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May 20, 2013

La tragedia delle immolazioni, di cui  nessuno si preoccupa
di Andrew Lam

Questa ultima forma di protesta divenne notizie globale nel 1963, quando il venerabile monaco Thich Quang Duc si diede alle fiamme nel centro di Saigon, Vietnam, per protestare contro l'oppressione religiosa. Cosparso di benzina, il monaco seduto serenamente nella posizione del loto, accese un fiammifero. Un uccello del paradiso così sbocciò e fiorì, e rapidamente il suo corpo si carbonizzò.

Il fotografo Malcolm Browne catturò l’ardente rinuncia di Thich Quang Duc alle sue spoglie mortali, l'immagine diventò rapidamente un'icona della guerra del Vietnam. Il termine "immolazione", infatti, è entrato in uso comune inglese dopo la sua morte, che ha portato a un colpo di stato che ha rovesciato il regime filo cattolico di Ngo Dinh Diem.

Mezzo secolo più tardi, morire tra le fiamme per protesta registra poco più di un blip mediatico.

Mentre scrivo, 117 tibetani si sono dati alle fiamme dal 2009 in una serie di proteste contro il dominio cinese. Gli eventi più recenti sono avvenuti in aprile, quando due giovani monaci tibetani e una donna laica tibetana si sono dati fuoco. C’è stata poca copertura ediatica della loro morte.

Infatti, con l'eccezione di Mohamed Bouazizi, il venditore di frutta tunisino che si è dato fuoco, scatenando quel fenomeno noto come la primavera araba, l’immolazione a detta di tutti ha fallito sia come forma di protesta sia come agente di cambiamento. Sia in Siria che in Palestina, in Grecia, Italia o in Vietnam, le persone continuano a darsi alle fiamme, come le folle a guardare. Dopo Bouazizi, infatti, più di 150 i tunisini si sono dati fuoco per protestare contro il nuovo governo, secondo al-monitor.

Byrne-Rosengren, direttore del gruppo di pressione Free Tibet con sede a Londra, ha detto a Radio Free Asia il mese scorso: - Tutti i tibetani che ricorrono all’immolazione lo fanno perché sentono di non avere nessun altro modo per far sentire alla Cina e al resto del mondo, l’appello del loro paese per la libertà –

Ahimè, la Cina ha fatto orecchie da mercante alle loro grida, mentre il mondo dei media ha evitato i suoi occhi.

Aristotele, una volta osservò che la trama di una tragedia dovrebbe essere impostata in modo che, anche in assenza di testimoni degli eventi, semplicemente sentendo di loro dovesse riempire chiunque di orrore e pietà, e anche portare alla conoscenza e all’azione. Ma l'anfiteatro del 21° secolo è caduto in rovina, disperso e frammentato in una moltitudine di piattaforme mediatiche. Ci sono troppi attori e troppi teatri e le loro tragedie vengono schiacciate, prive di contesto, incoerenti, troncate o mal segnalate, perdendo così tutta la loro presa sulla psiche umana.

Esistono studi sulla desensibilizzazione della mente moderna in abbondanza, ma il consenso generale è che l'eccesso di saturazione di immagini e racconti di violenza hanno portato ad un torpore collettivo. Un orribile atto di morte pubblica non può sperare di influenzare un mondo nel quale l’orrore ha perso il suo potere. Quello che vogliamo invece è l’intrattenimento, e ciò intorno a cui gravitiamo e reagiamo, più spesso che no, è blasfemo.

Un anno dopo Bouazizi è andato in fiamme in Tunisia, un regista dilettante sconosciuto di nome Nakoula Basseley Nakoula, "alias" Sam Bacile, che aveva infiammato il Medio Oriente con video clip incendiarie che ridicolizzavano il profeta Maometto. Il suo film girato tra la primavera araba del 2011 e la rabbia dell’autunno del 2012, ha provocato la morte di un ambasciatore americano in Libia, e continua ad essere il pomo della discordia a Washington.

L'osservatore cinico non può fare a meno di chiedersi: se l’immolazione non funziona più come un agente di cambiamento, allora ne vale ancora il prezzo? O è stata ridotto a mero suicidio con il fuoco?

Nella sua forma più profonda l'atto si pone come la più alta forma di compassione umana, una conferma di vita rinunciando alla propria. Nella sua forma più incoerente l’immolazione diventa un espressione della frustrazione dei senza potere. L'individuo, innamorato della morte, posseduto dalla rabbia, non suscita né orrore, né pietà, ma solo cinismo. Dopo tutto, bruciare di passione è molto diverso che essere consumato dalla rabbia.

Il fuoco, questo dono e al contempo maledizione per l'umanità è di una bellezza terrificante. Quando contenuto, allude all’eleganza, cucina il nostro cibo e spinge il nostro mondo. Quando fuori controllo, avvolge il corpo e l'anima. educe. Vince e Distrugge.

