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Egitto, la rivoluzione torna a Tahrir A due anni da una delle più grandi stragi della rivoluzione egiziana, riappare in piazza la "terza via" di chi chiede più democrazia, schiacciata tra esercito e islamisti Sembravano scomparsi, schiacciati tra l’ondata di militarismo imperante e le quattro dita simbolo della protesta islamista. E, invece, la “terza via”, gli anti-esercito, i rivoluzionari che non vogliono al potere né i militari né i Fratelli musulmani si sono riaffacciati di nuovo in migliaia a piazza Tahrir. È la prima volta dalla deposizione del presidente Mohamed Morsi e l’occasione è di quelle importanti. Si celebra il secondo anniversario di Mohamed Mahmoud, la via che conduce al ministero dell’Interno, teatro di alcuni tra i più tremendi scontri del dopo-rivoluzione. Il 19 novembre 2011 i giovani rivoluzionari scesero in strada sfidando i blindati della polizia per protestare contro il tentativo del Consiglio supremo delle forze armate, allora al governo, di arrogarsi poteri sovra-costituzionali. Cinque giorni di battaglia in cui morirono una cinquantina di ragazzi. I loro volti, mentre cadevano uno dopo l’altro, venivano immortalati sui muri della strada stessa. Il loro sacrificio e quello di centinaia di occhi pieni di speranza, colpiti dai pallini sparati dai poliziotti e resi per sempre ciechi, costrinse i militari a fissare una data per le elezioni presidenziali e il passaggio di poteri ad un governo civile. Tristemente ironico il ritorno al potere seppur informale delle forze armate a soli due anni di distanza. Di cattivo gusto l’operazione lanciata in questi giorni dal governo, che ha fatto costruire in fretta e furia un memoriale dedicato ai martiri delle “due rivoluzioni”: quella del 25 gennaio 2011 contro Mubarak e quella del 30 giugno 2013 contro Morsi. Un memoriale che non solo dimentica le circa 1300 vittime per lo più islamiste degli scontri di quest’estate, ma che celebra ed esalta polizia ed esercito. Ad essere ricordati, insomma, sono proprio i carnefici di quei martiri caduti a Tahrir e Mohamed Mahmoud. Una provocazione troppo grande per chi negli ultimi mesi è rimasto in disparte ad osservare mentre i militari gli rubavano la memoria della rivoluzione, facendola propria. Dalla deposizione di Morsi, infatti, le forze armate sono diventate nella retorica ufficiale quanto nella vulgata popolare i “custodi ultimi” delle verità rivoluzionarie. Chiunque si opponga al generale Abdel Fattah al Sisi o osi criticare l’esercito viene subito costretto al silenzio, tacciato di essere un Fratello musulmano o un fiancheggiatore dei “terroristi”. «Non so che fare domani», diceva Amr, un attivista, alla vigilia dell’anniversario. «Se andiamo in piazza, potremmo essere attaccati tanto dai pro-Sisi quanto dagli islamisti. Se stiamo a casa, Mohamed Mahmoud verrà ricordata solo dagli assassini». Superata la paura, già poche ore dopo la sua inaugurazione il memoriale di piazza Tahrir era stato danneggiato. Rimossa la placca commemorativa, poche centinaia di manifestanti avevano issato in cima al monumento una bara di legno coperta da una bandiera egiziana. Qualche metro più in là, intanto, un gruppo di artisti cancellava i graffiti con le facce dei martiri e ricopriva i muri con una mimetica militare rossa di sangue. «Come i militari provano a nascondere la verità, così abbiamo nascosto i graffiti», dice uno degli artisti coinvolti nel progetto. «Per ora siamo minoranza, ma non siamo scomparsi». E sul muro hanno lasciato un messaggio: «Uccidete, spogliate, arrestate. Vi renderemo tutto». Come scossi da questi due gesti considerati normali negli ultimi due anni e allo stesso tempo così eccezionali negli ultimi mesi migliaia di giovani sono scesi in strada e hanno riconquistato piazza Tahrir. Allontanando tanto i supporter del governo che festeggiavano il compleanno del generale Sisi che, bizzarra coincidenza, cade proprio in questa giornata e i Fratelli musulmani che volevano marciare sulla piazza. Non c’è da illudersi. Il sentimento pro-militari è ancora semi-egemonico, e nelle strade attorno a Tahrir tutti chiamano i manifestanti “islamisti in incognito”. Ma camminando per Mohamed Mahmoud sembra di vivere un salto all’indietro, ad un tempo poi non così lontano, quando il centro del Cairo era animato da slogan e bandiere dei vari movimenti e non dagli onnipresenti ritratti del generale. Quando ai caffé si sentivano discussioni politiche accese e non un monotono coro di slogan pro-militari e anti-islamisti. Quando a proteggere piazza Tahrir c’erano i cordoni di attivisti e non i carri armati.
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