe del regime. Le relazioni tra musulmani e cristiani sembrano ottime. C’è gente per strada, i bambini giocano, i negozi stanno riaprendo. E io sono ospite della famiglia di Raghda, a bere il tè insieme ai suoi ex alunni in mimetica. Eppure basta spostarsi di cinque chilometri per capire che non è tutto rose e fiori. Le macerie del villaggio cristiano di Jdeyda non lasciano dubbi. Qui i combattimenti sono stati molto più intensi. L’esercito libero ha preso il controllo del villaggio nel dicembre 2012. E i bombardamenti del regime sono cominciati subito dopo. Praticamente non c’è una casa in questo paesino di mille anime che non sia stata bombardata. Persino la vecchia chiesa armena è stata colpita. Il missile è caduto davanti l’ingresso. Il cancello di ferro è saltato in aria, le vetrate sono andate in frantumi e la scalinata è rovinata. Eppure gli abitanti sono arrabbiati soprattutto con i ragazzi dell’Esercito libero. “Ci hanno rubato tutto! Non hanno lasciato nemmeno la stufa! In questa casa abitava una coppia, si erano sposati da cinque mesi, guarda! Non c’è più niente, è una vergogna! È questa la libertà che vogliono? Non c’è elettricità in tutto il paese, non c’è pane, non c’è benzina. Quando qui c’erano i soldati nessuno rubava. Noi con questa guerra non c’entriamo!” Elias non usa mezzi termini. È un ragazzo di vent’anni. È appena tornato al villaggio dopo alcune settimane di assenza e ha scoperto che la casa dei vicini è stata completamente svaligiata. Hammuda, che tutti chiamano Google per la sua memoria per i numeri, appoggia il manico del fucile a terra e cerca inutilmente di calmarlo: “Noi dell’esercito libero non c’entriamo con i furti. Ci sono state rapine in tutto il villaggio, sono bande di delinquenti, hanno approfittato dei momenti in cui scendevamo al fronte e qui in paese non c’era nessuno a vigilare. Se li avessimo visti li avremmo arrestati.” Poi però, mentre ci allontaniamo dal luogo del delitto, Google mi confida sottovoce: “Dicono che siamo ladri, però non ti hanno detto che il padrone di casa era uno shabbiha. Gli è andata bene che non l’abbiamo preso…”. Come se le rapine fossero una legittima punizione per i sospetti sgherri del regime. O almeno per quelli in fuga. Perché per quelli arrestati di solito è prevista la condanna a morte. Previa indagine del tribunale islamico da poco istituito nella vicina Darkush. Da Jdeyda però i sospetti shabbiha sono scappati da tempo insieme al prete. La storia del prete della chiesa armena di Jdeyda è sulla bocca di tutti. Nel novembre scorso aveva procurato dei fucili a dieci ragazzi del villaggio, per organizzare delle ronde dopo che in paese c’erano stati quattro sequestri di persona con richieste di riscatto. Dopo l’arrivo dell’esercito libero, temendo l’arresto, è fuggito insieme a una cinquantina di uomini verso le aree ancora controllate dal regime a Latakya. La sua casa oggi è diventata il quartier generale dei ragazzi dell’esercito libero. Hanno tolto cornici e icone dal muro. E si sono sistemati in salotto. L’unica stanza a non essere stata danneggiata dai bombardamenti del regime. Dove invece non è successo niente è nel villaggio di Qneya. Un terzo villaggio cristiano di mille anime, sull’altro versante della valle. Qui non sono mai entrati né l’esercito del regime né l’esercito libero. E non si è mai sparato un colpo. Merito dei francescani. Che in questo che è l’unico villaggio interamente cattolico della regione, hanno da subito preso una posizione di neutralità. “Noi cristiani siamo il 7% dei siriani, circa un milione e mezzo di persone. In generale non vogliamo né il regime né la guerra. Vogliamo solo la pace. All’inizio eravamo con le manifestazioni quando erano pacifiche. Poi però la cosa è diventata