In Valle di Susa da oltre 20anni si è sviluppato un movimento di lotta contro il progetto del Tav Torino-Lione, non è nel proposito di queste brevi riflessioni ribadire nel dettaglio i motivi di questa opposizione, che possiamo riassumere: Nei danni ambientali all’eco sistema (distruzione di alberi secolari , prosciugamento delle falde acquifere ,ecc) e alla salute che l’amianto e l’uranio presenti nella montagna hanno per le persone. Nello scorrere per oltre 20anni dei camion su e giù per la valle, con l’inquinamento dei motori e dello smarino portato qui e là. Nell’abbattimento di case, l’esproprio di terreni, cortili e cantine. Nell’inutilità dell’opera e lo spreco di denaro pubblico. Nelle presenza di ditte mafiose che accompagnano le grandi opere sul territorio. Il Tav rappresenta un modello sociale basato sulle merci, sui capitali e sulla velocità degli stessi, modello che oggi, abbandonata ogni promessa di uno sviluppo capitalistico dal “volto umano”, presenta il conto in tutto il pianeta, con crisi e guerre, con la costante distruzione delle conquiste prodotte dalle lotte dei due precedenti secoli, dalle politiche sociali, alla sanità, alla scuola, con la devastazione dei territori. Politiche di cittadinanza, d’integrazione, prevenzione e/o di riduzione del danno, restano discussioni da accademia, mentre nella realtà si chiudono gli ospedali. Chi si illudeva sulla possibilità di uno sviluppo capitalistico che coniugasse lavoro ed espansione dei diritti civili e sociali, oggi, giorno dopo giorno, vede gli stessi affossati per le decisioni di una ristretta oligarchia finanziaria; a girarsi indietro si vede come oggi, dal diritto del lavoro alla psichiatria, stiamo tornando indietro di decenni, nel mentre il centralismo delle democrazie autoritarie rende i nostri territori sempre più colonizzati. (nota 1) La lotta contro il Tav , in questo contesto globale ha posto, al di là del come si declina e si è declinata, un’opposizione al modello di sviluppo sociale dominante, in quanto si è posta contro quell’idea di mondo che trasforma i territori e le vallate alpine in luoghi di passaggio per l’interconnessione delle metropoli oltre che un elemento essenziale di finanziamento della politica e della speculazione finanziaria. Difficile definire il movimento no tav, se non nella descrizione seppur limitante del farsi comunità ribelle. La valle esiste e si riconosce come comunità nella lotta e quindi chi è parte della lotta è membro della comunità, non chi professa vecchie e/o nuove ideologie. Non di chi fa della critica- critica la sua ragione di esistere, non chi propone programmi prefabbricati al super market dei racket politici o delle buone intenzioni. L’essere scesi in strada, l’aver spento le televisioni, aperto le case, gustato il cibo in comune, acceso e saltato i fuochi, cantato e ballato, costruito le barricate, essersi seduti per terra a mani alzate, tirato i sassi, condiviso la gioia, la forza, il coraggio e la paura, gustato la libertà, corso nei boschi il 3 luglio tra i gas e i candelotti tirati ad altezza d’uomo, l’aver indossato le maschere, aver contrattaccato per ore, aver visto che si può vincere come a Venaus nel 2005, non avere accettato la divisione fra buoni e cattivi, tra ‘quelli di valle’ e ‘quelli di fuori’, non essersi fatti intimidire dalle denunce e dagli arresti, è parte solida e fondante della comunità, dell’aver imparato che oggi costruzione della comunità significa: comunità in lotta. In questa genuina radicalità, in questo essere lotta di popolo, il movimento no tav, ritrova gli elementi dell’esperienza delle comunità alpine originarie, e di iniziativa dal basso e autogestione (nota 2), sperimentando percorsi di secessione dall’esistente. Questa positiva alchimia che si produce nel movimento no tav e che produce il movimento no tav, ha ragioni oggettive e soggettive, legate alle radici e