http://znetitaly.altervista.org Porto Said, Egitto: note da una città assediata E’ buio, buio pesto, nelle strade di Porto Said. Piccoli gruppi di giovani si stanno radunando nel centro della città, prevalentemente attorno ad auto bruciate. Alcuni sono molto agitati. Gridano e gesticolano, infuriati. Fuochi bruciano in mezzo alle strade. Dopo gli scontri recenti tra polizia e manifestanti o, più precisamente, dopo la recente furia della polizia, nel corso della quale ha ucciso sia dimostranti sia passanti sembrano non esserci forze armate in vista. Ma non equivochiamo: la città intera è circondata, assediata dalla polizia e specialmente dall’esercito. Blindati sono usciti dalle caserme lungo tutto il Canale di Suez: da Suez a Ismailia, e da Ismailia a Porto Said. Le bocche dei loro cannoni puntano alle auto nelle strade. Dovunque ci sono posti di blocco. Nella stessa città di Porto Said, veicoli blindati bloccano tutte le maggiori arterie che conducono in centro e fuori dal centro. I soldati sono appiccicati alle mitragliatrici, pronti a sparare. Nel buio pesto parcheggiamo il nostro veicolo sul bordo della strada e ci dirigiamo verso l’Ospedale Generale di Porto Said. C’è un forte odore di urina nei corridoi; le luci sono fioche e i corridoi sono affollati sia di pazienti sia dei loro familiari … alcuni uomini ferite, alcune donne che piangono … è un caos totale; innumerevoli infermieri e dottori tentano di ripristinare almeno una parvenza di ordine. Entro in uno spazio scarsamente illuminato che ricorda un film hollywoodiano dell’orrore di terza categoria: carcasse di reparti operatori medievali, stipate in sale chirurgiche orrende e sporche, racchiuse tra pareti lerce decorate da buchi aperti. “E’ il nostro reparto di emergenza” dice una giovane infermiera, i capelli coperti da un velo. “E’ sicura?” chiedo stupidamente. “Sicurissima”, risponde. “Lavoro qui.” Un giovane dottore dall’aspetto esausto sta valutando meccanicamente la situazione: “La banca del sangue è a un livello soddisfacente e abbiamo sufficienti medicinali di base. Sono corse voci che siamo privi di tutti i medicinali e le attrezzature necessarie, non è esatto. Stiamo affrontando altri problemi, ma non sono quelli.” Gli “altri problemi” consistono nel fatto che nessuno si aspettava un simile assalto in un così breve lasso di tempo. “E’ un disastro assoluto”, esclama il dottor Ahmed Attia in una delle cliniche private della città. “I giornali dicono: ‘Porto Said ha bisogno di sangue e di medicinali”, ma non è esatto. I problemi che abbiamo affrontato qui, specialmente nei primi due giorni delle uccisioni, sono relativi a quella che chiamiamo ‘mancanza di esperienza medica’. Molti dottori semplicemente non sanno come trattare ferite d’arma da fuoco e altre lesioni gravi. I pazienti devono essere trasferiti in volo all’Ospedale Universitario del Cairo e ad altri ospedali del paese.” Chiedo quanti sono stati i morti. “Vediamo,” conta il dottor Attia. “Almeno quarantadue. Trentuno il primo giorno. Sette il secondo. Poi ci sono stati altri quattro morti in seguito alle ferite ricevute il primo giorno … e sinora abbiamo contato quasi novecento feriti.” “Continuano a morire”, dice qualcuno dietro di noi. “E’ terribile”, dichiara il dottor Attia. Poi dice: “Qui abbiamo un gruppo di socialisti …” “Sono uno di loro… “, dico, sorridendo. Mi si avvicina, un uomo alto quasi due metri, e mi abbraccia con forza. “Torna”, dice. “Torna a Porto Said e parleremo. Ti dirò cosa è davvero successo qui. Ma ora andiamo a lavorare.” Di nuovo nell’Ospedale Generale di Porto Said sono portato a vedere diversi pazienti, vittime delle violenze. Visito Ahmed Mamdouh, che ha due ferite di proiettili nel torace. Si lamenta: “Non ho idea di cosa sia successo. Sono uno studente delle superiori … stavo andando