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http://znetitaly.altervista.org Tempi imperiali: i limiti ristretti della riflessione sulla ‘guerra dell’Iraq’
Per rendersi conto dell’ideologia imperiale dominante negli Stati Uniti la cosa migliore è esaminare gli articoli degli avamposti “più a sinistra” dell’opinione convenzionale. E’ presso i “liberali” New York Times, Washington Post, MSNBC e nel sistema delle emittenti “pubbliche” che sono fissati i confini più rilevanti del dibattito accettabile, non in canali più affidabilmente e stridentemente reazionari come FOX News o il Wall Street Journal o altri organi “conservatori” come il Weekly Standard. Eccovi qua le riflessioni del comitato editoriale del Times di questa mattina (sto scrivendo mercoledì 20 marzo 2013) sul decimo anniversario dell’invasione e occupazione statunitense dell’Iraq: “Dieci anni dopo l’inizio la guerra dell’Iraq continua a perseguitare gli Stati Uniti con i quasi 4.500 soldati che vi sono morti, i più di 30.000 statunitensi feriti tornati a casa, il più di 2 trilioni di dollari spesi in operazioni belliche e di ricostruzione, che hanno gonfiato il deficit, e le lezioni apprese a proposito dei limiti della leadership e del potere degli Stati Uniti.” “Perseguita anche l’Iraq, dove il numero totale delle vittime si ritiene abbia superato centomila, ma non è mai stato stabilito ufficialmente; e dove un uomo forte è stato scambiato con un altro, anche se in un sistema più pluralistico e con una vena democratica. Il paese è sempre più influenzato dall’Iran e dai tumulti regionali causati dalla Primavera Araba.” (“Dieci anni dopo”, NYT, 20 marzo 2013, A22). In questi due brevi paragrafi mi colpiscono tre problemi. Primo: consideriamo l’espressione “la guerra dell’Iraq”. Oltre a essere storicamente vaga (potrebbe applicarsi all’operazione ‘Desert Storm’ [1991] o alla lunga guerra alimentata dagli USA dell’Iraq contro l’Iran negli anni ’80), l’espressione “la guerra dell’Iraq” non dice nulla a proposito del fatto fondamentale che l’”Operazione Iraq Libero” (OIF), è stata un’invasione e un’occupazione sfacciatamente e monumentalmente illegale e immorale dell’Iraq da parte dell’unica Superpotenza. Non si è trattato solo del fatto che allo Zio Sam è capitato di trovarsi coinvolto in qualche modo sul suolo iracheno. Secondo: i redattori del Times minimizzano i danni causati all’Iraq dall’invasione e occupazione imperiale. Le loro riflessioni su ciò che “perseguita l’Iraq” sono un eufemismo per l’agghiacciante caos inflitto dagli Stati Uniti alla Mesopotamia. Come ha segnalato a metà gennaio 2008 il giornalista di sinistra, autore e editore Tom Engelhardt: “Che i morti civili tra l’invasione del 2003 e la metà del 2006 (prima dell’anno del livello peggiore della violenza della guerra civile) siano stati dell’ordine di 600.000, come ha riferito uno studio della rivista medica inglese The Lancet, o di 150.000, come suggerisce uno studio recente dell’Organizzazione Mondiale della Sanità; che due milioni o due milioni e mezzo di iracheni siano fuggiti dal paese; che 1,1 milioni o più di due milioni siano sfollati all’interno; che le interruzioni dell’elettricità e la scarsità d’acqua siano marginalmente aumentate o diminuite; che il sistema sanitario del paese sia irrecuperabile o possa ancora essere ripristinato; che la produzione petrolifera irachena sia tornata ai minimi dell’epoca di Saddam Hussein o no; che i campi dei papaveri da oppio si siano per la prima volta estesi a tutto il territorio agricolo del paese o siano ancora relativamente localizzati, l’Iraq è una zona di continuo disastro su scala catastrofica che difficilmente trova paragoni nella memoria recente.” [1] Secondo il rispettato giornalista Nir Rosen, nell’edizione di dicembre della rivista convenzionale Current History [Storia attuale], “l’occupazione statunitense è stata più disastrosa di quella dei mongoli che saccheggiarono Baghdad nel tredicesimo secolo … L’unica speranza è che il danno possa forse essere contenuto.” [2] Terzo: è significativo