alla storia di questa valle dalle lotte dei celti, degli eretici, delle streghe, dei briganti, dei partigiani, sino alle lotte degli anni ’70. Nel sapersi mischiare di diversi percorsi, nel sapersi mettere in discussione, nella capacità di includere, in un fare comune, nel non volere questo treno, e nel non volerlo sul serio. Tutto cio’ viene assunto in modo leale e concreto da tutte le componenti e individualità del movimento, moderate e radicali, e fa sì che le individualità e/o gruppi del vari racket politici, si allontanino sempre, sentendosi un corpo estraneo. Senza negare screzi e contraddizioni, che ci sono stati e che vi saranno, le relazione di Valle, le relazioni con i solidali, con chi arriva dai vari luoghi, dal resto d’italia e/o d’europa, è di coinvolgimento completo; ci si confronta, si cresce insieme la sola verifica è l’onesta nella lotta. Nello slogan ‘siamo tutti black block’, nel non essere caduti nella trappola di dividersi tra buoni e cattivi. nel partire per un iniziativa di lotta senza sapere il luogo (nota 3), non vi sono deleghe o accordi politici, ma anche con immani dibattiti e litigi, una conoscenza e una fiducia costruita e maturata in anni di lotta, praticando l’inclusione nella complicità e nella solidarietà che è essere sorelle fratelli nel conflitto. Questo ha permesso di avere un’autonomia dal governo e partiti, di non accettare la logica dei tavoli, dei compromessi, delle compensazioni, ecc. Di fronte agli arresti, ad esempio il popolo no tav consolida relazioni di solidarietà: in seguito agli arresti e alle denunce nascono le associazioni di sostegno ai prigionieri, ci si occupa comunemente di coltivare la terra di chi è prigioniero o di gestirne la bottega di barbiere come nel caso di Bussoleno, si moltiplicano le raccolte fondi per avvocati e spese varie collegate agli arresti, lo slogan “ si parte e si torna assieme” sintetizza bene il non essere solo di ogni partecipante, torna con forza la memoria e si recuperano vari elementi dell’esperienza della lotta partigiana. Nelle Libere Repubbliche di Venaus e della Maddalena, nelle notti intorno ai falò, nelle barricate, si è via via consolidata un’esperienza tra giovani e anziani, tra differenti culture e pratiche, che ha prodotto un insieme che include, che non schiaccia, che non è facile trovare in altri movimenti conflittuali anche quando si esprimono in forme radicali. L’essere valsusini è diventato non dove si è nati o si risiede, ma l’avere condiviso il freddo delle notti intorno ai fuochi, dietro le barricate, le feste a Venaus, i giorni della Libera Repubblica, la baita. Un noi collettivo che da un No Tav corale ha fatto nascere un desiderio di idealità ribelle che, al di là di come si declina, parla di un altro mondo e della lotta per ottenerlo. La democrazia autoritaria dello stato capitalista ci concede di essere a fianco della strada da lor signori intrapresa, con il cartello in mano in cui diciamo che abbiamo ragione, ma guai se ci mettiamo di fronte, per impedirgli di marciare sulla nostra terra, per impedirgli di distruggerla, se vogliamo fermarli siamo antidemocratici e un pericolo nazionale! Il movimento no tav ha invece osato alzare la testa davanti ai camion, alle ruspe, alle reti e ai politicanti di turno, ha accettato di essere considerato un pericolo nazionale, proprio per questo ha conquistato i cuori di moltissima gente e incontrato la complicità delle tante e dei tanti refrattari all’esistente, non essendosi limitato alla semplice denuncia o testimonianza, ma avendo saputo porsi di traverso, ostacolando ‘fisicamente’ il progetto tav. La lotta no tav non ha possibilità di mediazione, la linea ad alta velocità o si fa o non si fa, ma questa verità ci pare sia oggi la regola per tutti coloro che lottano per la casa, per il lavoro, per chiudere i CIE, ecc , poiché è la scelta obbligata per aprire nuovi scenari al di