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23 ottobre 2013

La settimana del disarmo, tra geopolitica e speranze
di Marco Magnano e Diego Meggiolaro

Tutti gli anni le Nazioni Unite celebrano dal 24 al 30 ottobre la “Settimana per il disarmo”. La giornata di avvio della Settimana non è casuale, ma è il giorno in cui cade l’anniversario della fondazione delle stesse Nazioni Unite, avvenuta il 24 ottobre 1945.

La “Settimana per il disarmo” è stata istituita dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1978, con un documento nel quale si richiamava l’attenzione di tutti gli Stati sull’estrema pericolosità della corsa agli armamenti e si affermava la necessità di interrompere tale corsa e di diffondere tra i cittadini una maggiore comprensione sull’urgenza del disarmo. Allo stesso tempo, si esortavano i Paesi a destinare le risorse economiche investite sulle armi a favore invece dello sviluppo economico e sociale.

Nel 1995, l’Assemblea Generale ha poi invitato i governi, così come le organizzazioni non governative, a continuare a prendere parte attiva nella settimana per il disarmo. Con quel documento si invitava anche il Segretario Generale a continuare ad usare tutti gli strumenti informativi delle Nazioni Unite, nella maniera più ampia possibile, per promuovere una migliore conoscenza nell’opinione pubblica dei problemi del disarmo e degli obiettivi della settimana per il disarmo.

La giornata di quest’anno cade in un momento particolare per la politica mondiale, sospesa tra la risoluzione della crisi siriana, ben lungi dall’arrivare, e il rinnovato dibattito sul nucleare, con le prove di forza della Corea del Nord e le speranze di apertura dell’Iran, che con il nuovo presidente Rohani cerca di cambiare per sopravvivere e non perdere la sua importante battaglia per il controllo regionale con l’Arabia Saudita. Ma questa è anche una fase in cui ci si interroga sul futuro degli armamenti e sulla “digitalizzazione” delle guerre, aspetti di una guerra che riflette sulla propria economia e sul modello di forze in campo, sempre più liquido e, fuor di propaganda, dai caratteri sfumati.

Proprio per questo, il dibattito sul disarmo, anche a livello mondiale, sta vivendo una fase di intensificazione delle proprie campagne, forte anche del sostegno di numerosi Paesi in seno all’Onu, soprattutto tra le nazioni emergenti.

Intervista con Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo

In Italia, ci sono tre mobilitazioni attualmente attive nella campagna per il disarmo. Innanzitutto la difesa della legge 185 del 1990, che regola l’export militare italiano.


Secondo gli studi realizzati, il commercio di armi è solo il 2% di quello mondiale ma è responsabile di circa il 50% della corruzione. Il nostro paese è tra i maggiori esportatori mondiali, soprattutto di armi leggere, e gli armamenti prodotti in Italia finiscono spesso nelle mani di dittatori e nelle aree di maggior conflitto, come riportato anche recentemente da Amnesty International.
Il rischio ora è che questa legge venga smantellata poiché il recepimento di una norma europea, che il Governo ha inserito nella legge “comunitaria” e che vuole gestire con una delega e senza approfondita discussione, potrebbe comportare delle modifiche pesanti e problematiche. Pur modificata nel 2003, l’attuale legge che regola l’export miliare italiano è nata di fatto come una una legge di iniziativa popolare: fortemente richiesta e sostenuta da un ampio movimento della società civile e dell’associazionismo è stata promulgata dopo cinque anni di intenso confronto parlamentare lungo due legislature.

Si chiede poi la riduzione delle spese militari. L’investimento mondiale in armi è in continua crescita, nonostante qualche segno di crisi inizi a intravedersi anche qui. Le stime più attendibili relativamente alle spese militari mondiali dimostrano come nel 2010 si siano superati per la prima volta i 1.600 miliardi di dollari complessivi: una crescita in termini reali dell’1,3% rispetto al 2008 e del 50% nel decennio iniziato con il 2001. L’impegno dei Governi per eserciti ed armamenti ammonta al 2,6% del prodotto interno lordo del pianeta, con una spesa media di circa 240 dollari a persona, e le spese militari nel nostro paese raggiungono i 25 miliardi di euro all’anno.

Infine, il disarmo nucleare. Nonostante la fine della guerra fredda, molte sono ancora le testate di questo tipo di armi ancora a disposizione delle potenze nucleari. Con il rischio ulteriore di materiale fissile per la produzione di bombe definite “sporche”.
Proprio in questi giorni è stata lanciata una mobilitazione verso i maggiori paesi ONU affinché terminino le trattative sul disarmo nucleare totale e si arrivi ad un accordo concreto ed efficace.

Intervista con Nanni Salio, direttore del Centro Studi Sereno Regis (Torino)

In questi giorni è tornata d’attualità in seno all’ONU la necessità di mettere al bando le armi nucleari. Partiamo da qui: qual è la situazione attuale di questa categoria di armamenti?


