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15 nov, 2013

Jeremy Hammond, l’hacker condannato a 10 anni
di Stefania Giudice

Il giovane attivista era stato arrestato nel 2012 per l'attacco hacker lanciato da Anonymous nel 2011 ai danni dell'agenzia di intelligence "Stratfor", i cui documenti sono stati poi pubblicati da WikiLeaks

Sul profilo Twitter “Free Jeremy Hammond” ecco arrivare il verdetto: “10 years”. L’ultimo messaggio risaliva a quattro ore prima: “We will be entering the court room shortly. This means no phones & no updates for a while. I will update as soon as I can. Love & rage”. Oggi, per l’hacker Jeremy Hammond, era il giorno della sentenza. Confermata la pena di cui si parlava. Per lui 10 anni di carcere. Ma facciamo un passo indietro e ricordiamo brevemente la sua storia.

Jeremy Hammond è nato nel 1985 ed è un attivista politico. Nel 2003, ad appena 18 anni, ha fondato il sito HackThisSite, dedicato alla formazione sulla sicurezza dei computer. Ma il suo nome è balzato agli onori della cronaca nel 2012, quando è stato arrestato con l’accusa di aver compiuto crimini informatici. Hammond è finito dietro le sbarre, insieme ad altri membri di LulzSec, dopo l’attacco hacker lanciato da Anonymous nel dicembre del 2011 ai danni dell’agenzia di intelligence privata americana “Stratfor”. Un attacco con il quale sono state prelevate dai server della società 5,3 milioni di e-mail aziendali e che ha visto coinvolti oltre 850mila clienti, anche organi governativi. Documenti poi pubblicati da WikiLeaks.

Hammond si è dichiarato colpevole e ha ammesso il suo coinvolgimento nell’azione di hackeraggio, pur sostenendo di aver agito non per profitto, ma solo per motivi etici. Nel dichiararsi colpevole, Hammond aveva fatto sapere: “Le persone hanno il diritto di sapere cosa i governi e le società stanno facendo a porte chiuse. Ho fatto quello che ritengo giusto”. Ora, dopo aver trascorso già diversi mesi in carcere, è arrivato il verdetto della Corte di New York.

Nel raccontare la vicenda di Jeremy Hammond, un articolo pubblicato da L’Espresso nel dicembre del 2012 aveva spiegato che l’Fbi era arrivata al ragazzo attraverso un altro hacker, Sabu. Quest’ultimo per lungo tempo, attraverso la Rete, aveva incitato attacchi. Ma Sabu non era nient’altro che un collaboratore dell’Fbi. Ecco allora che L’Espresso si era chiesto:

“Ma perché l’Fbi ha permesso che Anonymous facesse razzia dei documenti interni di Stratfor, senza muovere un dito per proteggere l’agenzia e senza impedire che i file arrivassero a WikiLeaks e finissero sui giornali di mezzo mondo? Tutta l’operazione puzza di trappola per Julian Assange. L’Fbi puntava a incastrare WikiLeaks, istigandola a partecipare all’hackeraggio oppure cercando di vedere se, sotto sotto, trafficava con i documenti, magari comprandoli dalle fonti o facendoli pagare ai giornali amici?”.

E a tal proposito, al settimanale, il legale di WikiLeaks Michael Ratner, del Center for Constitutional Rights di New York, aveva spiegato:

“Il nostro sospetto è che abbiano cercato di incastrare WikiLeaks, cercando di beccarla a fare qualcosa di più che non il semplice caricare i documenti sui propri server, una volta ricevuti. Forse speravano che [Assange] si mettesse ad aiutare Sabu o magari gli offrisse soldi. Ma non l’ha fatto: WikiLeaks ne esce completamente pulita. Ha ricevuto i documenti e li ha immagazzinati nei suoi computer”.

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