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novembre 1, 2013

Qual è il progresso verso l’utopia?
di Antonino Drago

Chi ha vissuto il cosiddetto ’68 sa che a quei tempi si aveva la sensazione che la società alternativa fosse dietro l’angolo. Per molti bastava denunciare la insufficienza congenita delle istituzioni per farle crollare e così iniziare un mondo nuovo. Tra i più politicizzati c’era l’idea che era giunto il momento della riscossa del proletariato dalla sua secolare subordinazione. Si poteva allora pensare di rifare tutto daccapo, dallo Stato alla scienza (alla quale si applicò, sembrava per la prima volta, la radicale critica marxiana).

Nel passato il positivismo marxista aveva insegnato che non si può cambiare la struttura sociale se non si è cambiata la base economica. Occorreva quindi la rivoluzione dei due tempi: ora la rivoluzione; e poi, ottenuta la vittoria, la costruzione dell’alternativa.

Questa era una idea ingenua del conflitto; se non altro perché rimandava ai tempi lunghissimi quella che era la soddisfazione della motivazione di tutta la lotta. Durante il maggio francese lo si disse forte: basta con le “rivoluzioni dei papà”, quelle che impegnano tutto l’oggi per un futuro quasi imperscrutabile.

Quindi la novità globale aveva come segno più immediato la ripresa dei rapporti umani nella loro totalità, senza più freni inibitori dati dalle istituzioni. Marcuse lo diceva: la società del passato aveva imposto a ciascuno una repressione addizionale, rispetto a quella sufficiente per costruire la propria personalità; questa aggiunta pesante serviva alla società autoritaria e verticistica a fare marciare tutti senza far nascere problemi. Ora invece si trattava di liberare il potenziale umano delle masse per rivolgerlo a fini autonomi e per autogestirli. Tutto tornava a dipendere dal singolo, che si sentiva padrone di sé e della storia. Perciò per molti il ’68 è stato il tempo della libertà di provare tutte le esperienze, dalla grossa moto (film “Easy rider”), alla auto magari di classe, alla libertà sessuale, all’LSD.

Però la nuova storia era da realizzare non da soli, ma con altri che mettevano la libertà alla base della vita; assieme avrebbero potuto realizzare quella società che nel passato era mancata completamente: non più la oppressiva convivenza con infinite persone sconosciute soggette a un lavoro cieco, ma le libere aggregazioni delle persone che vivono rapporti di festa, oltre che del giusto lavoro.

D’altronde, tutti i popoli che la società occidentale aveva schiacciato (dai pellerossa ai villaggi comunitari russi) erano costituiti in comunità. E nel Paese rivoluzionario per eccellenza, la Cina, le comunità agricole davano la educazione sociale ai giovani che poi si iscrivevano all’università.

Ma anche il rivoluzionario per eccellenza, Marx, che per qualche anno aveva fatto vita comunitaria e che proponeva il comunismo radicale tra tutti gli uomini, aveva detto chiaramente che il comunismo non era quello delle donne. Egli aveva fatto tesoro della esperienza del dopo rivoluzione francese; anche allora la gente aveva pensato che occorreva liberarsi di tutte le strutture oppressive; e, per immergersi nei rapporti di gruppo, aveva attraversato tutte le avventure, dal femminismo esasperato, al sesso libero, alla vita da jeunesse dorée, alla vita in comunità, alla ricerca dell’Oriente. Marx avvertiva che il comunismo non doveva essere né infantile né utopico, ma strutturale; e per saperlo realizzare aveva costruito una struttura intellettuale che interpretava la storia. Ma nei fatti questa struttura era risultata appunto troppo ideologica e forzante.

Ma allora, se i rapporti umani non erano tutto perché bisognava cambiare anche le strutture, ma anche le strutture dovevano essere affronate in modo nuovo, quale doveva essere il progresso? Forse quello di cambiare la propria civiltà? Così avevano fatto i Beatles, che andarono tra i primi in India, laddove si poteva ritrovava una società primordiale ma spiritualmente avanzata.