Diciamo che anche in questo caso, come in tutta una serie di altre mobilitazioni e campagne a livello internazionale, sempre più correlate, la società civile internazionale è stata in grado di dare un approccio innovativo. Così come per le armi convenzionali si è arrivati al trattato Control–Arms, così per le armi nucleari si è arrivati a stimolare negli ultimi anni la cosiddetta “iniziativa umanitaria”. Si è visto che, siccome il tema del nucleare è da sempre costruito sugli opposti schieramenti, anche se ridotti alla Guerra Fredda, un approccio interessante da far passare poteva essere quello umanitario, perché la stessa presenza delle armi nucleari, sia per l’uso ma anche per la gestione, può creare una catastrofe con conseguenze umanitarie disastrose, e quindi la necessità di una messa al bando delle armi nucleari viene prima di un loro uso in guerra o di una loro crudeltà particolare come può essere stato per le mine antiuomo, ma proprio per la sopravvivenza dell’umanità, che queste armi nucleari potrebbero cancellare in qualsiasi momento. Questa iniziativa è partita nel 2012, e nelle varie sessioni dell’ONU, in particolare nel Primo Comitato, che si occupa del disarmo, ha guadagnato sempre più attenzione: la proposta è stata ripresentata dalla Nuova Zelanda, che fa parte di questo team di stati che ci ha lavorato dall’inizio, e sono state 124 le nazioni a sottoscriverla.

Qual è la posizione dell’Italia?


L’Italia in tutti questi anni, da quando è partita l’iniziativa umanitaria, non si è mai espressa a favore. Noi come Rete Disarmo, insieme ad altre realtà che si occupano del tema, abbiamo scritto nei giorni scorsi al ministro degli Esteri Emma Bonino e al viceministro Lapo Pistelli, che ha la delega alle questioni legate all’ONU, proprio per sottolineare questo problema, per segnalare che ci sarebbe stata in questi giorni la ripresentazione del documento, in questo caso lanciato dalla Nuova Zelanda, e per chiedere che anche l’Italia si faccia carico di questa iniziativa e provi a supportarla. Non è stato così, e anzi, in maniera a noi ignota, l’Italia ha sottoscritto ieri un altro documento, presentato dall’Australia, che parte da delle dinamiche di impatto umanitario, ma è molto più debole e secondo alcuni commentatori è stato fatto per indebolire il precedente documento, ma è stato sottoscritto solo da 17 paesi, tra cui Italia e Germania. Verificheremo che tipo di testo è, ma ci sarebbe parso molto più sensato inserirsi su un percorso già strutturato. Dal ministero ci hanno promesso una risposta, e noi l’attendiamo con ansia per capire quale sarà la posizione dell’Italia, e sarebbe importante che il nostro paese aderisse, perché ha sempre avuto una nobile tradizione sui trattati multilaterali e anche sui temi del disarmo.

C’è un altro rischio, cioè che senza il consenso di USA e Russia queste iniziative rimangano marginali. Che posizione hanno assunto?


In questo momento non vogliono abbandonare la loro disponibilità nucleare per motivi strategici e anche perché ci sono delle motivazioni anche di luoghi di potere anche all’interno delle stesse forze armate legate all’uso dell’arma nucleare. Siamo perfettamente consapevoli che, anche se dovrebbe essere diverso, non è vero che “uno vale uno” nel consesso internazionale. Ci sono dei paesi che hanno ovviamente un peso maggiore, storico, politico ed economico. Tuttavia riteniamo che aver portato quasi i due terzi delle nazioni ONU, e anche qualcuno che non ne fa parte, come il Vaticano, a favore del documento neozelandese, può far rendere conto anche ai paesi che detengono l’arma nucleare che non sia più opportuno utilizzarla. Uno spostamento dell’opinione pubblica può portare al cambiamento anche paesi che non avrebbero in origine intenzione di farlo.

Altri due paesi coinvolti nel dibattito nucleare sono Iran e Corea del Nord. Hanno preso posizione?


Nel dibattito di ieri, più legato alle posizioni, hanno preso la parola soprattutto la Nuova Zelanda, che ha lanciato l’idea, il Sud Africa, che in passato aveva già dato la propria firma per un rilancio dell’iniziativa umanitaria, è stata l’Austria, che è piccola ma è un membro della NATO, ed insieme alla Norvegia ha votato questo documento, e poi l’Australia che ha rilanciato l’altro documento. Tutti i paesi che hanno disponibilità di armamenti nucleari non si sono espressi: non si è espressa l’India, non si è espresso il Pakistan, né tantomento l’Iran e la Corea del Nord. È molto interessante invece che il documento sia stato sottoscritto dal Giappone, per due motivi: sappiamo bene che il Giappone è stato l’unico paese che ha subito un attacco nucleare nella propria storia (anzi, un attacco atomico, che è meno di un attacco nucleare, perché la potenza degli ordigni che hanno cancellato Hiroshima e Nagasaki è molto minore di quella delle armi disponibili oggi), e poi perché il Giappone ha degli accordi che lo mettono, vista la sua vicinanza a Cina e Russia, sotto l’ombrello nucleare degli Stati Uniti, ed è protetto da loro. Di conseguenza il fatto che proprio il Giappone abbia espresso il proprio parere favorevole a questa iniziativa ci sembra molto importante e può rappresentare un primo modo per incrinare quel muro di silenzio eretto dai paesi che l’arma nucleare la possiedono.

