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Mali: la guerra come mezzo e come fine “No muos. Yankee go home”: uno striscione con questa scritta campeggia al confine del parco di Niscemi, comune in provincia di Caltanissetta, dove da mesi comitati di cittadini e istituzioni locali stanno conducendo un’aspra battaglia contro l’attivazione in loco del Mobile User Objective System (MUOS), un sistema di comunicazioni satellitari (SATCOM) ad altissima frequenza (UHF) fortissimamente richiesto dagli Stati Uniti: si tratta di tre antenne giganti grazie a cui è possibile arrivare dappertutto, mantenere aperti i contatti con tutti i contingenti militari dislocati in giro per il pianeta (contatti oggi direzionati in particolare su tutto lo scacchiere mediterraneo, verso il Medio Oriente e il continente africano). I cittadini siciliani non lo vogliono: temono a ragione che l’enorme potenza e velocità di trasmissione di questo impianto militare abbiano effetti dannosi sulla salute; né vedono di buon occhio la partecipazione ai lavori della Calcestruzzi Piazza, una società in odore di mafia. Dichiarano che andranno fino in fondo. Dunque, Niscemi come Comiso? Intanto, raccogliendo democraticamente la voce della protesta, il presidente della regione Crocetta ha imposto la sospensione temporanea dei lavori, in attesa di ulteriori verifiche. Ma il nostro ministro (tecnico) della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha già rassicurato il segretario alla Difesa Usa Leon Panetta, giunto precipitosamente nel nostro Paese per tagliar corto con chiacchiere e temporeggiamenti: il MUOS si farà, perché è “un asset strategico per l’Alleanza Atlantica”. L’Italia di Monti ci mancherebbe è sull’attenti. Anzi, rilancia! E, in barba alla Costituzione e a un Parlamento che la scadenza elettorale è chiamata a rinnovare, decide di appoggiare l’intervento militare francese nel Mali. Ma non era stato assegnato all’Europa un Nobel per la pace? E, poi, c’è forse stata una dichiarazione italiana di guerra al Mali? Pare di no, ma chissenefrega! Un supporto logistico per azioni belliche non si nega a nessuno. In Francia, è Jean-Luc Mélenchon a levare la voce contro un intervento voluto dal presidente Hollande (e, come spesso accade, opportunamente sollecitato da una richiesta dell’attuale presidente dell’ex colonia francese) ma privo di legittimità internazionale e deciso senza l’avallo del Parlamento. Lo stesso Le Monde annota che la risoluzione 2085, adottata il 21 dicembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, autorizza per un periodo limitato ad un anno, il dispiegamento in Mali di “truppe combattenti esclusivamente africane”, riservando all’Unione Europea unicamente un ruolo di appoggio finanziario e logistico. Conclude il quotidiano d’Oltralpe: “L’operazione francese nel Mali esce quindi dal quadro della risoluzione 2085”. Ma che sta succedendo in Mali? Vediamolo rapidamente. Sin dall’inizio del 2012, il debole esercito governativo ha dovuto fronteggiare una crescente sollevazione interna organizzata dal Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad (MNLA), regione settentrionale del Mali e territorio di tradizionale insediamento della popolazione touareg, di cui il movimento chiedeva l’indipendenza. Il 6 aprile dello scorso anno, il MNLA ha proclamato l’Azawad “Stato indipendente”, insediando un “Consiglio transitorio”. Ma non avrebbe avuto la forza di conseguire un tale obiettivo senza l’appoggio dello jihadismo e dei movimenti radicali islamici, in particolare di Al Qaeda per il Maghreb islamico (AQMI) e di Ansar Dine, guidato da Iyad Ag Ghali, capo touareg convertitosi all’Islam e già trasformato dalla stampa occidentale nel nuovo mostro, nel nuovo Bin Laden. Nel giro di pochi mesi, la parte laica del movimento ha ceduto il campo cioè il controllo politico e militare del territorio a jihadisti e salafiti; e l’obiettivo dell’autodeterminazione è andato affievolendosi a vantaggio di quello della guerra santa, della sharia. Invece di trovare e se necessario imporre vie di dialogo e soluzioni negoziate, come al solito la cosiddetta “comunità internazionale” ha soffiato sul fuoco: così siamo secondo copione all’azione militare diretta della Francia, cui segue la reazione immediata dei “ribelli” con l’irruzione in un sito petrolifero della British Petroleum in territorio algerino, già conclusasi in un mare di sangue. Si tratta di un film già visto. E’ il copione dell’imperialismo e del neo-colonialismo: storie di conflitti locali che, anziché essere ricomposti con i tempi e gli strumenti della diplomazia, vengono alimentati da un Occidente impegnato a curare gli interessi delle grandi potenze e delle multinazionali; con le popolazioni civili espropriate dal diritto di decidere liberamente e autonomamente del proprio futuro, vittime inermi della violenza interna e delle bombe “intelligenti” che lo stesso Occidente graziosamente propina. Si tratta di quella medesima strategia di guerra che ha colpito al cuore le “primavere arabe” con la loro speranza di riscatto politico e sociale; che, assieme al regime dell’autocrate Gheddafi, ha devastato popolazione e Stato libico e ora si appresta a devastare il Mali, dove 41 mila sfollati, secondo i dati delle organizzazioni umanitarie, sono in fuga verso i confini del Paese per sfuggire ai bombardamenti. E’ la strategia di un Occidente strabico e ipocrita che, da un lato, utilizza l’integralismo islamico (istruito e addestrato dalla fedele alleata Arabia Saudita), dando tacitamente spazio a jihadisti e salafiti prima in Libia e poi in Siria, per inquinare la giusta protesta nei confronti dei regimi interni e spianare la strada all’ennesimo “intervento umanitario”. E poi, d’altro lato, condanna le azioni di quello stesso integralismo che ha contribuito ad alimentare e che a Bengasi ora spara alle auto del consolato e mette in fuga dal Paese le rappresentanze diplomatiche di mezzo mondo. Alla faccia dell’inaugurazione di una Libia democratica! Dal 26 al 30 marzo prossimi, si svolgerà a Tunisi il dodicesimo Forum Sociale Mondiale. In quella stessa città, in una cintura urbana degradata e povera, il 12 gennaio scorso si è dato fuoco un giovane tunisino disoccupato. E’ l’ultimo di una lunga serie. La speranza è che da quel Forum torni a farsi sentire forte la parola della pace: i popoli hanno bisogno di pane e non di bombe. Nel frattempo, noi italiani proviamo a dare una mano ai cittadini di Niscemi.
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