Originale: Aljazeera
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6 dicembre 2013

L’arte di Mandela di comprendere il nemico
di Mike Hanna
Traduzione di Maria Chiara Starace

Era una magnifica giornata di inverno serena, a Johannesburg, e nelle mie orecchie c’era ancora il suono della vibrazione dei motori del Boeing 747 che era arrivato pochi minuti prima, volando così basso che sembrava sotto il livello dei riflettori  intorno allo Stadio Ellis. La folla  è esplosa in un      boato quando le squadre sono entrate di corsa in campo – gli Springbocks del Sudafrica che affrontavano gli All Black della Nuova Zelanda, nella finale di Coppa del Mondo di rugby del 1995.

Con la coda dell’occhio ho visto camminare per incontrare i giocatori, l’alta, magra figura con i capelli grigi  di Nelson Mandela. Al contrario dei funzionari in giacca e cravatta intorno a lui, il presidente sudafricano indossava dei calzoni grigi sportivi  e  una maglia verde.

Mentre camminava  si è messo un cappellino verde, è si è potuto udire il respiro trattenuto di 60.000 persone quando si sono accorte che Mandela indossava il berretto e la maglia degli Springbok, con il numero 8 sulla schiena -  lo stesso del capitano della squadra Francois Pienaar.

Mentre dava la mano ai giocatori, il suo nome veniva gridato da una parte all’altra dello stadio, e poi si cresciuto di volume mentre tutti lo accompagnavano  con un potente battito  ritmico: “Nelson, Nelson, Nelson, Nelson”.

In quel momento milioni di persone guardavano come un paese diviso da decenni era diventato uno. I sudafricani nello stadio e oltre, sperimentavano per la prima volta un senso condiviso di orgoglio nazionale e di gioia. Solo dopo un anno di democrazia, era il momento significativo del nuovo Sudafrica.

Mentre un Mandela raggiante consegnava la Coppa del Mondo al biondo capitano afrikaner Pienaar alla fine della partita, la sua faccia era quella di un uomo che  sapeva che il suo paese aveva vinto molto di più che un trofeo sportivo.

La decisione di Mandela di indossare la maglia da rugby è stata in generale considerata spontanea, il risultato dei contatti presi da una sua guardia del corpo con un rappresentante della squadra la mattina della partita. Tuttavia, questo momento di esultanza era di fatto il culmine di un piano strategico che era iniziato decenni prima.

Il periodo della prigione

Molti dei compagni di prigionia di Mandela durante il periodo di Robben Island, facevano commenti sulla sua insistenza di imparare l’Afrikaans, la lingua della minoranza bianca che molti degli oppressi si rifiutavano di parlare o anche di imparare.

Molti degli attivisti più giovani, che erano stati messi in prigione sull’isola dopo la rivolta studentesca del 1976 si sentivano profondamente offesi quando sentivano Mandela che parlava Afrikaans con i guardiani.

La loro generazione era scesa nelle strade per protestare contro l’insistenza del regime che l’Afrikaans si insegnasse nelle scuole per la gente di colore.

Saths Cooper era uno di quelli che erano stati  arrestati nel 1976 e mandati a Robben Island, dove è stato messo nella stessa  sezione  di Mandela. E’ stato rilasciato nel 1982 con un laurea in Scienze umanistiche ottenuta per corrispondenza mentre era in prigione.

Lo ho incontrato per la prima volta poco dopo che aveva completato un Master in psicologia all’Università del Witwatersrand. Come fondatore della Convenzione del popolo nero, Cooper era profondamente contrario a quelle che considerava le politiche non-razziali distorte di Mandela e del Congresso Nazionale Africano (ANC).

Era la prima volta che ascoltavo una descrizione di prima mano di Mandela e del suo carattere, resa ancora più intensa forse dal fatto che arrivava da un oppositore politico.

“Sosteneva che era tutta una questione di conoscere il proprio nemico,” ha detto Cooper. La sua posizione era che si doveva conoscere la loro lingua, le loro passioni, le loro speranze ed le loro paure se si aveva mai intenzione di sconfiggerli.

In tutti gli anni di discussioni nelle celle, i due sono rimasti in disaccordo politicamente, ma Cooper ha detto che questo non ha mai offuscato le loro discussioni.

“Si riusciva a sentire la sua resistenza, ma comunque ascoltava. Era un ottimo ascoltatore e tentava di insinuare una domanda attentamente considerata di chiarificazione o proponendo un’altra posizione. Però ascoltava, forse gli piaceva quello che sentiva, e tuttavia ascoltava.”

