Originale: Truthout
14 novembre 2013

Perchè sono falliti e perchè diventeranno più difficili i colloqui sul nucleare iraniano
di Gareth Porter
traduzione di Giuseppe Volpe

La possibilità di un primo accordo preliminare tra l’Iran e le sei potenze (USA, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina) per risolvere il decennale conflitto sul programma nucleare iraniano è andata persa durante il fine settimana a causa di una politica francese deliberatamente volta a impedire l’accordo su richiesta di Israele e della mancanza di impegno dell’amministrazione Obama per il raggiungimento di una soluzione complessiva del problema.

Questi due principali motivi dell’interruzione dei negoziati senza aver raggiunto un accordo rivelano esattamente quanto sia fragile la diplomazia che circonda la questione nucleare iraniana e quanto quest’ultima sia prossima a finire in un grave stallo. Inoltre le osservazioni del Segretario di Stato John Kerry a proposito dell’episodio, lungi dal mitigare i dubbi iraniani, probabilmente creeranno dubbi nuovi sull’impegno dell’amministrazione Obama per una soluzione complessiva del problema.

Le coperture statunitensi a Israele e alla Francia

Il ministro degli esteri francese Laurent Fabius ha colto di sorpresa gli altri ministri degli esteri delle sei potenze nei colloqui di Ginevra quando ha utilizzato un’intervista alla radio France-Inter per formulare obiezioni a “numerosi punti che … non ci soddisfano, rispetto al testo iniziale” e ha definito la bozza di accordo una “truffa”. Tale linguaggio è stato chiaramente parallelo all’attacco contro l’accordo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e appare calcolare in modo da impedire che l’accordo fosse raggiunto.

Il giorno seguente Kerry e il Sottosegretario di Stato per gli Affari Politici, Wendy Sherman, hanno proposto una nuova spiegazione per il fallimento dei colloqui quanto al raggiungimento dell’accordo nel fine settimana; tale spiegazione è parsa negare che ci sia stato un problema di mancanza di unità tra le sei potenze.

Kerry ha affermato in una conferenza stampa lunedì ad Abu Dhabi che la Francia si era unita alle sei potenze nel formulare una proposta unitaria all’Iran – un punto che apparentemente ha discolpato la Francia dall’accusa di sabotaggio diplomatico – e che era stato l’Iran a non essere in grado di accettare il testo senza ulteriori consultazioni. La stessa spiegazione è stata fornita a giornalisti di Gerusalemme da un “alto dirigente statunitense” non nominato, presumibilmente Sherman, che dirigeva la delegazione statunitense in visita a Israele per riferire sui colloqui.

Una ricostruzione degli eventi del fine settimana indica, tuttavia, che la versione statunitense è stata un tentativo in malafede di offrire copertura agli alleati francesi e israeliani.

Qualche tempo aver dato la sua approvazione per l’avanzamento della bozza, Fabius ha attaccato l’accordo su Arak e sul problema delle scorte iraniane di uranio arricchito al venti per cento. E’ stata pura retorica a uso e consumo del pubblico. Diplomatici occidentali sono stati citati per aver affermato che Fabius stava “resistendo” perché agli iraniani fossero imposte condizioni più dure di quelle che erano state concordate dalle altre cinque potenze e che in realtà egli stava sabotando l’accordo.

Le obiezioni formulate da Fabius non erano basate su reali problemi tecnici.

La formulazione della bozza di accordo prevedeva che l’Iran non “attivasse” il reattore di ricerca all’acqua pesante di Arak, anziché richiedere un immediato blocco di tutti i lavori di costruzione del reattore, secondo una rivelazione di due alti funzionari dell’amministrazione Obama alla CNN pubblicata l’8 novembre.

Il motivo è che Arak non è un rischio di proliferazione a breve termine. L’idea che Arak produrrebbe plutonio sufficiente a una bomba nucleare l’anno, frequentemente citata nella copertura mediatica del problema, è estremamente fuorviante perché, in realtà, l’Iran non di dispone di alcuna struttura per riprocessare il plutonio, come ha segnalato Daryl Kimball dell’Associazione per il Controllo degli Armamenti.