in classe e la polizia ha cominciato a sparare sulla gente, senza preavviso. Sono stato colpito due volte.” In un’altra stanza affollata un uomo è in agonia, circondato dalla sua famiglia. Ha evidentemente lottato per sopravvivere. E’ stato colpito ai reni. Mi rifiuto di entrare, per rispetto della sua riservatezza e del suo dolore. Ma i parenti accorrono subito da me gridando: “Per favore vieni a fare delle fotografie e guarda cosa ci stanno facendo! Ha trentasei anni, un padre di famiglia. Stava soltanto andando al lavoro quando la polizia ha aperto il fuoco.” In un attimo sono circondato da un numeroso gruppo di persone. Tutti vogliono parlare: i pazienti e i loro parenti, le infermiere, i dottori e persino il direttore dell’ospedale. Continua a esserci buio pesto fuori, quando torniamo in strada. I fuochi stanno bruciando e possiamo sentire colpi d’arma da fuoco oltre l’angolo. Poche ore prima, mentre affrontavo il percorso dal Cairo a Porto Said, evitando carri armati, blindati e innumerevoli posti di controllo dell’esercito, l’Alto Commissario dell’ONU per i Diritti Umani, signora Navenethem “Navi” Pillay, esprimeva il suo “allarme”, mentre Amnesty International manifestava preoccupazione sul deterioramento dello stato delle cose in Egitto. La fase più recente del conflitto a Porto Said è esplosa solo pochi giorni fa, dopo le condanne a morte pronunciate contro ventun residenti del luogo per il loro coinvolgimento nei disordini che avevano causato 74 morti dopo una partita di calcio tra il club locale Al-Masry e l’Al-Ahly S.C. del Cairo, il 1° febbraio 2012. In quel giorno centinaia di tifosi locali hanno aggredito di sostenitori ospiti della squadra del Cairo. La polizia risulta non aver fatto alcun tentativo di separare i due schieramenti. La BBC ha riferito che i sostenitori dei condannati a morte hanno attaccato la prigione dove erano reclusi, tentando di liberarli. E’ scorso il sangue, prevalentemente sangue dei dimostranti, anche se nello scontro sono rimasti uccisi due poliziotti. Poco dopo, nuovi scontri mortali sono esplosi mentre le bare dei morti nel confronto con la polizia venivano trasportate lungo le strade. Il conflitto continua. In questo articolo non voglio analizzare la situazione politica generale dell’Egitto. Non voglio scrivere del governo del presidente Mohamed Morsi o di cosa stia esattamente dietro le più recenti proteste al Cairo e nella regione del Canale di Suez. Lo farò più in là, forse la prossima settimana, in un saggio più lungo e dettagliato. Non sono venuto qui ad appoggiare questo o quello schieramento. Lo scopo del mio viaggio in Egitto, sprovvisto di fondi, era di completare le riprese per uno dei miei documentari e per confrontare la rivolta in Egitto con quelle in Indonesia del 1998 e con le vittoriose rivoluzioni in America Latina. Ma, da corrispondente di guerra arrivato per caso sulla scena di un conflitto, mi sono sentito tenuto a fare quello che sento essere il mio dovere nei confronti dei miei lettori di tutto il mondo: informarli, usando sia le parole sia le immagini, della terribile prova cui è sottoposto il popolo dell’Egitto. Sento che è particolarmente importante a proposito di luoghi come Porto Said perché, come mi è stato detto e come ho constatato di persona, non c’è nella località alcun segno di media indipendenti e progressisti. Indipendentemente da su chi ricada la responsabilità della situazione attuale, è assolutamente brutale porre sotto legge marziale, e pertanto sotto assedio, una città di più di 600.000 abitanti. Quello che è chiaro è che, minacciata o no, la polizia si è scatenata contro civili disarmati. Mentre questo articolo “va in stampa”, più di cinquanta persone sono state uccise e più di novecento ferite in soli pochi giorni. Queste sono le statistiche tipiche delle città