Un altro dei compagni di prigionia di Mandela, e suo oppositore politico, aveva un’opinione leggermente diversa. Neville Alexander era uno dei grandi intelletti della sua generazione ed è stato riconosciuto come tale durante i suoi 10 anni a Robben Island. Ad Alexander è stato chiesto dalla dirigenza dell’ANC, compreso Mandela, di fare da tutore a un giovanotto già  destinato a essere un leader del futuro, Jacob Zuma. Questo, malgrado il fatto che si opponeva veementemente a ciò che considerava come le politiche “populiste” dell’organizzazione.

E’ stato Alexander a disperdere qualsiasi tendenza si avesse di venerare Mandela come un’icona intoccabile, e il suo sollecito amichevole che è possibile rispettare, e perfino volere bene, a qualcuno con cui fondamentalmente si è in disaccordo, è qualcosa che continua a riecheggiare. Alexander ha descritto la forte testardaggine di Mandela.

“Ho sempre sperimentato questa sua testardaggine più come una forma di arroganza, come una forma di conservatorismo, in realtà. Vi darà sempre l’impressione di ascoltare molto molto attentamente, ma ogni tanto vi accorgete che, no, non ha ascoltato, perché torna sempre fuori con la stessa posizione di prima,” ha detto.

‘Comprendere il nemico’

“Mandela sapeva e sa che certi simboli, certe tradizioni, certe pratiche culturali, come il rugby, come l’antilope usata come simbolo, sono cose   molto importanti e che tutto il suo scopo  è stato di unire le tradizioni afrikaner e quelle afrikaans.

E unirle in qualche modo, non necessariamente mescolandole come si in un crogiuolo, ma come si in un’insalatiera, ottenere questo per costituire un’unica entità. Voglio dire che tutta la sua strategia di costruzione della nazione è basata su questo. Quale colpo migliore che fare in modo che la squadra ‘bianca’ degli Springbok venisse accettata dalla maggioranza di colore come loro squadra?”

Gli anni di negoziati tra il rilascio di Mandela dalla prigione, nel 1990, e le elezioni democratiche di quattro anni dopo, sono stati anche anni di discussione all’interno dell’ANC.

Molti erano contrari all’idea di Mandela di “abbracciare” il gioco del rugby e l’icona della squadra nazionale, l’antilope – un simbolo associato con il passato di apartheid – tuttavia ha continuato a essere inflessibile nella sua posizione e ha persuaso l’Esecutivo dell’ANC ad appoggiare lo svolgimento della Coppa del Mondo di rugby in Sudafrica nel 1995.

L’opposizione agli “Springboks” era profondamente radicata nella maggioranza della popolazione, ma avendo preso questa decisione Mandela aveva intenzione di rimanervi fedele. Un uomo che non lasciava nulla al caso, ha deciso da solo di presentare la faccenda alle masse.

Mesi prima della competizione della Coppa del Mondo, sono andato a fare un servizio giornalistico su una dimostrazione politica dell’ANC  nella provincia del Capo Orientale, l’unica zona in cui il gioco del rugby era stato per tradizione giocato su base non razziale come profondo punto di  opposizione alla squadra  “soltanto di bianchi”, degli Springboks.

Mandela era l’oratore principale e mentre camminava verso il palco indossava per la prima volta il cappellino verde della squadra con l’antilope gialla che risaltava sulla parte anteriore. Ci sono stati mormorii di incredulità e anche di rabbia tra la folla.

Mandela ha ignorato la reazione, parlando proprio al di sopra di parole di scherno urlate e nel fragore assordante degli applausi che hanno salutato la fine del discorso, il problema del cappellino sembrava essere dimenticato.

Mandela successivamente ha sostenuto con i suoi consiglieri che questo costituiva l’approvazione della sua posizione, e questa è stata la fine dell’argomento.

Molti sostenevano l’argomento che appoggiare gli Springboks era un prova della suprema arroganza di Mandela, dell’irremovibile fiducia in se stesso di avere ragione. Altri indicavano il successo della tattica come prova della visione a lungo termine dell’uomo – della sua abilità di pensare alle cose     durante tutto il loro corso malgrado gli ostacoli sul cammino.

L’argomento del capo Zulu Mangosuthu Buthelezi era un altro che divideva l’ANC con un vigoroso dibattito. Per molti, l’uomo che aveva accettato la dirigenza di quello che all’epoca era considerato il Bantustan di Kwazulu, era nel migliore dei casi un tirapiedi del governo dell’apartheid, nel peggiore un nemico estremamente pericoloso dell’ANC e dell’opposizione al tentativo del regime di dividere il paese su base tribale.