sporca. L’ho capito quando qui a Jisr i ribelli hanno fucilato 82 soldati e impiccato il capo della polizia segreta militare. Chi ha un’idea non arriva a questo punto. Se diventi un assassino, hai perso tutto.” Padre Hanna è il responsabile del convento dei francescani, che nella regione è una vera e propria istituzione. Fondato nel 1878, ha sempre fatto di Qneya un’avanguardia nella vallata: la prima scuola, il primo teatro, il primo dispensario, il primo villaggio illuminato elettricamente. E durante la guerra, il convento non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno. “Abbiamo ospitato centinaia di persone in fuga. Musulmani, cristiani, alawiti. Gli ultimi poche settimane fa. Erano 250 alawiti di un villaggio vicino. Erano scappati dopo l’arrivo dell’Esercito libero. Hanno detto che quelli dell’Esercito libero hanno bruciato le loro case e le moschee. C’è un odio atavico che sta tornando fuori con la guerra.” Il fronte è dietro la collina, a cinque chilometri dal convento dei francescani. Sentiamo l’eco dei bombardamenti. Nella vicina città di Jisr Al Shughur, 40mila abitanti, si sono asserragliati duemila soldati del regime. Da lì ogni giorno bombardano le campagne intorno. E vietano ai civili di abbandonare la città. Me lo hanno confermato le centinaia di famiglie che da Jisr sono riuscite a fuggire clandestinamente, di notte, trovando ospitalità nei villaggi cristiani di Jdeyda, Yaqubiya e Qneya. Padre Hanna, insieme al sindaco del paese, ha personalmente provveduto all’organizzazione dell’accoglienza. Ed è fiero che la sua gente abbia aperto le porte alle famiglie musulmane di Jisr. Lo vede come un gesto di pace. “Il nostro è un popolo maturo. Non si muove secondo leggi tribali o di vendette di sangue. La gente conosce la propria storia e vuol bene a questa Siria plurale. Eravamo un esempio per la convivenza tra cristiani e musulmani. E continueremo ad esserlo nonostante questa sporca guerra”. Pensano lo stesso la maggior parte dei siriani. Ma non tutti. Ormai è stato versato troppo sangue e c’è chi chiede vendetta e punta il dito contro gli alawiti, la minoranza a cui appartiene il clan del presidente Bashar. Lo capisco meglio la mia ultima sera a Jdeyda. Quando nella vecchia casa del prete occupata dai militari dell’esercito libero, riceviamo una visita inaspettata. Sono cinque ragazzi in armi, dicono di essere sunniti delle campagne di Latakya. E hanno un piano per cacciare gli alawiti dalla regione. “Ho 90 uomini armati con me. Siamo tutti sunniti della zona, questa terra è nostra! siamo qui da ben prima che gli alawiti arrivassero! Per ripulire i loro villaggi, ci mancano solo le armi giuste. Avevamo pensato ai missili Grad. I soldi non sono un problema. Ci finanzia uno sheykh dall’Arabia Saudita, è contento del lavoro che stiamo facendo. Se iniziamo a colpire i villaggi con i Grad, intanto scappano in Turchia e poi vedremo se li faremo mai tornare!”. Bilal, che è uno dei responsabili della katiba che controlla Jdeyda gli consiglia di mettersi in contatto con i combattenti islamisti di Ahrar Al Sham oppure con il battaglione Shishan , i ceceni, 400 combattenti giunti in Siria a dare man forte all’Esercito libero al seguito di un veterano di guerra ceceno. Quindi gli fa il nome di un trafficante di armi siriano, del Jebal Akrad, tale Jamal Ma’ruf, da cui lui si rifornisce abitualmente. E inizia a far loro l’elenco delle armi che stanno comprando: carri armati, razzi, antiaerea. Ed è chiaro che è già iniziata la partita per il dopo guerra. Una partita in cui a definire il peso politico sul territorio saranno armi e vendette. E non il pensiero lucido di persone come padre Hanna, la signora Raghda o i suoi ex alunni.
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