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17 Ott 2013

Intervista di Pina Piccolo a Faraj Bayraqdar, la poesia e il carcere.
Traduzione dall’arabo di Elena Chiti

Poeta e giornalista, Faraj Bayraqdar è stato arrestato il 31 marzo 1987 dai servizi segreti militari del regime siriano perché sospettato di appartenere al Partito d’Azione comunista. È stato tenuto in isolamento per quasi sette anni finché è stato portato dinanzi al Tribunale speciale per la Sicurezza nazionale nel 1993 e condannato a 15 anni di carcere.  Il 16 novembre 2000, per un’amnistia concessa dal neo-presidente Bashar al Asad, Faraj Bayraqdar, ormai quarantanovenne, ha lasciato il carcere quattordici mesi prima della fine della sua condanna. 

Di passaggio in Italia per partecipare a Bologna in Lettere, Faraj Bayraqdar ha concesso un’intervista in esclusiva a SiriaLibano che già aveva pubblicato la traduzione di alcune sue poesie (i link qui e qui).

Il carcere è una condizione che da un lato ti costringe all’introspezione, dall’altro ti fa sentire il bisogno di non sentirti distaccato da ciò che avviene fuori, di non “morire”  per gli altri pur non potendo partecipare direttamente alla loro vita. Come è cambiata la tua poesia rispetto a prima della detenzione? Che ruolo ha avuto per te la poesia mentre eri in cella o venivi torturato?

Faraj Bayraqdar: Il carcere è, tra le altre cose, uno spazio particolarmente ostile e un tempo particolarmente aggressivo, sempre in agguato, e l’unica cosa che può fare un detenuto politico è cercare di tornare a disporre del proprio spazio e del proprio tempo in modo che gli forniscano il retroterra necessario per non farsi inghiottire dal carcere. Il carcere è un tentativo di togliere senso al carcerato, anzi di togliere senso e basta. Il che significa che creare un senso contribuisce a far fallire la missione del carcere. La creazione artistica in generale, e la poesia in particolare, si basano sull’immaginazione. E non è facile imprigionare l’immaginazione di un uomo all’interno di una cella.

La poesia per me è il più bel volo che la libertà possa fare all’interno di una cella e contemporaneamente all’esterno. La poesia per me è il modo più efficace di creare un senso capace di percepire il carcere, rappresentarlo e portarlo fuori e al tempo stesso portare dentro il mondo di fuori o continuare a comunicare con l’esterno.

Nei momenti duri – voglio dire gli interrogatori e la tortura, per esempio, o i provvedimenti punitivi o la privazione di elementi fondamentali per la sopravvivenza fisica e morale – capita che il carcerato veda l’ambiente che lo circonda come una serie di enigmi confusi, impossibili da penetrare. Se riesce a decifrare il primo strato, ne nota subito un altro del tutto simile, che necessita un’altra decifrazione, e poi una terza, e così via. Il che somiglia al gioco della matrioska, anche se in versione insanguinata, cupa, spaventosa. La poesia “Matrioska siriana” non mi sarebbe mai venuta in mente se non ci fosse stato il carcere. È il carcere che suscita nostalgia e richiama immagini antitetiche. Come quella della farfalla o della colomba ad ali spiegate. In carcere si può riflettere a lungo e capire il senso profondo della prigionia e della libertà, così come un malato capisce il senso profondo del dolore e della salute. In circostanze normali, invece, non badiamo a intuizioni di questo tipo.

Mentre eri in carcere ti arrivava notizia di come veniva accolta la tua poesia fuori? Che impatto ha avuto su di te la solidarietà internazionale e la petizione di PEN per la tua liberazione incondizionata? Pensi che la pressione internazionale sia ancora efficace per gli artisti imprigionati da regimi autoritari?

Faraj Bayraqdar: Durante i primi sei anni di detenzione ero completamente isolato dal mondo esterno, con una seduta di tortura quotidiana. La prima volta che i miei familiari, e mia figlia, sono riusciti a venirmi trovare è stata sei anni e mezzo dopo il mio arresto. Erano convinti che il regime di Assad mi avesse liquidato fisicamente; per questo sono stati felici, malgrado la notizia che il Tribunale speciale per la Sicurezza nazionale di Damasco mi aveva condannato a quindici anni con i lavori forzati.

In seguito la direzione del carcere ci ha permesso di procurarci delle radioline che ricevevano solo Radio Damasco. Ma tra noi c’erano molti ingegneri, che sono riusciti a modificarle per captare anche Radio Monte Carlo, la BBC, Voice of America e altre stazioni.

La prima volta che ho sentito parlare di me è stato quando sono comparso davanti al Tribunale speciale per la Sicurezza. Ne parlava un commentatore con tono infervorato e la trasmissione è stata rimandata in onda quotidianamente per 32 giorni. Avevo paura che le autorità siriane si vendicassero mettendomi di nuovo in isolamento, ma per fortuna è andato tutto bene.