Mandela aveva incontrato Buthelezi negli anni ’50, e durante tutta la sua detenzione ha mantenuto una cordiale e rispettosa corrispondenza con il leader Zulu.

Questo rapporto si è  mantenuto fino al suo rilascio dalla prigione, malgrado il fatto che il Partito Inkatha per la libertà (Inkatha Freedom Party – IFP),  istituito come veicolo politico di Buthelezi, si opponesse all’ANC.

Violenza intensa

Nella regione del Natal e in ognuno dei distretti dove c’era una significativa presenza Zulu, questa opposizione si manifestava con intesa violenza.

Buthelezi si era sentito offeso dall’ANC nel processo di negoziazione, ha insistito che avrebbe boicottato le prime elezioni democratiche del paese.

Durante tutto il 1993 e fino all’inizio del 1994, sono stato uno dei molti giornalisti che hanno passato molto tempo a Durban, la capitale regionale, accampato nell’atrio  di un albergo sul lungomare, osservando le numerose delegazioni dell’ANC che andavano e venivano – nessuna riusciva a  persuadere Buthelezi  ad acconsentire  a una tregua.

Poi Mandela, che per anni aveva esortato l’organizzazione di incaricarlo di parlare finalmente ha trovato il modo.

E ‘arrivato all’albergo e ha immediatamente insistito che lui e Buthelezi parlassero da soli – nessun consigliere e assolutamente nessun tipo di media.

In una successiva conferenza stampa, Mandela si è profuso in lodi del leader Inkatha. Buthelezi eera seduto tranquillo e non diceva nulla.

Alla vigilia delle elezioni del 1994, Buthelezi ha accettato di parteciparvi, la violenza è improvvisamente finita, e la più grossa minaccia al processo democratico era stata annullata.

Mandela non aveva finito con la sua strategia a lungo termine. Contro il volere di molti membri dell’esecutivo dell’ANC,  ha insistito che Buthelezi diventasse ministro nel governo democratico, e per i primi otto anni della democrazia del paese, un uomo che molti consideravano il più pericoloso oppositore dell’ANC, ha fatto il Ministro degli Affari Interni.

Poco prima delle elezioni di 1999, c’è stata di nuovo un’esplosione di uccisioni tribali. I critici di Buthelezi hanno insistito che stesse eccitando e spegnendo la violenza  e chiudendo per aumentare la sua influenza politica.

Mandela si è opposto con vigore all’allontanamento di Buthelezi dal governo, e quando lui e il suo vice presidente Thabo Mbeki dovevano essere assenti dal paese contemporaneamente, Mandela ha insistito che Buthelezi fosse il capo di stato provvisorio.

Per poche settimane, l’uomo che alcuni nell’ANC avevano voluto morto, l’uomo che molti credevano ponesse la più grande minaccia alla nuova democrazia, era diventato presidente provvisorio.

La violenza si è arrestata, e ancora una volta la strategia a lungo termine di Mandela aveva avuto buone conseguenze. Ancora una volta la sua insistenza di ignorare coloro che non erano d’accordo con lui si era dimostrata la scelta giusta.

Equilibrio di forze

Chiunque intervistava Mandela, sapeva che un argomento non sarebbe stato discusso: la religione. Era una cosa che Mandela considerava profondamente personale che non  riguardava nessun altro tranne lui.

Ho trovato tuttavia un’altra linea che non andava superata, nelle molte occasioni in cui gli ho parlato: ogni volta che menzionavo il problema del pensiero strategico a lungo termine, Mandela cambiava argomento nei modi più piacevoli. Scherzava, sorrideva, e proponeva un altro argomento che considerava importante. Il messaggio era chiaro: le sue azioni riguardavano tutte ciò che considerava la cosa giusta da fare in ogni dato momento.

L’occasione in cui arrivava più vicino a spiegare il pensiero che si trasferiva in ciò che molte volte sembrava essere un’azione spontanea,  era quando parlava di qualcun altro.

Nel 1995 al funerale del suo amico di vecchia data e capo del Partito Comunista Sudafricano, Joe Slavo, Mandela ha fatto il primo di molti discorsi davanti alle bare di vecchi amici che avrebbe ripetuto negli successivi.

“L’elemento più importante nell’approccio [di Slovo] alla lotta su qualsiasi fronte, era la comprensione della situazione politica, l’equilibrio delle forze, e quindi gli approcci necessari a fare avanzare quella lotta.