E la presentazione PowerPoint del ministro degli esteri iraniano Mohammad Javad Zarif alla riunione preliminare di metà ottobre indicava che l’Iran era pronto ad accettare accordi per la rimozione di tutto il plutonio prodotto dal reattore, cosicché non sarebbe stato in grado di

Il ministro degli esteri di uno stato indipendente normalmente sarebbe andato in collera di fronte a una così aperta estorsione con la minaccia della forza. Ma il governo francese ha mantenuto la posizione più filo-israeliana e anti-iraniana di ogni altro stato europeo da quando Nicolas Sarkozy aveva sostituito Jacques Chirac come presidente nel 2007. Nonostante la svolta dal governo di Sarkozy dell’Unione di Centrodestra per un Movimento Popolare al governo socialista di Francois Hollande nel 2012 tale politica non è cambiata per nulla.

Diversamente dagli Stati Uniti, dove l’influenza filo-israeliana è esercitata mediante contributi elettorali coordinati dall’AIPAC, in Francia la ha un controllo quasi completo sulla politica estera. La politica nei confronti dell’Iran e di Israele negli ultimi sei anni è stata plasmata da un piccolo gruppo di dirigenti. Quelli che oggi consigliano Fabius sull’Iran sono, in realtà, gli stessi che consigliavano i ministri degli esteri di Sarkozy, Bernard Kouchner e Alain Juppe. “C’è, nel ministero degli affari esteri, una squadra fortemente unita di consiglieri sugli affari strategici e sulla non proliferazione che ha svolto un ruolo fondamentale nel plasmare la posizione francese sull’Iran nel corso degli anni”, ha dichiarato a Truthout una fonte francese bene informata. La direzione che il gruppo ha fatto prendere alla politica francese è coincisa in generale con quella dei neoconservatori negli Stati Uniti, secondo osservatori attenti di tale politica.

Al centro di tale gruppo strettamente unito c’è l’ex ambasciatore francese negli Stati Uniti durante l’amministrazione di George W. Bush, Jean-David Levitte. E’ stato nominato consigliere diplomatico di Sarkozy nel 2007. Levitte, che da alcuni è stato definito il “vero ministro degli esteri” francese, ha legami famigliari con Israele e con il sionismo. Suo zio, Simon Levitt, è stato cofondatore del Movimento Giovanile Sionista in Francia.

Non è stata questa la prima volta che la Francia ha avuto un ruolo di disturbatore in negoziati internazionali sul problema del nucleare iraniano. Mohamed ElBaradei, ex direttore generale dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, ricorda nelle sue memorie come la delegazione francese si fosse presentata all’incontro dell’ottobre 2009 con l’Iran a Vienna, su una proposta di “scambio di combustibili”, armata di “dozzine di modifiche alla bozza di accordo da noi predisposta”. Anche il quel caso è parso che il ruolo francese consistesse nel garantire che non fosse raggiunto alcun accordo.  

Il “diritto di arricchire” e la “Partita Finale”

L’abilità israeliana nel manipolare la politica francese non è stata il solo ostacolo a un accordo con l’Iran sul nucleare. Un problema potenzialmente maggiore è stato il rifiuto statunitense di recepire nell’accordo il diritto dell’Iran ad arricchire l’uranio. Il The New York Times ha riferito domenica che l’Iran aveva insistito per il riconoscimento del suo diritto arricchire e che la posizione degli Stati Uniti è stata che non esiste alcun “diritto intrinseco di arricchire”. Kerry, lunedì ad Abu Dhabi, ha dichiarato che nessuna nazione ha un “diritto esistente di arricchire”.

Entrambe queste formulazioni implicano che qualsiasi diritto di arricchire sarebbe conferito all’Iran dagli Stati Uniti e dalle altre potenze se e quando lo ritenessero opportuno.

La posizione statunitense, come spiegato sul Times, è stata che qualsiasi arricchimento potesse essere concesso all’Iran in un accordo complessivo dipenderebbe dall’accettazione iraniana di limiti specifici a tale arricchimento. L’amministrazione si è chiaramente aggrappata tale concessione come leva di trattativa da poter utilizzare in negoziati successivi. Nel frattempo gli Stati Uniti rinuncerebbero soltanto a sanzioni di marginale importanza, mantenendo le sanzioni che hanno più chiaramente danneggiato l’economia e la società iraniana, quelle sulle esportazioni di petrolio e sull’attività delle banche.

L’accordo provvisorio non imporrebbe limiti all’arricchimento iraniano al 3,5 per cento, salvo che per l’utilizzo in centrifughe più avanzate, cosicché il rifiuto non avrebbe effetti pratici sulla situazione nel corso della validità dell’accordo provvisorio.