che si trasformano in zone di guerra. La domanda logica è, allora: l’Egitto è in guerra? Se sì, chi si sta battendo contro chi? Se è una guerra allora i civili devono essere messi in salvo e protetti, non essere colpiti ai polmoni, alla testa o alle reni dalle “forze dell’ordine”. Per tornare all’atto che ha scatenato il conflitto, la condanna a morte di ventun persone. Indipendentemente da quale posizione filosofica si assuma sulla pena di morte, condannare a morte ventun persone in una sola città in un solo giorno, nel corso di un periodo volatile come quello che l’Egitto sta vivendo, significa gettare benzina sul fuoco, se non peggio. I tifosi della pena di morte è ce ne sono una quantità in questa parte del mondo dovrebbero osservare attentamente ciò che sta succedendo a Porto Said e chiedersi onestamente se giustiziare delle persone davvero “protegga la società” o se la indirizzi a tumulti peggiori. Mentre guidavamo verso Ismailia e Porto Said, il numero infinito di segnali militari e di caserme lungo la strada ha colpito sia me che il mio autista, che è capitato fosse uno studente indonesiano di filosofia presso un’università locale. Nessun altro posto che ho conosciuto, con l’eccezione forse di Djibouti, può vantarsi di avere un numero così elevato di installazioni militari, tra cui aeroporti, basi e chissà cos’altro, lungo una singola strada. Non solo c’erano basi militari attive tra il Cairo e Ismailia, ma anche innumerevoli monumenti e siti di grossolani idoli militari completi di carri armati, aeroplani e statue di uomini dai volti feroci alla carica contro un nemico non identificato. Spessa era difficile distinguere tra le attrezzature vere e attive e i simulacri e i cimeli che servivano da parti dei monumenti ai locali “soldati-eroi”. Guardando a tutto ciò non ci si sarebbe mai immaginato che ogni volta che l’Egitto è effettivamente sceso in guerra, i risultati sono stati lungi dall’essere gloriosi. Ora le caserme hanno aperto i cancelli e i carri armati sostano lungo l’autostrada; dozzine, centinaia, forse di più. Lungo il tragitto ci fermiamo al vecchio traghetto per il Sinai, giusto a destra del nuovo ponte. Voglio attraversarlo per parlare con quelli che ci stanno sopra del conflitto e dell’istituzione della legge marziale, ma appena prima che possa farlo sono fermato da uno delle centinaia di soldati che si aggirano senza scopo lungo la riva del Canale di Suez. “Non può passare”, dice il soldato. “Perché?”, chiedo. “Sono passato almeno due volte ai vecchi tempi, lungo il tragitto da Gaza al Cairo, durante l’Intifada. Perché adesso no?” Un pezzo grosso dell’esercito prende il mio passaporto e comincia a trasmettere tutti i dati a un “certo generale”, come mi viene detto, al telefono. Dopo dieci faticosi minuti di compitazione di ogni lettera sulla prima pagina del mio passaporto, l’uomo mi si rivolge con un’espressione totalmente sconfitta: “Come si chiama?” “E’ questo il nuovo Egitto”, mi chiedo ad alta voce. “Forse”, risponde attraverso il mio autista e interprete indonesiano. Quello che ho visto a Porto Said lo porterò con me a lungo. La città, o la maggior parte di essa, è distrutta. Non dai combattimenti, ma dall’abbandono e della miseria. La maggior parte dell’estensione urbana consiste di orribili, isolati residenziali che si sbriciolano, mezzo crollati, non diversamente da quelli di Alessandria (un altro incubo urbano) e del Cairo (non molto meglio). L’immondizia è dovunque. Alcuni isolati di appartamenti sono già crollati e alcuni sono prossimi al crollo. Sembrano simili, anche se in qualche modo peggiori, a quelli costruiti a Phnom Penh durante il regno dei Khmer Rossi. Tra gli edifici abbondano gli spazi vuoti. Sono pieni di spazzatura. Sembra non ci sia nulla qui che possa dare piacere: siano gli adulti sia i bambini