che i redattori del Times considerino gli Stati Uniti “perseguitati” solo per le perdite inflitte al nostro popolo e al nostro governo. Non dovremmo essere anche, e specialmente, perseguitati dalla miseria omicida di massa peggiore dei mongoli inflitta dalla criminale guerra d’invasione e di occupazione imposta al popolo dell’Iraq? Anche accettando le statistiche fuorvianti dei redattori del Times, il danno causato all’Iraq supera di gran lunga il danno agli Stati Uniti, sia in termini assoluti sia in termini percentuali. Parte del motivo per cui i redattori del Times non sembrano maggiormente disturbati dal danno inflitto agli iracheni è suggerita da un rammarico espresso più avanti nell’editoriale “Dieci anni dopo”. “Nessuno degli architetti della guerra presso l’amministrazione Bush è stato chiamato a rispondere dei propri errori”, lamentano i redattori, “e ancor oggi molti sono invitati a parlare di tempi politici come se non fossero responsabili di una delle peggiori cantonate strategiche della politica estera statunitense”, [corsivo aggiunto] (Redazione del New York Times, “Dieci anni dopo”). Un’altra parte, correlata, del motivo dell’indifferenza degli editori è suggerito in un editoriale del campione dell’avanguardia bellicista neoliberale e regolare opinionista del Times, Thomas Friedman, una pagina dopo nel giornale di oggi: “Considerata la storia della sua brutale dittatura,” proclama Friedman, “l’Iraq potrebbe sembrare l’ultimo posto in Medio Oriente in cui avremmo dovuto tentare di far nascere una democrazia autogestita … la società irachena sotto Saddam è stata traumatizzata”, scrive Friedman, “e l’impatto di 35 anni di dominio autoritario non svanirà rapidamente”, come se nulla fosse stato fatto dagli Stati Uniti per traumatizzare l’Iraq all’epoca della deposizione di Saddam e dopo. Irreale. Friedman conclude con la speranza che “tutti quelli che si sono sacrificati perché l’Iraq avesse l’opportunità di un governo decente” vedano fiorire la democrazia negli anni a venire, determinando un “giudizio positivo” dell’invasione (T. Friedman, “Democratici, Dragoni e Droni”, NYT, 20 marzo 2013, A23). Non conta che l’invasione sia stata lanciata sotto pretesti totalmente falsi e inventati (“armi di distruzione di massa” e presunti collegamenti tra Saddam e al-Qaeda/11 settembre). O che la promozione della libertà e della democrazia sia stata esibita come la principale regione della guerra neocoloniale d’invasione una volta che i pretesti originali erano stati denunciati come inganni. O che l’occupazione sia proseguita contro l’opposizione della grande maggioranza del popolo iracheno. O che l’obiettivo reale e francamente imperiale dell’invasione, profondamente coerente con la politica estera statunitense dalla seconda guerra mondiale in poi, e anche prima, fosse chiaro come il sole a milioni in patria e all’estero: rafforzare il controllo statunitense sulle considerevoli e largamente non sfruttate riserve dell’economicamente e strategicamente super-importante petrolio. Non c’è nulla di nuovo qui. La critica dei redattori del Times dell’invasione/occupazione dell’Iraq rientra nel limitato spettro “falchi-colombe” che definì e limitò il campo accettabile del dibattito delle élite al potere sulla politica estera durante la guerra del Vietnam. Allora come ora le “colombe” ufficiali della dirigenza bipartisan dell’impero (tra cui il futuro consigliere di Barack Obama, Anthony Lake) potevano mettere in discussione soltanto i risultati pratici (per il potere e le vite statunitensi) e l’attuazione di una guerra di aggressione profondamente criminale e caratterizzata da monumentali assassinii di massa che insistevano nel considerare (o nel dichiarare di considerare) mossa da obiettivi nobili e democratici (mai imperialisti o razzisti). E le persone dalla parte sbagliata delle armi e delle politiche globali intrinsecamente dignitose dello Zio Sam erano oltre la sfera delle preoccupazioni immaginabili delle “colombe”. La critica della dirigenza presunta “contro la guerra” era rivolta