Ma in realtà ha avuto forti implicazioni per la disponibilità iraniana a fidarsi degli Stati Uniti nel negoziare un accordo complessivo e perciò potrebbe essere un motivo di abbandono delle trattative per l’Iran. Il presidente Hassan Rouhani ha implicato questo, domenica,  in un discorso all’assemblea nazionale iraniana, affermando che il “diritto all’arricchimento” è una “linea rossa” che non può essere superata. Tale “linea rossa” coincide, naturalmente, con la previsione del Trattato sulla Non-Proliferazione (NPT) entrato in vigore nel 1970 e che rappresenta il regime globale che regola il tema del diritto alla tecnologia nucleare. Ma gli Stati Uniti hanno violato i diritti dell’Iran in base al NPT sin da quando hanno cominciato a far pressioni sugli alleati perché si rifiutassero di collaborare con il neonato programma nucleare iraniano nel 1984. Più recentemente hanno giustificato il loro rifiuto di riconoscere tale diritto citando risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (la cui approvazione è stata manovrata da Washington) che richiedono che l’Iran cessi ogni attività di arricchimento.

Dall’inizio dei colloqui, in ottobre, fino all’ultima settimana dei negoziati, l’Iran ha proposto un accordo che delineerebbe le azioni reciproche che ciascuna parte avvierebbe in tre fasi del processo e nella “partita finale” cui tali fasi dovrebbero condurre. La partita finale per l’Iran consisterebbe nella rimozione di tutte le sanzioni contro l’Iran in cambio dell’accettazione iraniana di stretti limiti al suo arricchimento e dell’accettazione di controlli molto più intrusivi da parte della IAEA.

E’ stato questo il punto centrale del quadro originale iraniano presentato nel PowerPoint di Zarif in ottobre.

Ma la condivisione dei termini della “partita finale” nell’accordo provvisorio preliminare era molto meno importante per l’amministrazione Obama di quanto lo era per l’Iran. Quello che interessava principalmente ai dirigenti statunitensi era che l’Iran poteva aprirsi la via alla bomba. Come un alto dirigente dell’amministrazione ha dichiarato alla CNN la settimana scorsa,  l’accordo preliminare era mirato a “fermare i progressi iraniani” e “limitare il tempo in cui avrebbero potuto fabbricare un’arma nucleare”.

Se l’Iran avesse interrotto il suo arricchimento al venti per cento e avesse eliminato sistematicamente le sue scorte di uranio che potevano ancora essere arricchite a livelli adatti agli armamenti (novanta per cento), l’amministrazione Obama avrebbe potuto ritenere che l’urgenza della crisi si fosse ridotta. Ottenere i limiti aggiuntivi all’arricchimento iraniano cancellando le sanzioni, inoltre, sarebbe un’azione che sicuramente provocherebbe un conflitto a tutto campo con Israele e con il Congresso.

Kerry, nella conferenza stampa di lunedì ad Abu Dhabi, ha sostenuto che “nessun accordo è stato raggiunto qui sulla partita finale”. La sua decisione di enfatizzare ciò può essere principalmente mirata a prevenire le critiche di Israele e degli stati del Golfo Arabo all’accordo sulla “partita finale”. Ciò nonostante, tale osservazione, assieme al tentativo statunitense di coprire l’evidente tentativo di sabotaggio dei colloqui da parte di Israele e della Francia, è destinata a  suscitare seri interrogativi in Rouhani circa l’impegno reale degli Stati Uniti a una partita finale in cui le sanzioni siano cancellate in cambio dell’incasso iraniano delle sue fiche nel negoziato nucleare. Se la partita finale è, al meglio, un’idea tardiva o, nel caso peggiore, qualcosa verso cui Washington può provare un’avversione politica, allora l’Iran metterebbe a rischio la sua posizione negoziale accettando i termini statunitensi dell’accordo provvisorio.

Quando i diplomatici si incontreranno nuovamente il 20 novembre, perciò, gli Stati Uniti affronteranno sicuramente un Iran molto più scettico e inquieto di quello incontrato la settimana scorsa.


Gareth Porter ( @GarethPorter) è un giornalista d’inchiesta indipendente e uno storico che si occupa della politica statunitense sulla sicurezza nazionale. Nel 2011 gli è stato assegnato il Premio Gellhorn per il giornalismo dal Martha Gellhorn Trust con sede nel Regno Unito.


Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo

www.znetitaly.org

Fonte: http://www.zcommunications.org/why-iran-nuclear-talks-failed-and-why-they-will-get-tougher-by-gareth-porter.html

top