fuori e contro gli attuali rapporti di produzione. Oggi questa l’esperienza no tav si cimenta con la nuova fase del fortino-cantiere, la riflessione del movimento e la pratica che conseguentemente viene assunta è la consapevolezza che in questa fase dell’occupazione militare (nota 4) il terreno per sbloccare questa situazione” passa per l’individuazione di percorsi che permettano di dare degli sbocchi pratici che mettano in discussione concretamente, sul campo, la presenza delle truppe d’occupazione e l’installazione dei cantieri del TAV. Si intensificano le iniziative tese a denunciare e ostacolare la presenza delle truppe: blocchi autostradali nell’ora dei cambi, picchetti presso le ditte che forniscono la logistica, caserolados sotto gli alberghi in cui dormono gli occupanti, passeggiate e manifestazioni nelle zone vietate con taglio reti e ribaltamento dei jersey, ecc . Nell’estate appena trascorsa, con l’esperienza del campeggio di lotta di Chiomonte che ha visto il confronto con solidali e ribelli di ogni dove (anche extra-europei), il movimento ha analizzato l’importanza del sostegno alla lotta no tav nei vari territori e la partecipazione dei tanti e tante in valle, e ha proposto che nella valorizzazione di queste solidarietà si cerchino le ragioni locali di azione, per ” incendiare la prateria”, per portare la valle nelle città, per unire lotte. Nella sua esperienza concreta, il movimento no tav ha dimostrato che non è necessario attendere da qualcuno o qualcosa, interno od esterno ai movimenti, le ricette per lottare. Nella prateria in fiamme ognuno di noi, a partire dal proprio luogo e spazio della propria secessione dall’esistente, apprende la scienza e le pratiche della propria liberazione. Il segreto della lotta No Tav, la sua possibile riproducibilità, sta nella sua capacità di saper costruire nella lotta: dai forni collettivi, ai campi coltivati, alle relazioni comunitarie. Di saper produrre conflitto, condivisione, piacere e complicità. A PRESTO SULLE BARRICATE Jacob Sabot- Sulla via dei Lupi Note: 1- Come scriveva Tavo Burat nella rivista ‘L’impegno’ , nell’aprile del ’97, riferendosi alle Alpi: “…se la situazione nel 43 era coloniale, oggi non sapremmo come definirla” 2- “gli incontri popolari, le assemblee di villaggio e quelle cittadine, costituiscono le istituzioni umane che si sono dimostrate nei tempi, gli strumenti piu’ adatti per un sistema di autogoverno.” Gustavo Buratti “La dichiarazione di Chivasso del 1943: premesse e attualità” aprile 1997 3- pratica del definire un orario e un luogo di incontro per poi andare sul posto dell’iniziativa, posto conosciuto solo da pochi. 4- Una precisazione sembra necessaria: oggi in Valle si vive una situazione di occupazione militare di luoghi più o meno estesi che, a seconda delle fasi del conflitto, vengono occupati, recintati e sorvegliati da centinaia a volte migliaia di interforze polizia /militari. Ceck point, divieto di muoversi in certe parti del territorio anche per i residenti, autorizzazioni prefettizie per recarsi nei propri campi, schedature di massa, con presa di foto, video e impronte e imposizioni che sfuggono le normali leggi, utilizzo di elicotteri e satelliti per fotografare e controllare la popolazione. Questa situazione ha molte affinità con quanto hanno vissuto e vivono le popolazioni vittime di cataclismi, ovvero: governo dei militari e della polizia sui territori, divieto di assemblee, censura, ecc. L’occupazione militare è uno sviluppo della militarizzazione nelle situazioni di conflitto interno, teorizzato e definito in vari documenti della Nato e delle varie politiche di controinsurrezione, non un eccesso, anche se le anime belle del cittadinismo e dei diritti umani, non lo capiscono e si richiamano alla Costituzione o al Presidente della Repubblica e alla democrazia tradita.
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