La Jornada
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26 gennaio 2013

La resistenza e il mondo nuovo dei territori
di Raúl Zibechi

Ieri, 25 gennaio, era il compleanno di Raul Zibechi, per molti anni avamposto sudamericano della redazione di «Carta» e oggi di quella di «Comune». Abbiamo raccontato a Raul lo sgombero e la rioccupazione dei ragazzi romani di Scup e Reset e lui ci ha detto che magari il suo ultimo articolo, sebbene scritto e riferito ai movimenti territoriali che resistono dall’altra parte dell’oceano Atlantico, potrà essere utile agli occupanti. Alla loro «movida» comunque, ha detto Raul, quell’articolo è oggi dedicato insieme a un brindisi per la nuova occupazione. Se abbandoneremo i territori, vinceranno los de arriba, scrive Zibechi, perché i territori giocano un ruolo decisivo nella costruzione di un mondo nuovo. Resistono alla guerra contro la vita e promuovono relazioni sociali differenti, spesso basate sul valore d’uso e non su quello di scambio.

I movimenti con base territoriale, rurali e urbani, composti da indigeni e afro-discendenti, da contadini e ceti popolari, hanno giocato un ruolo decisivo nella resistenza e nella de-legittimazione del modello neoliberista. Dai loro territori, quei movimenti hanno lanciato formidabili offensive che hanno aperto crepe nel sistema dei partiti su cui si basa la dominazione e hanno modificato lo scenario geopolitico regionale. In modo diretto e indiretto, i movimenti con base territoriale hanno esercitato influenza sul livello locale, nazionale, regionale e globale.

Hanno inoltre giocato, e giocheranno, un ruolo decisivo nella costruzione di un mondo nuovo. Se quel mondo, come segnala Immanuel Wallerstein (La Jornada, 12 gennaio 2013), sarà il risultato di un’infinità di azioni nanoscopiche, le piccole farfalle capaci di costruirlo abitano territori nei quali resistono e nei quali possono costruire relazioni sociali differenti da quelle egemoniche. Non è con manifestazioni né con dichiarazioni, per quanto di massa e partecipate esse siano, che si crea il «socialismo» ma con pratiche sociali messe in atto in spazi concreti. Territori che resistono e che spesso sono spazi in cui sta nascendo il nuovo.

Fin qui, abbiamo visto temi che stiamo discutendo in questi ultimi anni. Il capitalismo può essere sconfitto se siamo capaci di espropriargli i mezzi di produzione (e di trasformazione) in un lungo processo. La questione, però, non finisce lì. Il sistema ha imparato a disorganizzare, diluire, cooptare e annichilire con la forza (tutto insieme, non con azioni disgiunte) i soggetti nati e radicati nella resistenza territoriale. La combinazione della forza bruta (militare e poliziesca) con le politiche sociali per combattere la povertà è parte di quella strategia di annientamento.

In questa situazione complessa e difficile, da parte dei territori nei quali sono nati molteplici soggetti collettivi cresce la tentazione di ripiegare alla ricerca di luoghi più propizi in cui continuare a crescere. A volte si scommette sul fronte sindacale, altre su quello studentesco e altre ancora su quello elettorale. Una discussione di questo tipo attraversa i movimenti soprattutto in Argentina, Cile, Paraguay e Perù, sebbene sia presente in quasi tutti i paesi.

Di certo, la pura dimensione territoriale da sola non basta. Perché deve comprendere modi differenti di fare politica, dove la gente comune decida ed esegua; perché c’è bisogno di creare forme di potere diverse da quelle dello Stato; perché per garantire l’autonomia territoriale è indispensabile assicurare la sopravvivenza materiale, cioè la salute, l’educazione, la casa e l’alimentazione per tutti e tutte.

Non possiamo dimenticare, tuttavia, che i territori sono elementi chiave, per la lotta che vuole creare un mondo nuovo, a causa di due ragioni, diciamo, strategiche: si tratta di creare spazi dove possiamo garantire la vita de los de abajo, in tutte le sue poliedriche dimensioni; e perché l’accumulazione per esproprio o per guerra – che è il principale modo di accumulazione del capitalismo attuale – ha trasformato i movimenti territoriali nel nucleo della resistenza. La mutazione del capitalismo che conosciamo come neoliberismo è guerra contro la vita.

Alle due ragioni esposte, si potrebbe aggiungere un terzo argomento: è possibile resistere solamente nelle relazioni tessute intorno a dei valori d’uso, siano essi materiali o simbolici. Se invece ci muoviamo solo nei valori di scambio, ci limitiamo a riprodurre quel che c’è. Chiusi dal post-fordismo i pori della vita nelle fabbriche, è nei territori, nei quartieri, nelle comunità o nelle periferie urbane che – anche quegli stessi lavoratori – si legano tra loro in forme di reciprocità, mutuo aiuto e cooperazione che sono relazioni sociali modellate intorno allo scambio di valori d’uso.

Non è una questione teorica e pertanto si può solo «mostrare». Bisogna conoscerla e praticarla, altrimenti non si capisce. Resistere oggi è proteggere la vita e costruire vita nei territori controllati collettivamente. Il punto è che se abbandoniamo i territori, hanno vinto los de arriba. E in questo punto non ci sono due alternative. Possiamo solo farci forti e autonomi lì, neutralizzando le politiche sociali che vogliono distruggere la dimensione collettiva «salvando» il povero come individuo.

Il popolo mapuche resiste da cinque secoli afferrandosi ai suoi territori. In questo modo ha vinto i conquistadores spagnoli e nei territori si è rifugiato per raccogliere le forze dopo la sconfitta che gli ha inflitto la Repubblica criolla (l’esercito cileno, ndt) nella guerra di sterminio conosciuta come la Pacificazione dell’Araucanía nella seconda metà del secolo XIX. Nei loro territori, i Mapuche hanno resistito al diluvio della dittatura di Pinochet e alle politiche anti-terroriste della democrazia, opportunamente condite con politiche sociali al fine di sottometterli con le briciole, cosa che non si era riusciti a fare con i bastoni.

Non è un’eccezione ma la regola. Il Chiapas, Cauca (Colombia, ndt), Cajamarca (Perù, ndt), dove si resiste al Progetto Conga, Belo Monte (Brasile, ndt), El Alto (Bolivia, ndt) o le aree dell’espansione urbana di Buenos Aires, tra i molti altri esempi che possiamo fare, mostrano che la combinazione tra la guerra e l’addomesticamento è la forma di sterilizzare le resistenze. Quel che differenzia questi territori è che lì esistono modi di vita eterogenei sui quali è possibile creare qualcosa di diverso da ciò che impone il modello egemonico. Non ci illudiamo: questa possibilità oggi non esiste né nelle fabbriche né in altri luoghi dove tutto è valore di scambio, dal tempo fino alle persone.

Per questo le politiche sociali sono state «territorializzate», perché i gestori del capitale si sono accorti che stavano perdendo terreno di fronte alla nascita di soggetti formati da chi non aveva niente da perdere: donne, uomini e giovani senza futuro in questo sistema, da quelli che per il colore della pelle, la cultura e il modo di essere non hanno possibilità di entrare nelle istituzioni, nemmeno in quelle che si proclamano di sinistra o a difesa dei lavoratori. Quelli che esistono solo come rappresentati, cioè come assenti.

Non ci sono alternative al lavoro territoriale, né scorciatoie per rendere più corto e sopportabile il cammino. L’esperienza recente mostra che è possibile rompere l’accerchiamento del sistema contro i nostri territori, che si può superare l’isolamento, sopravvivere e andare avanti. Persistere o no, è una questione di volontà.

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