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30 dicembre 2013

L'anno cruciale dei paesi arabi
di Tahar Ben Jelloun

Traduzione di Elisabetta Horvat

In Tunisia gli islamisti di Ennhada e l’opposizione laica hanno appena designato un nuovo premier, in Egitto la nuova Costituzione sarà presto sottoposta a referendum popolare e in Siria dopo quasi due anni e mezzo di conflitto Bashar al Assad sta vincendo la sua guerra contro il suo stesso popolo

Il 2013 è stato un anno contrassegnato dal fallimento degli islamisti arrivati al potere. A respingerli, prima ancora che fossero restituiti alle loro moschee, e a volte associati alle carceri, è stata la maggioranza della popolazione, con le sue frequenti e decise manifestazioni. In Egitto la situazione è sconfinata nella violenza. Dopo la destituzione e l’arresto di Mohamed Morsi i suoi sostenitori si sono ribellati con ogni mezzo.

A sei mesi dalla presa del potere da parte dei militari, non si può dire che l’Egitto sia del tutto pacificato. Non dimentichiamo che quello dei Fratelli musulmani è un movimento di antica data (nato nel 1920), ben organizzato e da sempre avversato dai militari.
Oggi il Paese ha una nuova Costituzione, redatta da una commissione di 50 personalità di tutte le tendenze, tranne quella islamista. Tuttavia l’islam è tuttora religione di Stato (anche se l’8% circa della popolazione è di confessione copta; e la
sharia, iscritta nella Costituzione da Sadat fin dal 1962, figura tuttora nel suo testo, che sarà sottoposto a referendum popolare il 14-15 gennaio del prossimo anno. Sempre nel 2014 saranno inoltre convocate nuove elezioni legislative e presidenziali, nella speranza di arrivare alla formazione di un governo composto da civili. Il processo iniziato con la primavera araba è dunque ben lontano dalla sua conclusione.

Gli aiuti americani (un po’ meno di 2 miliardi di dollari concessi all’epoca del trattato di pace con Israele, che riceve più del doppio di questa cifra) sono stati sospesi, mentre l’Arabia Saudita e altri Paesi del Golfo (tranne il Qatar) hanno offerto 16 miliardi ai nuovi dirigenti, che potranno così risolvere i problemi economici più urgenti.

Il re Abdallah in persona aveva confermato il proprio appoggio al nuovo potere egiziano, esortando «egiziani, arabi e musulmani ad opporsi a chiunque tenti di destabilizzare il Paese». Il suo ministro degli esteri, il principe Saud al Faisal, è stato ancora più esplicito, attribuendo ai Fratelli Musulmani la responsabilità delle violenze. I Paesi del Golfo, pure già soggetti alla sharia e all’islam duro imposto dal sistema wahabita, guardano con apprensione all’avanzata dei Fratelli musulmani nel mondo, sentendosi direttamente minacciati dagli appetiti di questo movimento.

Il 2014 sarà un anno cruciale. In Tunisia gli islamisti di Ennhada (tuttora al potere) e l’opposizione laica hanno appena designato un nuovo premier, nella persona dell’attuale ministro dell’industria Mehdi Jomaâ, chiamato a presiedere un governo apolitico ad interim e a preparare le elezioni previste per il primo trimestre 2014. Lo stato d’emergenza è stato prorogato. Anche qui, come in Egitto, il turismo è ridotto ai minimi termini; il governo islamista non è riuscito a eliminare il terrorismo degli estremisti salafiti. Il paese vive tuttora nell’instabilità, anche se si aspetta molto dalla nuova costituzione, il cui testo non è stato ancora ultimato.
Anche in Tunisia, come in Egitto, nel 2014 le promesse democratiche verranno messe alla prova dei fatti. Il 14 dicembre 2013 è stata adottata una legge sulla «giustizia transizionale», ispirata alle esperienze di Paesi quali il Marocco e il Sudafrica, che dopo decenni di repressione hanno optato per la riconciliazione e la giustizia. Si tratta di un progresso sulla via del risanamento politico del Paese.

Mentre per l’Egitto e la Tunisia il 2014 potrebbe essere l’anno della stabilizzazione e della pace, sta guadagnando terreno, a quanto pare, il piano iraniano e russo per sostenere Bashar al Assad, e soprattutto per trasformare l’opposizione dei ribelli in un campo di battaglia tra islamisti estremisti e laici democratici. Questi ultimi non ricevono aiuti né dall’Europa, né dagli Stati Uniti. È strano e paradossale che l’Iran combatta sul terreno contro formazioni islamiste sostenute dal Qatar e dall’Arabia Saudita, mentre Hezbollah, partito di Dio, armato e finanziato dall’Iran, si schiera a fianco di Assad. La mossa geniale di Putin è stata quella di spingere Assad a sottrarre ai ribelli ogni credibilità e legittimità infiltrando i loro ranghi di estremisti che minacciano la comunità cristiana in Siria. Questo scenario ha funzionato così bene da indurre alla prudenza gli avversari di Bashar, convincendoli a non sostenere una rivolta che in caso di vittoria porterebbe al potere una repubblica islamica in cui troverebbero posto anche i rappresentanti di Al Qaida. Dopo quasi due anni e mezzo di scontri armati con oltre 120.000 morti, in maggioranza civili, e milioni di rifugiati siriani in Libano e nel resto del Medio Oriente, Bashar al Assad sta vincendo la sua guerra contro il suo stesso popolo. Frattanto gli occidentali assistono inerti a questa tragedia in cui trionfa il male assoluto.

Il 2014 vedrà forse la vittoria del crimine e la sua legittimazione. E sarà una vergogna per la nazioni civili. Diranno: «la situazione era complessa», per giustificare una passività che accelera questa vittoria infamante. Quanto ai Paesi arabi, hanno responsabilità enormi. Va detto che ognuno di essi era occupato a ristabilire l’ordine nelle proprie piazze. La Lega degli Stati arabi si è dimostrata più volte incapace di qualunque intervento nella regione. I popoli lo sanno, e a volte ignorano persino l’esistenza di quest’istituzione, utile solo ai suoi membri: i quali parlano, parlano e non fanno nulla.


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