il Fatto Quotidiano
17 luglio 2013
La storia viene scritta anche dai “guerrieri”
Silvia Truzzi intervista Anna Bravo
Pace, un altro modo di guardare il mondo. La guerra vince. Su cosa? Sulla “non guerra” o, meglio, sulla pace. Vince nel nostro vocabolario affollato di parole come “schieramento”, “militante”, “battaglia”. Vince nella memoria collettiva che dimentica i gesti di tregua e trattiene solo quelli di sopraffazione. Vince perché, nel pieno di una terribile crisi economica, stiamo per comprare 90 cacciabombardieri alla modica cifra di quasi 12 miliardi di euro. “Guerra e violenza restano egemoni su vari piani, a cominciare dai termini con cui si classificano le fasi. Definire ‘di piombo’ gli anni Settanta in Italia dà conto del sangue versato, del dolore, della paura, ma cancella, insieme alle altre, e belle, facce dei movimenti, le trasformazioni che stavano compiendosi in tanti ambiti della società . Gli anni Venti e Trenta del Novecento sono etichettati come età fra le due guerre, ma quante cose si susseguono in quei due decenni, dalla crisi del 1929 alla nascita dei totalitarismi agli albori del welfare”. Lo scrive Anna Bravo, storica torinese, ne La conta dei salvati, un libro che andrebbe distribuito ai nostri governanti.
Professoressa, perché questo libro oggi?
La ricerca è stata lunga. Il motore è stato il tentativo di spiegare che “si può fare”. Si può aprire un conflitto, si può lottare e vincerlo, senza passare attraverso la violenza. Ho deciso di studiare e raccontare le storie di chi ha cercato di resistere alla violenza senza la violenza. O di chi ha cercato di ottenere libertà senza la violenza. Le primavere arabe per esempio sono partite come manifestazioni pacifiche. Poi la violenza si è infiltrata. E io sono d’accordo con chi dice: non c’è primavera dove c’è violenza.
Ci sono, nel libro, dati molto interessanti. Per esempio lei spiega come la non violenza, in alcuni casi, garantisca maggiore successo delle pratiche offensive.
È statisticamente vero. Le ricerche sulle resistenze civili e armate penso a Why Civil Resistance Works, di Erica Chenoweth e Maria J. Stephan mostrano che fra il 1900 e il 2006 sono state le prime a ottenere più successi: il 59 contro il 27 per cento nelle lotte interne antiregime; il 41 contro il 10 per cento di risultati parzialmente positivi in quelle contro l’occupazione di un paese o per l’autodeterminazione. La scelta non violenta è sempre vincente nelle lotte per i diritti civili.
Non solo Gandhi …
Nel libro ho dato molto spazio ad alcuni leader: per le guerre bastano capi mediocri, per la nonviolenza occorrono grandi guide. Non ci sarebbe stata una transizione pacifica in Sudafrica senza Mandela e Tutu, un così forte movimento per i diritti civili senza King, né una nonviolenza tibetana senza il Dalai Lama, kosovara senza Ibrahim Rugova e nonviolenza tout court senza Gandhi.
Ci sono esempi poco conosciuti di resistenza inerme.
Nella Grande Guerra s’incontrano esempi di fraternità tra nemici taciuti per decenni e messi in luce solo a partire dagli anni Sessanta: questa è una responsabilità degli storici. Nel 1914 la proposta di un cessate il fuoco generale per il Natale avanzata dal papa viene respinta da vari Paesi. Ma in alcuni settori del fronte occidentale quel giorno vede una calma assoluta; è il frutto di una serie di tregue decise da soldati inglesi e tedeschi, iniziate con gli scambi di auguri da una trincea all’altra, culminate nell’incontro per scambiarsi sigarette e piccoli doni, e proseguite in qualche caso fino all’anno nuovo.
C’è anche un discorso su guerra maschile, pace femminile.
Tra nonviolenza e femminismo c’è un’affinità: tutte e due riscrivono la storia, implicano unarivoluzione interiore, valorizzano le mediazioni, si richiamano alla pazienza e alla cura delle cose piccole e gracili, che il prometeismo maschile militar-tecnonologico si è diligentemente impegnato a distruggere. Però il femminismo, penso a certe componenti femminili dell’Autonomia per esempio, non sempre è stato non violento. Mi pare importante sottolineare che le organizzazioni di donne in cerca di giustizia per i loro cari uccisi o fatti sparire da regimi golpisti e dittature (le madri e nonne cilene, le argentine di Plaza de Mayo, le madri degli studenti scomparsi a piazza Tienanmen, le russe, le cecene, le algerine, le damas de blanco cubane) non hanno dei leader guida. Forse queste lotte hanno meno bisogno di figure carismatiche perché il carisma sta nella forza della maternità, fisica e simbolica, cui si richiamano.
Stiamo per acquistare una fondamentale flotta di cacciabombardieri. Lei che ne pensa?
Sono allibita, mi pare impossibile che stia accadendo. Sono allibita. Io spero che il Parlamento si faccia sentire, nonostante la decisione del Consiglio supremo della difesa. Il problema è che tutti si nascondono dietro il fatto che è stato già tutto deciso. Ma si può, si deve, tornare indietro anche se siamo un Paese dove si fa la sfilata del 2 giugno con i carri armati: sprechi, inquini, dai fastidio a tanta gente. I sentimenti non violenti sono più diffusi di quanto si pensi.