Ai potenziali immolanti si consiglia di ripensare il loro rapporto con il fuoco. In un mondo in cui gli individui fanno leva più sul potere on line che su quello nella pubblica piazza, può essere che per vivere ardente desiderio di portare l'attenzione su di una causa, indipendentemente dall’oppressione e dalla umiliazione, èla vera sfida sia diventare agenti reali del cambiamento nel mondo. Allora, perché non vivere, invece? E trovare nuovi modi per forzare l'attenzione del mondo ancora una volta di nuovo sul palco, evocando la pietà e l’orrore in tutti noi.

Per bruciare con quel desiderio, per richiamare la nostra attenzione e tenere il nostro sguardo fino alle lacrime, non vale forse la pena di vivere?


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May 20, 2013

The tragedy of self immolation: No one cares
By Andrew Lam

This ultimate form of protest became global news in 1963 when the venerable monk Thich Quang Duc set himself ablaze in the middle of Saigon, Vietnam, protesting religious oppression. Doused in gasoline, the monk sat serenely in lotus position and lit a match. A bird of paradise thus blossomed and bloomed, and quickly charred his body.

The photographer Malcolm Browne captured Thich Quang Duc’s fiery renouncement of the mortal coil, the image quickly becoming an icon of the Vietnam War era. The term “self-immolation,” in fact, entered into common English usage after his death, which led to a coup d’etat that toppled the pro-Catholic Ngo Dinh Diem regime.

Half a century later, to die by fire in protest registers little more than a media blip.

As of this writing, 117 Tibetans have set themselves ablaze since 2009 in a series of protests against Chinese rule. The most recent incidents came in April, when two young Tibetan monks and a lay Tibetan woman set themselves on fire. There was little coverage of their deaths.

Indeed, with the exception of Mohamed Bouazizi, the Tunisian fruit vendor who set himself on fire and thus sparked what became known as the Arab Spring, self-immolation has by all accounts become a failed form of protest as an agent of change. Whether in Syria or Palestine, Greece, Italy or Vietnam, individuals continue to go up in flames as crowds look on. Since Bouazizi, in fact, 150 more Tunisians have set themselves on fire protesting the new government, according to al-monitor.

“All the Tibetans who resort to self-immolation do so because they feel they have no other way to make China and the rest of the world listen to their country's call for freedom,” Byrne-Rosengren, director of the London-based advocacy group Free Tibet, told Radio Free Asia last month.

Alas, China has turned a deaf ear to their cries, while the world media has averted its eyes.

Aristotle once observed that the plot of a tragedy should be so framed that, even without witnessing the events, simply hearing of them should fill one with “horror and pity”—even lead to insight and action. But the amphitheater of the 21st century has fallen into decay, scattered and fragmented into a multitude of media platforms. There are too many actors in too many theaters and their tragedies—overwhelming, lacking in context, incoherent, truncated or badly reported—have lost their grip on the human psyche.

Studies about desensitization of the modern mind are aplenty, but the general consensus is that over-saturation of images and narratives of violence have resulted in a collective numbness. A profound act of public death cannot hope to sway a world in which horror itself has lost its power.

What we want instead is entertainment, and what we gravitate toward and react to, more often than not, is profanity.

A year after Bouazizi went up in flames in Tunisia, an unknown amateur filmmaker named Nakoula Basseley Nakoula,” aka “Sam Bacile,” inflamed the Middle East with incendiary video clips ridiculing the prophet Muhammad. His film turned the Arab Spring of 2011 into the Autumn Rage of 2012, resulted in the death of an American ambassador in Libya, and continues to be a bone of contention in Washington.

The cynical observer can't help but wonder: If self immolation no longer works as an agent for change, then is it still worth the price? Has it been reduced to mere suicide by fire?

At its most profound the act stands as the highest form of human compassion, a confirmation of life by giving up one's own. At its most incoherent self-immolation becomes more expressive of the frustration of the powerless. The individual, enamored by death, possessed by anger, elicits neither horror nor pity but cynicism. After all, to burn with passion is very different than to be consumed by rage.

Fire—this gift and curse to humanity—is a terrifying beauty. Contained, it hints at elegance, cooks our food and propels our world. Out of control, it engulfs body and soul. It seduces. It overpowers. And it destroys.

Potential self-immolators may want to rethink their relationship with fire. In a world where individuals leverage more power online than in the public square, it may be that to live burning with desire to bring attention to one's cause—regardless of the oppression and humiliation—is the real challenge to becoming actual agents of change in the world. So why not live instead? And find new ways to force the world's attention once more back onto the stage—and evoke pity and horror in us all.

To burn with that desire, to call our attention and hold our gaze until we weep—isn't that worth living for?

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