Al centro dell’attenzione negli ultimi mesi ci sono state però le armi chimiche. Senza sminuirne il rischio, non credete che l’importanza geopolitica del nucleare sia superiore a quello delle armi chimiche?


L’importanza geopolitica a livello più ampio è sicuramente diversa, primo per la portata che hanno gli ordini nucleari e poi perché arrivare a detenere l’arma nucleare cambia lo status del paese dal punto di vista politico: l’ha fatto la Cina negli anni Settanta, lo sta cercando di fare la Nord Corea, riuscendoci in parte, e l’Iran finora senza risultati. L’attenzione che si è avuta sulle armi chimiche è diversa, perché le armi chimiche non hanno la portata delle armi nucleari ma sono più facilmente raggiungibili, quindi è molto più diffusa, c’è la possibilità di usare le armi chimiche in maniera “sporca”, così come quella nucleare ma in maniera molto più facile, e quindi in un certo senso ha meno controllo. C’è stata una giusta attenzione, ma comunque va detto che sia per quanto riguarda il nucleare, sia per il chimico, noi abbiamo una paura potenziale.
Come diciamo da sempre, invece, nei conflitti quotidiani quelle che uccidono sono le armi leggere, quelle “meno preoccupanti” se guardiamo su un altra scala, ma che in realtà sono quelle più efficaci nei conflitti.

Oltre alla Siria, su cui c’è grande esposizione mediatica, quali sono gli scenari più preoccupanti?
Direi che lo scenario più preoccupante è da parte dei paesi occidentali, ma in particolare degli Stati Uniti, la ricerca un nemico che abbia le stesse caratteristiche dell’ex Unione Sovietica, perché tutti gli altri sono dei nemici inferiori, e questo nemico è stato trovato nella Cina, e quindi gran parte della loro politica oggi è orientata al contenimento della Cina, e addirittura in tutta l’area del Pacifico, a cominciare dall’Australia stanno potenziando la loro presenza.
E poi ci sono situazioni minori: dopo lo sconquasso fatto in Libia, dove si è fallito come si era fatto nel Corno d’Africa. Ci sono poi le situazioni totalmente dimenticate come il Congo, dove la guerra imperversa da lungo tempo.

È possibile leggere anche i conflitti africani come “figli” di questa contrapposizione?
Quasi tutte le guerre hanno cause interne ed esterne, che si sommano tra loro. Nel caso specifico dell’Africa c’è da un lato la presenza della Cina, che è una presenza che cerca di avvenire attraverso forme di cooperazione economica, dentro le quali ci sono ovviamente anche le ricerche di interessi da parte del paese stesso, ma con un enorme capacità di intervento. Dall’altra c’è la presenza prevalentemente di tipo militare degli Stati Uniti, e il ritorno di alcune potenze coloniali come la Francia. Questa è una situazione in cui i paesi che si contendono parzialmente la presenza nel continente africano giocano con strategie molto diverse tra loro.

Molte volte nella storia politica si sono lanciati appelli, anche ad alto livello, come all’ONU, per il disarmo. Cosa ha impedito di tradurli in fatti?
Per cercare di rispondere a questa domanda e più in generale per capire perché le politiche di disarmo, nonostante il famoso crollo del 1989 e 1991, noto come “crollo del muro di Berlino” in modo un po’ superficiale e poi “crollo dell’Unione Sovietica”, non abbiano portato alla riduzione stabile, se non inizialmente, della spesa militare, che poi si è impennata nuovamente raggiungendo un valore superiore a qualsiasi altro momento della storia, dovremmo leggere ciò che dice un ex generale, il generale Fabio Mini, in un libricino importante intitolato La guerra spiegata a…
Due brevi citazioni: la prima dice che “invece di evitare le guerre e guidarle in modo che si concludano presto e bene con il massimo risultato e il minimo sforzo, le idee proposte dal complesso militare industriale tendono ad assicurare grandi profitti a pochi al costo di pesanti sacrifici per molti”. C’è proprio una presenza fortissima, soprattutto negli Stati Uniti ma anche da noi, del complesso militare, industriale e accademico. Questo è l’ostacolo principale: ci sono degli interessi enormi dentro questo mondo dell’industria bellica, dove i guadagni sono i massimi possibili nel campo industriale. Questa è la vera difficoltà, non l’esigenza invece di avere degli strumenti che effettivamente funzionino. L’esempio più eclatante ed immediato in Italia è quello degli F–35.

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