Già, la spiritualità. L’uomo alla fin fine non può fare a meno di interrogarsi su se stesso e sulla sua avventura. L’India con i suoi 5.000 anni di ininterrotta civiltà sembrava il massimo di spiritualità; anche perché aveva esempi fortissimi di personalità e di comunità. Allora si scoprì che sì, bisogna essere liberi, ma occorre ritrovare il Sé, quella struttura basilare che da secoli gli occidentali avevano perso, o che avevano sostituito col razionalismo (applicato anche alla Bibbia), o peggio ancora con l’interesse personale che tutto tira a proprio vantaggio.

Perciò la vita in comunità doveva regolare le varie pulsioni individuali con la crescita di una spiritualità. Di certo, non quella dei frati dei tanti ordini sopravvissuti; né quella di Comunione e Liberazione, di stampo parrocchiale quasi classico; ma casomai una di tipo orientale, o comunque con forme poco istituzionali, in modo che un occidentale si sentisse innovativo anche quando discendeva nel profondo di una millenaria sapienza di vita.

Ma anche l’India chiedeva un pedaggio: una sua ritualità e una sua idealità spirituale. Le quali sì, sono del tutto diverse dalle occidentali, ma alla fine sono sempre pratiche religiose, sanitarie, anche alimentari di base; più semplici, ma anche più esigenti sotto vari aspetti. Come integrare le due tradizioni spirituali (orientale e occidentale) in una sintesi di nuova civiltà? Mille risposte sono nate, dalle tradizioni occidentali minoritarie e marginali (gli elfi, ad es.), alle novità cattolico-tantriche (Ricostruttori nella preghiera: riconosciuti ufficialmente dal 1978, con 50 comunità, anche all’estero).

Più in concreto, occorreva rispondere a tante domande: quando si fonda una società nuova, i partecipanti debbono condividere una spiritualiità, o le diverse spiritualità delle diverse persone possono convivere senza che anche le loro pratiche non facciano sentire a disagio gli altri? Occorre una base comune di valori di riferimento? Nelle relazioni comuni, questi valori e questa religiosità di riferimento debbono essere qualcosa di più di un gioco sociale? Il capo è in funzione solo della impostazione spirituale (e magari solo temporaneamente)? Si riesce a sopravvivere in gruppo senza avere un capo-papà culturale e psicologico? Pratiche alimentari rigide vanno anche bene, ma poi che male c’è se ci si prende la libertà di trasgredire? Ha ancora senso, dato lo spontaneo ribellismo di ciascuno, l’etica dei giudizi (azione buona/cattiva)? La vita interna può/deve avere una regola scritta?

Forse tutti questi dilemmi sono semplicemente tanti esempi di conflitto, più o meno personalizzato: come averne la soluzione? Se, per disperazione, una comunità ha fatto mai ricorso a uno psicologo, ha dovuto sperimentare la spietatezza intellettuale dell’Occidente, sia pure avanzata e accattivante. Allora è sembrato che, per fare una comunità, occorre che almeno qualcuno abbia maturato una nuova concezione di come risolvere tutti i conflitti, o almeno quei conflitti che avvengono dentro la comunità. Infatti, generale è stata la speranza che tra la gente alternativa sorgesse spontaneamente una expertise sulla conflict-resolution. Ma più di una comunità è stata sicura di aver trovato il metodo, ad esempio in Rosenberg, e poi la natura umana dei partecipanti è apparsa al di fuori di ogni preparazione al conflitto.

Dove sta dunque il superamento della società tradizionale? Quale è la direzione su cui bisogna puntare per avere un progresso sicuro? Che vuol dire essere progrediti rispetto alla vecchia società, tanto da averla superata, da sentirsene finalmente superiori? Sono 50 anni che si è cercato di chiarire questo punto; e purtroppo non sembra ancora che sia apparsa una luce direttiva. Oggi, si può provare a ricominciare, senza timore di un fallimento, tanto più doloroso quanto maggiore è l’entusiasmo iniziale? O è inevitabile ricadere in questa società, che, pur imponendoci contorcimenti e ribaltamenti, riesce a gestire dall’alto le disparate pressioni sociali?