vagabondano senza meta avanti e indietro. Asini tirano carretti. Bambini piccoli corrono in giro senza controllo, molti chiedendo l’elemosina. E Porto Said è la più ricca, o almeno una delle più ricche, città del paese! Nel 2009 e 2010 Porto Said si è classificata prima tra le città egiziane secondo l’Indice di Sviluppo Umano. Avvicino un giovane fermo a un angolo. “Come vanno le cose qui di notte?” gli chiedo. Mi rivolge uno sguardo vuoto. “La notte scorsa ci sono stati sconti nel quartiere di Al Arab. C’è stato un morto. Forse altri.” Porto Said, come l’intero paese egiziano, sembra star crollando come quei quartieri travagliati. Ma questa non è una putrefazione nuova. Non è’ in realtà cominciata con la presidenza Morsi. Quasi tutti noi che conosciamo l’Egitto l’abbiamo vista arrivare, da decenni. Si sarebbe dovuti essere estremamente disciplinati e aver deliberatamente volto lo sguardo altro per non vederlo. Ora, naturalmente, il fenomeno è più accentuato, o almeno lo è a Porto Said. In mezzo a tutta la rovino e il marciume ci sono innumerevoli blocchi stradali e blindati in posizione di combattimento. Giovani forti stanno in cima a essi, puntando mitragliatrici contro lo stesso proprio popolo invece di fare qualcosa di produttivo per il proprio paese, come costruire campi giochi per i bambini, ponti, ospedali e scuole. Le forze armate egiziane sono le più vaste dell’Africa e del mondo arabo e le decime nel mondo, mentre l’Egitto è un paese poverissimo. Il suo Indice di Sviluppo Umano (UNDP, HDI, 2012) è a 113 su 187 paesi, e sta scendendo. Ora è al di sotto delle Filippine e persino della Mongolia e del Gabon. Fotografo lo stadio di Porto Said, il luogo stesso che ha causato tanto dolore nel febbraio 2012. Adesso è chiuso, con tremendi, inquietanti graffiti che ne ‘decorano’ i muri. E poi finisco in una grande protesta al tramonto; gente in marcia verso il centro della città. Alcuni mi rivolgono gesti minacciosi. Altri vogliono parlare. Quelli che vogliono parlare sono la maggioranza. A un certo punto i dimostranti cominciano ad agitare bandiere davanti ai miei obiettivi, si mettono in posa, e alcuni addirittura mi abbracciano. Sembra che io sia l’unico giornalista non arabo in città. In teoria dovrei sentirmi minacciato, ma non è così. Sono trattato bene. Si fidano di me. E io mi fido di loro. Un uomo robusto si appoggia alla nostra auto e grida: “Porto Said è adesso una zona chiusa; è una zona di guerra! Finora hanno ucciso più di cinquanta persone. La polizia ci sta uccidendo. La polizia ha colpito mille persone alle gambe, e agli occhi! La polizia ha usato gas lacrimogeni e proiettili veri. Vieni a vedere! Mostrateglielo! Non abbiamo munizioni, non abbiamo armi. I loro media dicono che le abbiamo, ma vieni a controllarci tutti!” Un altro dimostrante mi urla: “Oggi ci sono stati cinque morti; alcuni sono stati colpiti da un cecchino. Ora noi, gli egiziani, siamo come il resto degli arabi. Viviamo nella paura e nell’agonia!” Una ragazza, agile e dal tono calmo, mi tira per la camicia. “Posso essere i tuoi occhi, a Porto Said?” Parla un inglese decente, e il suo nome è Fatimah. Accanto a lei c’è suo fratello più giovane che sembra imbarazzato per l’audacia di sua sorella. Ci tuffiamo tutti in una piccola trattoria locale. “Non posso andare più a lavorare”, dice Fatima. “Lavoro e studio; voglio diventare giornalista, come te.” Riflette per un attimo, poi continua. “E’ orribile quello che ci stanno facendo. Eravamo tutti contro la decisione del tribunale egiziano, contro le condanne a morte. La maggior parte di noi non era contro il governo attuale. Ora lo siamo.” Il coprifuoco è alle 21. Troviamo una via per uscire della città appena in tempo, ma prima di andarcene Fatimah ci fa guidare oltre una stazione di polizia dove due persone sono