“Quindi era in grado di apprezzare i cambiamenti delle condizioni obiettive e a iniziare discussioni sui cambiamenti delle tattiche da dover applicare,” ha detto Mandela che avrebbe potuto descrivere se stesso con quelle parole.

In tutto questo, tuttavia, ciò che non è stato mai valutato pubblicamente,  era il costo personale di vivere un presente in gran parte definito da una visione del futuro. Graca Machel, la terza moglie di Mandela, ha fatto notare quello che pochi avevano capito, in un’intervista in occasione del novantesimo compleanno di suo marito.

“Mandela era un uomo solo, quando l’ho incontrato,” ha detto. “Aveva il mondo nelle sue mani, ma alla fine della giornata, dopo gli incontri pubblici, andava a casa ed era solo.”

Nessun  barlume  di questa solitudine è mai apparso sull’immagine pubblica di Mandela, e ancora una volta il suo collega di prigione Neville Alexander ci ha offerto fornito un punto di vista unico.

“E davvero un bravo attore, ed il tipo di caso in cui l’arte imita la vita. E realmente, genuinamente, la vita imita l’arte – nell’altro modo,” ha detto Alexander.

“Analizza a fondo le cose molto attentamente,  e poi la forza e la potenza della sua convinzione lo rendono spontaneo. E’ genuino ma perché le cose sono state analizzate a fondo molto molto attentamente. Naturalmente, come ogni altro essere umano, ha uno sbandamento  occasionale, e allora tutti dicono: “ebbene, anche il dio ha i piedi di argilla.”

Tu sei la nostra vita

Nel maggio 2003, è morto il più vecchio e caro amico di Mandela, e suo consigliere, Walter Sisulu.  I due uomini erano stati soci  di lavoro, compagni di prigione per decenni, e negli anni successivi al rilascio di Mandela, Sisulu era sempre stato la voce della ragione e talvolta del conforto che parlava all’orecchio di Mandela.

Un collega politico di Mandela, molto vicino a lui, una volta mi ha detto: “Walter è come il tipo  che stava in piedi dietro al generale sulla suo carro durante la celebrazione di un trionfo, e che gli sussurrava all’orecchio, ‘ricordati che sei soltanto umano’”.

Nel suo discorso a un altro funerale di un altro collega a cui era sopravvissuto, Mandela ha descritto il tipo di persona che Sisulu era stato e – forse nello stesso momento – ha rivelato che tipo di persona egli stesso aveva sempre cercato di essere.

“Sapeva e ci insegnava che la saggezza proviene dal condividere le opinioni e dall’ascoltare e imparare l’uno dall’altro. Era sempre una persona che univa e che non divideva mai. Quando altri tra noi dicevano una parola avventata o agivano in preda alla rabbia, lui era quello paziente che cercava di ricomporre le cose e di riunirci,” ha detto Mandela.

Dopo il discorso, si è seduto tra tutti i membri dell’ANC riuniti sul palco. La sua faccia sembrava dura come se fosse stata scolpita nel granito. Raramente ho visto una persona così trite, così sola.

Poi un gruppo di donne con vestiti a colori vivaci si sono raggruppate su un lato del palco e hanno cantato un canto di lode: “Mandela, Mandela, tu sei la nostra vita”.

Mandela ha guardato in alto, la sua faccia trasformata in quel caratteristico sorriso raggiante. Si è alzato in piedi in modo instabile e ha camminato verso il punto dove le cantanti erano riunite, ha teso le braccia e ha iniziato a ballare.

In un istante aveva messo via il suo dolore, l’aveva sepolto per poco tempo in qualche posto privato, ed è diventato il leader che non emanava niente altro che speranza. Un uomo che gente voleva e aveva bisogno che ci fosse.

Era una cosa spontanea, era genuina, e come tante cose nella vita di Mandela, era la cosa giusta da fare.

 


Mike Hanna è un  conduttore di notiziari televisivi e corrispondente di Al Jazeera. E’ cresciuto in Sudafrica e come giornalista ha trattato la lunga lotta contro l’apartheid e i negoziati che hanno portato alla comparsa di un nuovo governo non razzista e democratico con a capo Nelson Mandela. Continua a fare servizi su eventi in Africa per l’edizione in inglese di Al Jazeera. E’ grato al PBS (Public Broadcasting Service) per alcune delle citazioni pubbliche di Neville Alexander.


Da: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/mandelas-art-of-undestanding-the-enemy-by-mike-hanna

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