Di fatto ci si è accorti che la società occidentale ha 2500 anni di cultura e di organizzazione; la si supera solo con una alternativa che sia anche alla sua altezza; cioè solo se le comunità hanno una forte strutturazione. Ma quale tipo di strutturazione?

Nel 1936 un laureato in filosofia e artista spiantato, Lanza del Vasto si pose la domanda che era quella giusta per quel tempo: perché gli uomini ricadono sempre in guerre, sempre più grandi? Poiché tutta la sua cultura non gli dava una risposta, la cercò nella persona giusta: Gandhi. Andò da lui e ne fu discepolo, imparando che la pace si costruisce riorganizzando la società sulla nuova base di villaggi-cittadine nonviolenti (Pellegrinaggio alle sorgenti (1943), Il Saggiatore, 2005). Tornò in Europa per fondare comunità; pazzo, era il tempo della massima centralizzazione verticistica (fascismo, nazismo, stalinismo, franchismo). Riuscì, benché con ritardo (1948), a fondare un ordine laborioso, di tipo gandhiano, composta da celibi e sposati, aperto a tutte le spiritualità.

In più costruì una teorizzazione (I Quattro Flagelli (1959), SEI, 1996), che è risultata quella tipica della nonviolenza: gli uomini liberi si organizzano secondo quattro modelli di sviluppo (questa dizione è successiva, di J. Galtung). Oggi la storia ce lo conferma: il primo modello di sviluppo (Galtung lo chiama blu) nacque alla fine del XVIII secolo con le rivoluzioni statunitense e francese; il secondo (rosso) con la rivoluzione russa nel 1919, il terzo (verde) è nato in India con Gandhi e si è manifestato con le rivoluzioni dei popoli dell’Est del 1989; e il quarto (giallo) è nato con le rivoluzioni arabe (nel 1979 e soprattutto) nel 2011. In questa luce, il ’68 era la anticipazione-premonizione di questo terremoto politico mondiale.

Però oggi il brutto è che la nascita del modello verde ha comportato la fine (sia pur temporanea) del(la dittatura del) modello di sviluppo rosso (perché questo modello, cercando per primo l’alternativa al modello blu, si era fondato su una rozza teoria del conflitto: soppressione dell’avversario e dittatura su quello stesso proletariato che avrebbe dovuto liberare). Per di più il verde ha fatto sì molte rivoluzioni, ma non sa ancora costruire il suo Stato-federazione di villaggi. Cosicché dal 1989 il blu ha creduto di essere rimasto di nuovo il solo modello possibile e ha spadroneggiato: globalizzazione, corsa agli armamenti, guerre. Ma già Capitini e poi Lanza del Vasto (“il crollo dell’eroe occidentale”) hanno previsto che cadrà; dal 2002 Galtung ha scritto un libro (The fall of US Empire – And Then What?, Transcend U.P.) che, sulla base di parametri macrosociali dà la data: 2020.

Intanto nel 2011 le rivoluzioni arabe hanno riproposto con forza la incommensurabilità che esiste tra i diversi modelli di sviluppo: non è possibile ridurli a uno solo! Ora quelle rivoluzioni affrontano traumaticamente il problema cruciale che è rimasto irrisolto da tutte le rivoluzioni alternative: come la comunità del modello Verde, la Umma del giallo, la collettività proletaria (-kibbutz) del rosso possono realizzare a livello nazionale una loro specifica organizzazione ma diversa da quella dello Stato occidentale? Di certo il nuovo Stato deve rifuggire dalle dittature, per realizzare ben più che la tolleranza voltairiana e la democrazia del 50% + 1 (che si attua con leggi imposte a tutti): deve realizzare la coesistenza nelle differenze dei quattro modelli: appunto la novità storica del pluralismo politico, sapendo tutti affrontare i conflitti radicali che possono nascere senza farli esplodere.

Allora si capisce perché il ’68 è stato solo un conato senza sbocco e senza suggerimento di una direzione; c’erano da capire delle novità troppo radicali sulla politica del futuro, che invece allora sembrava realizzarsi quasi automaticamente, dietro l’angolo. 

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