all’impatto negativo della guerra del Vietnam sulle vite e sul potere statunitensi, non al ruolo dell’esercito statunitense nell’uccisione di due milioni o più di persone del Sud-Est dell’Asia. “Le colombe”, ricordava Noam Chomsky nel 1984: “sentivano che la guerra [del Vietnam] era ‘una causa disperata’ … [ma] tutti, all’interno dello spettro sin troppo ristretto dell’élite le ‘colombe’ non meno che i ‘falchi’ concordavano sul fatto che si trattava di una ‘crociata fallita’, nobile ma ‘illusoria’ e intrapresa con le ‘intenzioni più elevate’ … C’è una posizione possibile omessa dal fiero dibattito tra falchi e colombe e precisamente la posizione del movimento pacifista, una posizione in realtà condivisa dalla gran maggioranza dei cittadini ancora nel 1982: la guerra non era semplicemente un ‘errore’, come affermano le colombe ufficiali, ma era ‘fondamentalmente sbagliata e immorale’. Per dirlo in parole povere: i crimini di guerra, compreso il crimine di lanciare una guerra d’aggressione, sono da condannare anche se hanno successo nei loro ‘nobili’ scopi. Questa posizione non entra nel dibattito, nemmeno per essere confutata; è impensabile all’interno dell’ideologia prevalente” (corsivo aggiunto). Chomsky ricordava i commenti dell’opinionista “contrario alla guerra” del New York Times Anthony Lewis che aveva descritto una volta l’aggressione USA al Vietnam come “un goffo tentativo di fare del bene”, coerentemente con quella che Chomsky ha definito “la fondamentale dottrina secondo cui lo stato [USA] è benigno, governato dalle intenzioni più elevate” [3]. Tale, più di quattro decenni dopo, è la pretesa dottrinale riciclata della dirigenza imperiale bipartisan (dal presidente in giù) per quanto riguarda l’Iraq. L’idea che l’attacco criminale, immorale e petro-imperialista contro l’Iraq sia stato, beh, criminale, immorale e petro-imperialista è semplicemente inconcepibile nel regno dei parametri dottrinali dell’élite. Come Chomsky ha segnalato cinque anni fa “il ragionamento e gli atteggiamenti alla sua base proseguono quasi senza cambiamenti nei commenti critici all’invasione statunitense dell’Iraq.” [4] E’ realmente disgustoso che militaristi messianici come Paul Wolfowitz e altri pianificatori e propagandisti dell’”OIF” siano trattati con rispetto e ricevano considerevoli compensi per condividere le loro idee rancide sugli eventi del mondo dopo le loro monumentali trasgressioni. Wolfowitz, George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld e gli altri, compresi Condi Rice e Colin Powell (l’insabbiatore, a suo tempo, di My Lai che vendette alle Nazioni Unite il pretesto criminalmente falso delle armi di distruzione di massa per l’invasione) dovrebbero essere rinchiusi dietro le sbarre per il resto dei loro giorni. Ma “errori” e “cantonate strategiche” non assolvono secondo alcun criterio morale civile quando si tratta di valutare l’invasione e l’occupazione statunitensi dell’Iraq, criminali e sfacciatamente petro-imperialiste (e abbondantemente bipartisan). Paul Street è autore di molti libri, tra cui Note: [1] Tom Engelhardt, “The Corpse on the Gurney: the Success Mantra in Iraq” [Il cadavere nella lettiga: il mantra del successo in Iraq], Antiwar.com, 18 gennaio 2008, letto presso www.antiwar.com/engelhardt/?articleid=12229 [2] Nir Rosen, “The Death of Iraq” [La morte dell’Iraq], Current History, (dicembre 2007), 31. [3] Noam Chomsky, “The Mechanisms and Practices of Indoctrination” [I meccanismi e le prassi dell’indottrinamento], 1984, 207-208 in Chomsky on Democracy and Education [Chomsky a proposito della democrazia e dell’istruzione] di Noam Chomsky, a cura di C.P.Otero (New York, RoutledgeFalmer, 2003). [4] Noam Chomsky, “Why is Iraq Missing From the 2008 Presidential Election” [Perché dell’Iraq non si parla nelle elezioni presidenziali del 2008], discorso collegato e riprodotto presso www.democracynow.org/2008/2/26/noam_chomsky_why_is_iraq_missing Da Z Net Lo spirito della resistenza è vivo www.znetitaly.org
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