state recentemente uccise a colpi d’arma da fuoco. Il centro della città è totalmente immerso nel buio. Piccoli incendi bruciano, illuminando le spettrali carcasse delle auto bruciate. Sento che potrebbe succedere di tutto, in qualsiasi momento. Guidiamo molto lentamente, in modo da non urtare nessuno, in modo da non attizzare reazioni emotive. Una mossa sbagliata potrebbe scatenare una tragedia. Alcune mani colpiscono il cofano della nostra auto. Non riusciamo a vederle nel buio. Solo qualche goccia di benzina e un fiammifero e per noi potrebbe essere finita. Poi Fatima e suo fratello ci lasciano. Cerco di dar loro un po’ di soldi in modo che possano prendere un taxi. “Voglio che siate al sicuro”, insisto. Rifiutano orgogliosamente. Ci separiamo. Ora siamo in gara contro il tempo. Il coprifuoco si avvicina rapidamente ma nessuno è in grado di dirci come lasciare la città, perché la maggior parte delle strade principali è bloccata. Alla fine ce la facciamo ad arrivare al ponte. Io e il mio autista siamo esausti, ma davanti abbiamo un altro terrore: 250 chilometri della strada notturna egiziana, di guida suicida e di terribili incidenti. Superiamo posti di controllo della polizia e dell’esercito. Ci troviamo di fronte in continuazione i loro blindati. La città dietro di noi sanguina, letteralmente, per tutte le terribili ferite inflittele in passato, riaperte ancora una volta nei mesi e giorni recenti. Mentre attraversiamo il ponte penso al dottore e a Fatimah e a suo fratello, persone gentili, miei nuovi amici che mi lascio alle spalle nella loro città assediata. “Bere?” chiamo il mio autista indonesiano, lo studente di filosofia. “Hmmm? Apa? Cosa?” “Cosa pensi di quello … di quello che hai visto oggi?” Riflette per un momento. “Abbiamo fatto bene a venire.” Cita il dottore e Fatimah. “Siamo fortunati; abbiamo conosciuto persone splendide!” Decisamente un modo legittimo di riassumere la giornata. Mentre proseguiamo, al Cairo uno dei generali e ministro della difesa, Abdul Fattah Al-Sisi, dichiara: “La situazione attuale porterà al collasso dello stato.” Perché lo dice? Sta minacciando il governo? Mentre ci dirigiamo al Cairo il dottor Attia e i suoi compagni stanno coraggiosamente sfidando la legge marziale, marciando dopo le nove di sera, e alla fine ottengono una sospensione almeno parziale del coprifuoco. Guardo la strada davanti a me; almeno per un momento, nella mia mente, per inerzia, cerco di vedere l’intera questione da un punto di vista politico. Questa volta non mi riesce. Per una volta il mio racconto è molto semplice: riferisco da una città distrutta. Riferisco semplicemente quello che vedo con i miei occhi. Lo faccio perché devo, perché sono tenuto a farlo. E ammetto, onestamente, che questa volta cerco solo di descrivere ciò che colgono i miei occhi e non ciò che capisco del tutto. Andre Vltchek è un romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. Si è occupato delle guerre e dei conflitti in dozzine di paesi. Il suo libro sull’imperialismo occidente nel Pacifico del sud Oceania è pubblicato da Lulu. Il suo libro provocatorio sull’Indonesia post-Suharto e il modello fondamentalista del mercato s’intitola “Indonesia The Archipelago of Fear” [Indonesia l’arcipelago della paura] e sarà [è stato n.d.t.] pubblicato dalla Pluto Publishing House nell’agosto 2012. Dopo aver vissuto per molti anni in America Latina e in Oceania, Vltchek attualmente risiede e lavora nell’Asia Orientale e in Africa. Può essere raggiunto al suo sito web. Da Z Net Lo spirito della resistenza è vivo Fonte: http://www.zcommunications.org/egypt-port-said-notes-from-a-besieged-city-by-andre-vltchek Originale: http://www.counterpunch.org/2013/02/01/notes-from-a-besieged-city/ traduzione di Giuseppe Volpe
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