La seconda volta che ho sentito parlare di me è stato undici anni dopo il mio arresto. Radio Monte Carlo diceva che il Presidente della Repubblica francese, Jacques Chirac, aveva chiesto la mia liberazione ad Assad Padre, durante una sua visita a Parigi. In seguito ho sentito da Voice of America che l’amministrazione americana si interessava al mio caso. In quegli anni è capitato che parenti e amici siano riusciti a farmi arrivare carte o foto che non capivo come fossero potute passare. Dopo la mia liberazione ho saputo che erano state inviate tramite membri del PEN International o di Amnesty.

Dodici anni dopo il mio arresto abbiamo notato che la direzione del carcere mi trattava in modo più indulgente rispetto agli altri detenuti. Per questo quando contravvenivamo alle regole, per esempio aprendo una fessura in una parete tra due ali del carcere, e la direzione lo scopriva e chiedeva chi è stato, rispondevo sono stato io. Non ci credevano perché il mio stato di salute non me lo avrebbe permesso, ma lasciavano correre e non mi punivano. Altri detenuti, invece, sarebbero incorsi in punizioni dure per trasgressioni anche più piccole. Dopo la mia liberazione ho saputo che questo trattamento era dovuto all’attenzione che ricevevo da parte di organismi internazionali e che rendeva il regime particolarmente attento a non nuocermi.

Ora il quadro è diverso. Il carcere non è più carcere, è un mattatoio. Ma l’ingerenza internazionale resta comunque importante ed efficace, almeno per tenere in vita il detenuto che beneficia di attenzione all’estero. Dopo la mia liberazione ho saputo quanto avevano fatto per me numerosi organismi internazionali, la cui azione ha costretto le autorità siriane a rilasciarmi un anno e tre mesi prima della fine della pena. E questo crea un precedente nella storia del regime di Assad Padre e di Assad Figlio, suo erede.

Diversi poeti hanno scritto poesia in carcere. Mi viene in mente Nazim Hikmet: cosa pensi di questi suggerimenti che dava a chi stava per affrontare 15 anni di detenzione?

[…] Pensare a rose e giardini dentro fa male, pensare a mari e montagne fa bene. Leggi e scrivi senza sosta, e ti consiglio anche di tessere e fare specchi. Non è che non puoi trascorrere dentro dieci o quindici anni e più, puoi riuscirci, fintanto che il gioiello a sinistra nel tuo petto non perde il suo splendore!

Faraj Bayraqdar: Capisco perfettamente Nazim Hikmet e questo suo consiglio. Nazim Hikmet è un grande esperto di carceri, oltre che un poeta. Il suo è un consiglio prezioso.

Quello che io davo ai miei compagni era simile: carcerato, amico mio, cerca di creare un senso attraverso la poesia o il racconto o la pittura, o comunque cerca di produrre qualcosa con quello che ti capita tra le mani, intaglia il legno o l’osso, fabbrica un rosario con noccioli di oliva e se non riesci a fare niente di tutto questo, allora mettiti a chiacchierare. Le chiacchiere ti curano dai veleni densi del carcere, non le considerare come farebbe chi sta fuori.

Ma il consiglio più importante che si possa dare a un carcerato è quello di guardare alla sua prigionia come se fosse eterna e alla sua scarcerazione come se fosse imminente. Questo mi ha ispirato la scrittura di una breve poesia in cui dico:

Tra un anno o due

dieci o venti

la libertà si metterà

la minigonna

e mi accoglierà.

la minigonna a fiori

perché a me

non piace vestita a lutto[1].

Hai scritto della tua condizione di detenuto anche in prosa, nelle tue memorie pubblicate in traduzione italiana. Quali cose riesci ad esprimere meglio in prosa e quali in poesia rispetto a quella condizione?

Faraj Bayraqdar: Ogni genere letterario ti offre qualcosa di diverso. E, anche in poesia, le possibilità espressive variano a seconda della forma. In arabo, per esempio, c’è una poesia classica, antica, che usa sedici metri di base. C’è una poesia che si fonda sui piedi, cioè su una parte di questi metri, ed è uno sviluppo stilistico della precedente. C’è poi quella che chiamiamo poesia libera, o poesia in prosa, che non è appesantita da costrizioni formali. E c’è la prosa del romanzo, del racconto o del diario.

Io pratico tutti e tre i tipi di poesia. Forse i miei studi universitari, in lettere, mi hanno dato un’impostazione al tempo stesso classica e moderna. Lascio che la poesia mi sgorghi dentro come vuole e come meglio si adatta all’argomento trattato.

Invece la mia esperienza in prosa è un libro che rappresenta una sorta di diario e parla delle tappe principali della mia detenzione: dall’arresto agli interrogatori, alla tortura, alla cella di isolamento, e poi i vari tipi di carcere in cui mi hanno portato e quello che ho visto. Non era possibile esporre i dettagli quotidiani del carcere in poesia. Ora questo libro è stato tradotto in italiano, da Giacomo Profili, e pubblicato dalla casa editrice al Mutawassit.

Note:

[1] Questa poesia è pubblicata in Aspenia, anno 17, n. 57, 2012, p. 233 (traduzione dall’arabo di Elena Chiti)

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