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12 marzo 2013

L'Italia in una terra di mezzo
di Alessandro Volpi
Università di Pisa

I numeri disegnano un Paese alle prese con la sparizione della capacità di risparmio, con il brusco impoverimento dei giovani e con una disoccupazione particolarmente estesa tra i lavoratori “anziani”. Ecco perché non possiamo permetterci di perderci nelle schermaglie della politica

I dati sull’impoverimento degli italiani sono ormai fin troppo crudi. Una recente indagine di Bankitalia ha messo in luce che due famiglie su tre ritengono di disporre di un reddito inferiore al necessario. In maniera ancora più esplicita, i numeri oggettivi certificano che il tasso di risorse investite o accantonate dalle famiglie italiane è crollato dal 25% degli anni Ottanta all’8,6% del 2011, e che la percentuale di nuclei familiari con un reddito inferiore ai consumi è aumentata di quasi tre punti fra il 2008 e il 2010, raggiungendo il 22% del totale.  

In estrema sintesi, sta profilandosi rapidamente la scomparsa di un meccanismo che aveva funzionato nei decenni passati e che era costituito dalla capacità delle famiglie italiane di generare risparmio, destinato a svolgere la funzione di naturale ammortizzatore sociale in virtù di una sorta di patto intergenerazionale per cui i risparmi dei vecchi sostenevano il sempre più lento inserimento dei giovani nel mondo del lavoro. Un simile aspetto, in presenza di un accesso al credito in costante diminuzione sia per famiglie che per imprese, contribuisce a rendere evidente il veloce peggioramento delle condizioni di vita dai giovani, afflitti da un impoverimento decisamente più marcato di quello delle altre generazioni. 
 

Le famiglie povere con età inferiore ai 35 anni sono oramai il 30% del totale, a fronte di una percentuale del 12,8 del campione nazionale, con un incremento importante rispetto all’inizio degli anni Novanta, quando le percentuali erano rispettivamente del 9 e del 5,8%, e del 2001, allorché erano già salite al 17,2 e all’11,4 per cento. Una prova altrettanto evidente delle difficoltà delle giovani generazioni emerge dalla percentuale, sensibilmente aumentata, di famiglie in affitto tra quelle con i redditi più bassi: sono povere il 33,8% delle famiglie che vivono in affitto, a fronte di una percentuale del 6,1% tra i proprietari. L’allungamento della vita degli anziani e il conseguente ritardo nei passaggi ereditari moltiplica il numero dei giovani affittuari poveri che non riescono a beneficiare neppure dell’aiuto dei genitori titolari di pensioni, in costante affanno davanti all’aumento del costo della vita. In questo senso, il 2013 sarà particolarmente pesante per salari e pensioni perché il fiscal drag si mangerà in media 315 euro di tasse per un lavoratore single e 420 per uno con carichi familiari. L’aumento nominale delle retribuzioni infatti farà salire i redditi spostandoli su scaglioni di aliquota superiore, per quanto le stesse retribuzioni cresceranno meno dell’inflazione; dunque più tasse e minore potere d’acquisto.  

Sta riducendosi e modificandosi nel frattempo, anche la struttura delle ricchezza finanziaria degli italiani, che è scesa -in termini reali- di 306 miliardi di euro tra il 2010 e il 2011; una perdita enorme accompagnata da una sempre più accentuata disuguaglianza nella distribuzione del reddito. Il rapporto Eurostat ha messo in evidenza che il nostro paese è quello in cui, utilizzando il coefficiente di Gini come strumento di valutazione, la disuguaglianza di reddito risulta di oltre un punto percentuale superiore alla media Ue; questo significa che, nonostante le disuguaglianze siano molto cresciute in pressoché tutti gli stati europei, in Italia un simile fenomeno è stato ancora più pericolosamente rilevante. La struttura della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane presenta un ulteriore dato non tranquillizzante: ancora nel 2011, la metà di tale ricchezza era detenuta in forma liquida, depositata in conto corrente o presso gli uffici postali, ma per il 23% era impiegata in attività rischiose (fondi comuni, azioni e attività estere). Solo l’11% era rivolta a titoli di Stato, una percentuale, quest’ultima, ridottasi sensibilmente dall’inizio degli anni Novanta, quando un terzo del totale della attività finanziarie delle famiglie era impegnata in titoli di Stato.  

A rendere -se possibile- il quadro ancora più critico concorrono i dati relativi alle persone che si sono iscritte al collocamento nel corso del 2012: 367mila soggetti che hanno perso il lavoro e che, sommate a coloro che cercano il primo impiego, portano il totale a 600 mila individui. Qui, gli “anziani” sono in numero maggiore dei giovani, dato che il 17% ha meno di 25 anni e il 25% ha più di 45 anni, con una percentuale di nuovi iscritti al collocamento che è cresciuta del 43% tra gli over 45 e del 55% tra gli over 55. 
Questi numeri disegnano un Paese alle prese con la sparizione della capacità di risparmio, e quindi di ammortizzare le congiunture negative, con il brusco impoverimento dei giovani e con una disoccupazione particolarmente estesa tra i lavoratori “anziani”.

Con questi numeri possiamo ancora permetterci di perderci nelle schermaglie della politica che ha congelato i propri orizzonti temporali e ci ha precipitato in una strana e insidiosissima terra di mezzo?

 

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